domenica 31 marzo 2013

Contro le empie e scellerate bande...



CONTRO LE EMPIE E SCELLERATE BANDE…



di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa

1. Il “picchio notturno”

       In altra epoca, “il tempo fra cane e lupo” designava un’ora della sera, fra la scomparsa del sole e l’avvento della notte, quando - come ha scritto Vittorio Sermonti - “i cani avevano riparato nel chiuso e i lupi non erano ancora usciti alla campagna”. Nell’ombra si muovevano i briganti.
Il 23 agosto 1860, il Sotto Intendente di Taranto, Salvatore Stampacchia, scrive al Sindaco di Taranto: “poiché la perniciosa classe di ladruncoli e di sospetti ladri debbasi strettamente vigilare… rimetto a Lei un notamento… ond’Ella si compiaccia di passarlo alla Guardia Nazionale per effettuare anche questa la sua parte di sorveglianza col picchio notturno”. La lettera suscita le ire del Sindaco, che comunque accondiscende alla fastidiosa organizzazione del “picchio notturno”, una sorveglianza dopo il tramonto dei “soliti sospetti”: una prima lista di venti vigilati speciali, ai quali se ne aggiungeranno altri quaranta. Per combattere la criminalità diffusa, i proprietari si tassano per armare alcune squadriglie mentre una commissione municipale organizza “visite domiciliari” nei luoghi sospetti e nei trappeti, arrestando quanti non sono in grado di giustificare i loro carichi di ulivo (1).
      L’8 dicembre del 1860 il Regio Giudice di Sava chiede soccorso al Governatore della Provincia: “ Un’ora tremenda della Nazione è qui scoppiata. Una turba di villani gira il paese, costringendo a gridare: Viva Francesco Secondo. Si gittano pietre alle finestre, per domani si minaccia di peggio; sono stati bruciati tutti gli stemmi reali. La Guardia Nazionale è inerte. Provvedete subito. Vi replico: tremo per domani”. La sommossa viene repressa dalla Guardia Nazionale di Oria e di Manduria: arrestati tre Torricellesi e ventotto Savesi, fra i quali è più duramente castigato il “serviente comunale Francesco Pichierri che fu capomotore del popolo nel subuglio di Sava eccitandolo col tamburo contro i liberali, e lacerando di persona più bandiere italiane ed infrangendo e bruciando gli stemmi sabaudi” (2).

2. “Simo briganti de lo re borbone, armati de coraggio e de ragione…”

      Durante la notte del 17 novembre 1861, fatti criminosi avvennero a Grottaglie: Cosimo Mazzeo detto Pizzichicchio, soldato del disciolto esercito borbonico, ribelle alla chiamata di militare sotto la bandiera sabauda, nei primi mesi del 1861 si era dato alla macchia, dando vita al primo nucleo di resistenza armata nel bosco di S. Marzano. Dopo aver scorazzato con la sua banda nel Leccese, prese ad aggredire le tenute vicine al comune di Grottaglie, dove molti renitenti alla leva ingrossavano le file dei briganti.  Giunta di notte, la banda fece il suo ingresso da Porta S. Angelo,  ricevuta in piazza da un folto gruppo di popolani che, sventolando una bandiera bianca, al grido di “Viva Francesco II, morte ai liberali” e sparando fucilate in aria in segno di giubilo, l’accompagnò nel paese illuminato come in una sera di festa: quindi “l’orda brigantesca coi tumultuanti che con essa facevano causa comune, aggredirono il Corpo di Guardia d’onde erano scappati i pochi militi in servizio, ne abbatterono a colpi di fucile lo stemma reale che era sulla porta d’ingresso, s’impadronirono di 16 fucili dello Stato, e infransero l’effigie di Re Vittorio; indi infransero a colpi di scure la porta della prigione, riuscendo a mettere in libertà i tre detenuti corregionali che vi si trovavano. Infine si diedero al sacco e al fuoco di talune case e botteghe” (3).
      In data 2 ottobre 1862 la Prefettura di terra d’Otranto emise un editto con il quale si comandava la chiusura di tutte le masserie della provincia ed il ritiro nei centri abitati di tutto il bestiame e il foraggio, richiesta che causava vivo malcontento fra i massari e non intralciava il vettovagliamento e il collegamento fra i “guerriglieri” (si ricorda anche la vicenda sentimentale intercorsa fra Pizzichiccio e la bella massara di Mezzacoppola, Addolorata Fumarola) (4).

3. La caccia al lupo

       Il 17 giugno del 1863 ebbe luogo nei pressi della masseria Belmonte lo scontro decisivo fra 37 componenti della banda del “Capitano Pizzichicchio” e un corpo speciale composto da 29 carabinieri a piedi, 19 a cavallo, 31 cavallegeri del Reggimento Saluzzo e 14 guardie nazionali, alla guida di un mastino: il capitano dei carabinieri Francesco Allisio. A combattimento finito si rinvennero sul terreno 17 briganti uccisi ed 11 feriti, fucilati l’indomani a Taranto, assieme a qualcun altro catturato con l’arma in pugno (5). Mazzeo fu tra i pochi a sfuggire alla malasorte e , con un gruppetto di fedelissimi, tentò qualche estorsione. Si associò alla banda di Coppolone, rubacchiando pecore ed oche. Nel dicembre del 1863 era presente con una ventina di armati in agro di Martina e in quella zona, presso la masseria Leggieruddo (poi Ruggerullo) il 16 dicembre 1863, si registrava il finale di partita. Un milite della Guardia Nazionale si avvicinò ad un caminetto sperando di poter accendere la pipa e s’imbattè invece in due piedi che sbucavano dal fumaiolo: appartenevano a Cosimo Mazzeo che venne tirato giù con uno schioppo, due pistole e un abitino della Madonna del Carmine. Un finale che sabbe piaciuto al regista Mino Monicelli.
      La battaglia di Belmonte, con l’annientamento del “mucchio selvaggio”, è stata invece rievocata da Franco Zoppo con grande pathos nel suo Belmonte, da annoverare - secondo Girolamo De Michele – fra i tre-quattro grandi romanzi storici del Novecento italiano. Il protagonista avverte l’impossibilità di schierarsi fra i briganti e i soldati, ma il dolore è per gli inseguiti, per i feroci perdenti: “L’orrore fisico degli uni, infatti, gli era meno invincibile della ripulsa intellettuale degli altri e, tra le due ferocie, quella d’una repressione studiata e razionalmente condotta si faceva detestare senza le attenuanti che le ragioni anzidette fornivano ai ribelli. Il lupo inferocito lo terrorizzava meno del cacciatore feroce, assecondato e preceduto da cagne studiose; gli ispirava anzi qualche senso di pietà, specialmente sul punto di vedergli le agute scane conficcate nei fianchi” (6).

sabato 30 marzo 2013

Il sogno della grande vela. L'architetto e l'assessore


IL SOGNO DELLA GRANDE VELA
L’ARCHITETTO E L’ASSESSORE
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "architettitaranto" 09, 2012
Nel fascicolo nn. 5/6 di <<Architettitaranto>> Giulio Ponti ha indicato la Concattedrale di Taranto come l’opera più felice e completa della seconda fase del lavoro creativo del padre, il grande artista Giò Ponti. E’ stato ricordato il sodalizio fra l’architetto e l’arcivescovo Motolese, che ha permesso di superare non pochi ostacoli (“forze negative esterne”) a partire dall’iniziale diffidenza delle Autorità Vaticane preposte al controllo delle nuove costruzioni ecclesiastiche, restie ad affidare l’incarico ad un architetto così moderno. Giulio Ponti ha efficacemente ricostruito il processo ideativo e l’evoluzione operativa della Concattedrale sorta “in mezzo a un prato”, in totale isolamento rispetto al contesto, ma vocazionata a divenire il “ nuovo cuore della città”, circondata nel verde da piazze, scuole, attrezzature sociali e culturali. Si sarebbe dovuto partire da un progetto urbanistico organico, parzialmente abbozzato dal Maestro Ponti; invece la Grande Vela è stata subito “aggredita, assediata, soffocata da banali (per non dire di peggio) condomini residenziali”.
Nel suo saggio La Chiesa e la Città (inserito nel volume collettivo Taranto negli anni Settata, in corso di stampa per le edizioni Mandese) Vittorio De Marco racconta il Grande Sogno dell’Architetto: “Proporrò, come mio omaggio alla città di Taranto, il piano che senza perdere neanche un centimetro del verde destinato a questa zona della città, pone la cattedrale al centro di una corona di opere architettoniche (per le quali è da bandire un concorso nazionale) affinchè attorno alla cattedrale, che sarà il fulcro vivente, sorga una zona di esemplare significazione di civiltà, che disponga ai margini del verde nel quale è immerso il Tempio, di alcune esemplari case di abitazione (la vita), di una scuola materna (l’infanzia), di una scuola media (l’adolescenza) ed infine di un complesso culturale civico costituito da una biblioteca-pinacoteca-auditorio. Ed ogni edificio avrà la vista sulla cattedrale”. Ed aggiungeva: “Che non s’abbia a dire: avevate una grande occasione e l’avete perduta”.
Figurarsi! I tarantini sono collezionisti di occasioni perdute. La visione della Grande Vela doveva afflosciarsi in una indecorosa storpiatura del progetto originario, piegato alla gretta cupidigia della speculazione edilizia. Ponti aveva progettato una Grande Vela rispecchiantesi nell’acqua delle vasche, simbolo del mare Jonio, sognando un infinito veleggiare della sua opera nella natura di una Taranto  “liberata”: “L’architettura della Cattedrale sarà compiuta - perché è stata progettata in questa versione - quando sarà aggredita dal verde dei rampicanti, assediata e difesa, selvaticamente, da ulivi, eucalipti, oleandri e piante a cespuglio della terra tarantina: e sarà bosco, fiorirà in primavera, perderà foglie in inverno. Quando sarà espropriata dalla Natura, appropriata da Dio, e navigherà nel cielo, suo territorio, abitata da uccelli”.
Aggredita dal verde? La Vela (la più qualificata  opera d’arte moderna presente sul territorio) è stata aggredita dalla lazzaronaggine, semplice o qualificata, del sottobosco assessorile. Una cattedrale che si voleva “sommersa nell’aria” è stata assediata da termitai in cemento, incagliata in vasche prima trasformate in immondezzai e poi pavimentate: una Vela arenata in un mare pietrificato  come intristita metafora di una Taranto inchiavardata.  Nel 1990 l’architetto Giulio Ponti, nella sacrosanta difesa dell’opera di suo padre, chiese all’assessore ai LL.PP. di tutelare l’integrità dell’opera d’arte, di “provvedere al ripristino di quanto è stato così immotivatamente demolito”, invece di procedere a indebite modifiche del progetto originario. Il bravo assessore Melucci, convinto che la sola Amministrazione cittadina avesse il diritto di mettere le mani sull’opera di un artista, ingiunse al Ponti di farsi gli affari suoi, con la minaccia che “ogni sua azione rivolta ad operare al meglio per questa grande e storica città di Taranto offende la professionalità dei tecnici locali e l’intelligenza dei tarantini e non è escluso un effetto negativo dei suoi desiderata” (!). A sgonfie vele, come sempre.

Note bibliografiche
G. PONTI - L. MORETTI, La concattedrale di Taranto, Taranto, 1983
V. DE MARCO, La vela di Giò Ponti, Taranto, 1989
R. NISTRI, Un monumento, una vela e il palio dei grulli, in <<Astolfo>>, Taranto, aprile 1990
M. TORRICELLA, Giò Ponti 1964-1971, Martina Franca (Ta), 2000

venerdì 29 marzo 2013

Nascita di una città. La terza Taranto: 1865-1882


NASCITA DI UNA CITTA’
La terza Taranto: 1865-1882

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa

Roberto Nistri

     Con l’unità d’Italia per la prima volta venne offerta ai 25.000 abitanti della vecchia Taranto l’occasione di costruire “fuori dalle mura”, di dare finalmente vita alla “Taranto nuova”. L’abitato
si trovava costretto nella cerchia delle vecchie mura e fortificazioni bizantine, sveve ed aragonesi che cingevano lo scoglio tra il Mar Piccolo e il Mar Grande, una poderosa fortificazione che, se da un lato costituiva una buona difesa, dall’altro costringeva le case e quindi la popolazione in uno spazio angusto e insufficiente, con  difficile comunicazione verso l’esterno attraverso i due ponti di pietra, obbligati e vigilati, di Porta Lecce e Porta Napoli. Considerando che larga parte della superficie dell’ “Isola” (250.000 mq.) era occupata da edifici religiosi, chiese e conventi che continuavano a fagocitare spazi, risulta comprensibile il senso di soffocamento che doveva angustiare la popolazione stipata nel groviglio dei vicoli e delle sopraelevazioni, in precarie condizioni igieniche e sanitarie. Si comprendono le pulsioni contraddittorie che determineranno il “carattere sociale” del tarantino negli anni a venire: da una parte l’attaccamento alla millenaria loco munita urbs e alla stretta vicinanza interpersonale, dall’altra la smania del vorace divoratore di spazi, del costruttore sempre alla ricerca di una “nuova” Taranto (1).
      Quando nel 1865 un Regio Decreto dichiarò Taranto città “aperta e libera” venne avviata la demolizione delle vestigia del passato con furia iconoclasta: una rinascita vissuta come rimozione (2). Ma troppa incertezza e scarsa disponibilità finanziaria ritardavano l’avventura al di là del “fosso” (3).  Eppure la “terza Taranto” stava per nascere, ritornando sulle proprie orme, laddove un tempo si estendeva la Taranto di Archita.
      Durante le celebrazioni dell’Unità non si è potuto trascurare il singolare parallelismo fra la storia nazionale e quella municipale: i 150 anni dell’Italia unitaria sono i 150 anni della Taranto moderna. Poteva rinascere la molle Tarentum, dolce città mediterranea e Porta dell’Oriente, con due mari brulicanti di barche e un promettente traffico mercantile, secondo i dettami della natura e della tradizione. Ma altra doveva essere la levatrice della “città nova”: la Marina militare, in conformità alle esigenze statuali, ebbe una funzione costituente e dirigente nella edificazione di una Urbs maritima strategicamente finalizzata alle glorie espansionistiche della neonata Potenza (4).
      Con scarsa fiducia nelle proprie risorse imprenditoriali, la borghesia cittadina fu allettata da un imponente investimento “eteronomo”, toccasana di tutti i problemi, convinta che il “Borgo” avrebbe trovato legittimazione e ossigeno in un polmone industrial-militare garantito e protetto dallo Stato: un buon affare, che paradossalmente rafforzava l’atavica sottomissione alla dimensione militare. Dopo la indolore transizione alla nuova forma-Stato, con lo “sviluppo donato” eterodiretto dalla Monocrazia industrial-militare, la “rivoluzione passiva” fra i due mari giungeva a compimento. Il futuro era segnato. (5).
       Anche il piano Conversano, approvato definitivamente nel 1865 con la prospettiva di ampliamento dei due sobborghi, avrebbe dovuto rifare i conti con l’Ufficio del Genio (appena insediato acquisì 216.000 mq. di terreno)  cancellando l’espansione di porta Napoli e allungando le direttrici di sviluppo a porta Lecce, dimenticando la prospettiva di risanamento del Borgo Antico. Con l’inizio dei lavori di scavo e costruzione del canale navigabile - ricorda lo Speziale - la spiaggia di mar Piccolo, “già così ridente pel rigoglioso fiorire di giardini e di grandi chiome di annosi pini a specchio dell’acqua, venne completamente trasformata, abbassata, livellata per migliaia e migliaia di metri quadrati. Là, ove la natura aveva tratto i più pittoreschi partiti dal continuo mutare dei fogliami e dai declivi del terreno, regnò sovrana la geometria” (6).
      L’architetto Frank Lloyd Wright ha scritto nella sua Autobiografia che una casa non deve mai essere su una collina o su qualsiasi altra cosa. Deve essere della collina, appartenerle in modo tale che collina e casa possano vivere insieme in armonia. Invece il testardo accanimento con cui i costruttori dichiararono guerra alla natura doveva essere ben sottolineato da Hector G. Preconi: “Taranto non fu risparmiata dalla spensierata mania di appianare degli ingegneri, che pongono un piano a scacchiera in ogni clima e su ogni suolo. La natura stessa aveva lasciato cadere la penisola a forma di duna verso i due mari, sicchè si poteva costruire una nuova città piena di aria e di luce, disposta a terrazze. Ma col compasso e il livello la Provvidenza fu corretta, e con enormi sacrifici finanziari tutto il terreno fu ridotto ad una superficie uguale ove si stendono, noiose e corrette, le nuove strade” (7). Venne l’ora della grande cementificazione e il Borgo si modellò come “fuori fabbrica” attorno all’imponente facciata dell’Arsenale, mentre un gigantesco muraglione (il primo di un’interminabile serie di muri) sequestrava irrimediabilmente il Mar Piccolo, tagliando il cordone ombelicale con l’habitat naturale (8). 

giovedì 28 marzo 2013

Eroici furori, fra trulli e ciminiere


Eroici furori, fra trulli e ciminiere
di Roberto Nistri

Un gran bel romanzo d’inizio millennio, questo Paese delle spose infelici di Mario Desiati: una storia di amori matti e disperati, una rabbia giovane che in motorino insegue una chimera, una corsa del criceto che non porta da nessuna parte, un andirvieni fra Taranto e Martina lungo i tornanti di Lorimini, un dolente on the road fra Infondoalmondo e Inculoallaluna, come direbbe Ascanio Celestini. Giovane e agguerrito caporedattore della rivista letteraria “Nuovi Argomenti”, Desiati travolge tutti gli stereotipi della “ridente” Martina, della Taranto dei due mari “ molle e imbelle” (dolce e pacifica, secondo Orazio), della Puglia ebbra dei pizzicomani e dei tarantellofili. Il suo romanzo è profondamente sudista e “sudicio” (un tempo, dalle nostre parti, si vantava l’antinomia fra Nordici e Sudici) e al contempo capace di catturare l’universale lettore grazie ad un parlato costruito come una successione di echi che incalza come un passaggio di sequenze filmiche, capace di far vedere per iscritto l’effetto di una smorfia di Stanlio o di De Niro.
 La capacità di fabbricare “visione” si coglie già nel folgorante incipit: nel “magico” torrente sottile che si attorciglia al Siderurgico, un’altera donna vestita da sposa s’immerge nell’acqua rosata di bauxite, la sua gonna si apre come un ventaglio, le ardenti spalle nude fanno arrossare le secche facce di altoforno di una dozzina di operai miseramente pasteggianti, la Fata Morgana attira verso di sé “lo sciame disperato di muscoli bruniti, petti ispidi, braccia ingiallite, occhi stregati”. Si avvia così la favola nera di Annalisa, la Regina delle martinesi Spose Infelici, la Madonna dei randagi, la masciara che corre nella notte, quella che “ se la fa con i cavalli”, che ha il respiro affannoso di un animale ferito, come “il guaito dei cani investiti sulla provinciale”.
Annalisa sarà il primo e ultimo amore di Veleno, un giovaneholden murgese che narrerà, con vulcanica e limacciosa struttura linguistica, di una fetente e verminosa provincia, ingorda di piaceri vietati e di riti persecutori, ai limiti del maleficio morboso e della negromantica jettatura . Come Jackfruscianteuscitodalgruppo (ma molto più loser , “inadeguato” e scorticato) sul suo cavallo d’acciaio Veleno corre dietro il fantasma del desiderio, l’amore fou, la possessione erotica che nutre la sempre aperta “ferita nel cervello”. Ma, nella caccia eroica di un senso in infinita fuga, un altro cavaliere sembra precederlo sempre di un passo: il grande amico Zazà, legrandmeaulnes che sovrasta la nigra brigata di Pezza Mammarella  (il non-campetto della non-squadra Esperia) e tuttavia viene rifiutato come professionista perché “è senza cattiveria”. Veleno e Zazà, triangolando con Annalisa, sono meglio dei truffautiani Jules e Jim: malinconici cercatori d’oro, odorano di camini e di limoni in terrazza, ma si portano appiccicati i miasmi dell’Ilva, il Grande Ragno mangiauomini. Il romanzo di formazione nasce da un “caleidoscopio biancheggiante di trulli e di lamie… nei caffè del Ringo tra una pasta alla crema e una granita alla mandorla” e tocca la massima coniunctio quando il terzetto, approdato sulla costa di uno dei colli delle Pianelle, viene accolto da uno spettacolo sontuoso come l’orrore dantesco: “il fungo metallico del Siderurgico, piovra capovolta, fumante come un caldano, sorgeva e si rannuvolava di vapori come acqua su un incendio crepitante”. La gola di Annalisa è “attraversata da due comete di Negroamaro” e viene in mente la bottiglia-feticcio di Fandango e la dolcezza del ballo finale.
Il potere simbolico di evocare altre suggestioni filmiche o di lettura è una prerogativa di quella Macchina della Memoria che è il buon romanzo. Annalisa che avanza sull’orlo del muretto, sempre in sospensione fra il pieno e il vuoto, ricorda la fanciullina di Pollack che cammina sui binari nella
Grande Depressione, raccontando la corruzione dell’innocenza e il destino di morte. Questi fragili ed estremi cacciatori di vita meriterebbero anche il titolo The Misfits (Gli spostati) dell’unico film di Huston con un personaggio femminile come motore del racconto. Per questi tras-andati guerrieri, con la loro comica corte di tangheri e debosciati (Mazzacane, Charleston, Capodiferro, Natuccio il Tossico, allevati dal mister Cenzoum) calza proprio bene il termine greco àtopoi, i fuori-posto, feriti dentro e fuori, in preda alla demartiniana “crisi della presenza”, capaci solo di correre verso la bagarre, quando si va in vacca nella mischia dell’impazzimento generale. L’autore sembra aver costruito un linguaggio su misura per loro, per questi mostri promettenti, adolescenti peticellosi che si raccontano fiabe scurrili in non-luoghi sordidi e goffi, dalla zona popolare 167 a Lido Zanzara, dal distributore di benzina all’innesto della Circumarpiccolo a Paolo VI, dove in una notte “l’eroina sterminò i metallari pugliesi”, mentre il diavolo danzava in calzamaglia.
Giocando con le trappole della memoria e della ritualità, la regìa di Desiati arma sapientemente questa sacra rappresentazione con aspre intricazioni di linguaggi che, nella musica sincopata dei discorsi, incorporano con naturalezza anche il vernacolo, con il gusto della parola rotonda, accentata, della desinenza insolita e delle illuminanti storpiature. E così attraversiamo a passo di corsa l’album dei fallimenti, i matrimoni che sanno di lutto nella loro resa ad una abbrutita sopravvivenza, il vicolo dei suicidi e il Ringo dei vivi che si sentono già morti . Una nigredo   che la scrittura trasmuta alchemicamente in poesia, anche i padri e i mariti smangiucchiati dalla fabbrica, anche il destino segnato di Annalisa, sempre avvinta da un cerchio stringente di maschi carnivori, di lemuri usciti da un’incisione di Goya o da una caricatura di Daumier. La Sposa Infelice sarà fuori posto anche nella tomba, salma assente per una Spoon River di sole pietre. “Vi mostrerò il viaggio e di tutto vi darò i segni”, aveva detto Circe a Ulisse.

Il 18 ottobre Mario Desiati ha presentato a Taranto il suo ultimo romanzo, “Il paese delle spose infelici”. L’incontro, organizzato dal Presidio del libro di Taranto, costituito dall’associazione Il Granaio e dalla libreria Dickens, è stato introdotto dalla professoressa Vittoria Tommassetti.



Up patriots to arms....


UP PATRIOTS TO ARMS…
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa

1. Viva l’Italia!

       Poteva andar peggio. Il centocinquantenario dell’unità nazionale sembrava dovesse malinconicamente spegnersi sotto i malefici influssi di una stella “ pseudopadana”. I morti ancora una volta hanno indicato la buona strada e l’Inno a Garibaldi ha risuonato gioiosamente lungo tutta la penisola, fino ad accendere la felicità civile di migliaia e migliaia di giovani nel concertone del Primo Maggio, a piazza San Giovanni. Dall’apertura dell’Inno di Mameli  con la chitarra di Eugenio Finardi alla composizione di Ennio Morricone, la meglio gioventù ha ballato ascoltando il battito cardiaco della sempre viva Repubblica Romana. E’ andata bene: la grande cultura della canzone popolare ha fugato le nubi del maligno sabotaggio, del velenoso spirito di scissione, dei negazionismi rancorosi e delle piccinerie localistiche.
      Onore a tutte le scuole grandi e piccole del Paese, sempre più vilipese e martoriate, che generosamente si sono prodigate confermando di essere la vera spina dorsale della nostra civiltà. Rievocazioni, articoli di giornale, qualche libro ci hanno aiutato a capire come siamo venuti al mondo. Talvolta con amarezza , ma un po’ di realismo fa sempre bene. Se ci siamo lasciati alle spalle le “aleate orditure agiografiche” , il pensiero unico e la stucchevole retorica dei tromboni di Stato, tanto di guadagnato. Come disse una volta Cesare Garboli: abbiamo avuto troppe storie diverse in questa penisola per poterle tutte riassumere  in una. Le rievocazioni sono servite a farci capire che i movimenti tendenti all’indipendenza furono più di uno, in contrasto l’uno con l’altro. L’unificazione ebbe un alto tasso di improvvisazione e di casualità: i suoi stessi artefici ne furono sorpresi, spesso furono guidati dagli eventi piuttosto che dominarli. Rimane la storia irriducibilmente plurale di un popolo che, ogni volta che si è trovato a toccare il fondo, nel Risorgimento come nella Resistenza, ha trovato la forza per rinascere.
      Naturalmente l’uso pubblico della storia o, detto più chiaramente, la disinvoltura con cui la politica maneggia la storiografia secondo opportunità o finalità di parte, produce inevitabilmente qualche patacca ideologica , come il sistematico oscuramento di alcuni valori fondativi della battaglia risorgimentale, come la laicità e l’anticlericalismo, e questo per non dare dispiacere ai “chercuti”, come li chiamava Garibaldi (la cui immagine è da  sempre la più taroccata e falsificata) (1). Possiamo consolarci con la “buona novella” di una fertile esplorazione locale, territorio per territorio, capace di recuperare le tracce di antiche passioni e generosi sacrifici, senza ciondolare nella sterile mitologia della Identità. Proprio la città di Taranto doveva essere particolarmente interessata a questo raffronto fra storia locale e storia nazionale, considerando una congiuntura davvero singolare: i 150 anni dell’Italia unita sono i 150 anni della moderna Taranto, la “terza Taranto” che andava a costituirsi “al di là del fosso”. Ci sembra che non da molti sia stata avvertita la grande opportunità di riflessione critica offerta da tale coincidenza e comunque le celebrazioni sono state di gran lunga superiori rispetto a quelle registrate in occasione del centenario (2).

2. Taranto e la “rivoluzione”

      In occasione delle celebrazioni del 1960 Antonio Rizzo ebbe a censurare l’assenteismo delle civiche amministrazioni di Puglia dalle celebrazioni del centenario dell’ingresso della regione nell’Unità d’Italia: “Se ci è stato risparmiato qualche sproloquio sulle fucilate del Caffè Moro, con condimento di epigrafi e risciacquatura di istorie locali, poco male, anzi meglio. Ma come si spiega il silenzio dei partiti popolari, che dall’occasione avrebbero potuto trarre incitamento a meglio studiare le condizioni delle nostre province sotto il Borbone, anche per rendersi conto degli applausi di quei poveri diavoli massafresi ai quali bastava aver visto il Borbone per essere felici?” (3).
       Nel mese di luglio venivano rinvenute scritte antigovernative a Castellaneta, Ginosa e Laterza, mentre a Palagiano venivano arrestati 19 cittadini per minaccia a pubblici funzionari. A Taranto furono arrestati venticinque individui per aver provocato una sedizione popolare (4). Le fucilate del Caffè Moro riguardano il più eclatante episodio della “rivoluzione tarantina”: la sera del 17 luglio 1860 il Sotto-Intendente De Monaco ordinò il fuoco contro alcuni “signori” seduti ai tavolini, ferendo tale Stefano Berardi. Lo stolto De Monaco, sequestrato da animosi cittadini, si diede alla fuga e venne sostituito da Salvatore  Stampacchia, patriota e letterato più volte processato sotto il Borbone. La “rivoluzione” proseguiva il suo corso. In agosto venivano rinvenuti cartelli antiborbonici, a Martina furono esposte alcune bandiere tricolori.
       L’8 settembre 1860, il giorno dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, la Giunta Municipale di Taranto, “assembratosi… nella casa del Signor Sotto-Intendente” accoglieva la proposta del sindaco Pietro Acclavio di “provvedere alla cosa pubblica in modo conforme alle mutate condizioni politiche de’ tempi”. (5)  Il 9 settembre veniva ufficialmente proclamata l’adesione di Taranto al governo provvisorio: il solito conformarsi ad uno stato di fatto irrevocabile. Lo spirto guerrier trovò modo di sfogarsi, come al solito, abbattendo i segni del passato e infuriando particolarmente contro la Fontana della omonima piazza. Alla proclamazione dei risultati del plebiscito, festa grande con luminarie, banda e fuochi (6).
      Da allora  la pubblicistica locale ha continuato a rimaneggiare un’aneddotica di origine largamente “criscuoliana”, dai contorni assai vaghi e aliena da ogni disciplina storiografica.  Una summa quasi conclusiva di questa tradizione è offerta da uno degli ultimi scritti di Giovanni Acquaviva in cui la tarantina “rivoluzione” viene narrata come una sorta di assemblea permanente in Vico Nasuti al n.11, con un lume a petrolio e un lettino per la bisogna; faceva da sentinella tale Cilluzzo, il salumiere Mimino Buontempo forniva i panini e, in caso di bisogno, il barbiere Ernesto praticava i salassi. Come si dice, c’erano proprio tutti: Vincenzo Carbonelli, Vincenzo Pupino, Giuseppe Fanelli, Pietro Acclavio, Cataldo Nitti, Demetrio Sassi, Luigi Ayr, Carlo Sorrenti, Nicola Galeota, Orazio Carducci, Giuseppe De Cesare, il frate Aurelio Perrone, Gaetano Piccione, Egidio Pignatelli e anche Nicola Mignogna che si era allontanato da Taranto in giovane età per non farvi più ritorno (7).
      Sulla situazione di Taranto durante la battaglia unitaria e sui maggiori protagonisti politici non si può dire che siano mancate volenterose ricostruzioni, ormai troppo datate - in particolare quelle di autori locali - anche per l’abuso di retorica e il carattere fantasioso di certe testimonianze (8). Una ripresa di qualità sulla storiografia della Taranto risorgimentale si è registrata solo con le robuste pubblicazioni di Lucia D’Ippolito: Cataldo Nitti e il suo tempo (2002) e Le carte di Cataldo Nitti (2005).

3. Mignogna, il più matto di tutti (F. De Sanctis)

      Il piccolo dio che sovrintende al tempo perduto ha permesso che venisse alla luce proprio a ridosso del fatidico 17 marzo (grazie anche al sostegno del Comune di Taranto) il volume di Valerio Lisi: L’Unità e il Meridione. Nicola Mignogna (1808-1870). Chi ha avuto modo, come lo scrivente, di seguire l’epica impresa di questo biografo appassionato che ha esplorato per anni gli  Archivi di Napoli, Torino, Genova, Parigi, Vienna, inseguendo le tracce del Patriota anche nei Musei del Risorgimento di Roma e di Napoli, ha talvolta temuto che il furor lisiano facesse naufragare l’impresa nell’insana caccia all’ultimo documento perduto. In un momento difficile, forse anche preoccupato per le difficoltà editoriali, Lisi aveva deciso di affidare il suo dattiloscritto (ne conserviamo ancora quattro o cinque diverse bozze) all’amorevole custodia della Biblioteca “Acclavio”. Ma l’ora più buia è quella che precede l’alba: il libro è uscito con una edizione curatissima, un piccolo monumento al valoroso “sovversivo”, sicuramente “più duraturo di quello che la città di Taranto, il ‘natio loco’, non volle o non potè dedicargli per ricordarlo alle nuove generazioni. Una sorta di risarcimento a fronte di quella pubblica commemorazione che arrivò con 19 anni di ritardo nel 1889 e dei due mancati appuntamenti in coincidenza con il centenario della morte (1970) e il bicentenario della nascita (2008)”, come si legge nella prefazione di Alessandro Laporta.
      Il testo di Lisi è sconsigliabile al lettore frettoloso, amante dei “fattarielli”, degli scoop sensazionalistici e della fantastoria. L’autore produce storiografia scientifica, consapevole che senza la filologia la historia si riduce a chiacchiera. Non si limita certo a mettere in fila i documenti, vizio tipico degli storici locali: produce giudizio storico, spiegazione degli eventi, comprensione di quel travagliato percorso che trasformò un tarentino in italiano. Lisi ha seguito passo passo la vicenda umana di Nicola Mignogna, seminarista di Taranto e compagno di classe di Cataldo Nitti, in rotta con il padre reazionario,  negli anni Trenta aderente al mazzinianesimo , partecipante a  Napoli ai moti del ’48, arrestato assieme all’intimo amico Luigi Settembrini (9). Mignogna diventò un eroe popolare grazie al grande processo del 1855-56 che ebbe eco profonda in tutta Europa: in un folto stuolo di inquisiti fu protagonista principale assieme alla rivoluzionaria gallipolina Antonietta De Pace (ambedue vennero sottoposti a pesanti torture che furono pubblicamente denunciate) (10). Il tarantino Mignogna e il martinese  Fanelli ebbero entrambi a che fare con la spedizione di Sapri e poi con l’impresa dei Mille: Mignogna venne incaricato da Bertani di raggiungere Garibaldi a Caprera per spingerlo all’azione. Il tarantino partecipò alla spedizione con il compito di decifratore della corrispondenza e tesoriere. La sua amministrazione fu oculatissima, anche quando si trovò a esercitare il ruolo  di pro-dittatore della Lucania. Emanò efficaci decreti per l’ordine pubblico, pur dovendosi misurare con il già vistoso fenomeno del brigantaggio - in particolare la vischiosa vicenda di Carmine Crocco - e in seguito nello scabroso rapporto con la camorra napoletana, che  si trovò a gestire occupando il dicastero di Polizia.
      Rimanendo a vivere a Napoli (poi a Giugliano) Mignogna continuò a cospirare con l’obiettivo di Roma capitale, venne eletto consigliere comunale e costituì la loggia “Figli dell’Etna” affiliata al “Grande Oriente”. Partecipò alla garibaldina impresa di Aspromonte e scese in campo per l’ultima volta approntando un nascondiglio di armi per la sfortunata battaglia di Mentana del 1867. Valerio Lisi ha accompagnato “l’antico ed imperturbabile cospiratore”, come ebbe a definirlo Mazzini, fino alla sua povera tomba napoletana. Ma ha anche rappresentato una grande storia corale che ci ricorda, come scrisse Antonio Rizzo durante le celebrazioni del 1960, che “l’unità, comunque raggiunta, fu per il Mezzogiorno il fatto positivo di maggior peso dopo lo sfasciamento dell’Impero Romano”.











NOTE

1)    Si veda il libro di Marco Pizzo Lo stivale di Garibaldi e la scheda di Daniele Castellani Perelli in “Venerdì di Repubblica” del 18 marzo 2011. Non consideriamo scandaloso il pamphlet antirisorgimentale del cardinale Giacomo Biffi, dall’anodino titolo L’Unità d’Italia. Centocinquantanni: è una schietta rivendicazione del portabandiera del neoguelfismo e dei resistenti del non expedit, nel contempo sempre ben disposti a patteggiare con il diavolo, altrimenti detto “uomo della provvidenza”. Segue la libera discussione. Quello che non è sopportabile è l’appalto romano del 17 marzo al segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone,  che già in occasione del XX Settembre aveva confiscato la Breccia di Porta Pia, impedendo  a qualunque associazione solo vagamente laica l’accesso al monumento, presidiato dall’antidivorzista e omofobo Movimento Politico Cattolico Militia Christi. Le associazioni laiche hanno protestato durante la sessione plenaria su “Libertà di pensiero, coscienza, religione e credenza” tenutasi il 1 ottobre 2010 a Varsavia presso l’OSCE.
2)    Fra le varie iniziative di pregio, la correlazione locale-nazionale ci sembra sia stata particolarmente curata dall’Istituto “Pitagora” (una manifestazione con l’ARCI il 23 marzo sulle origini della Taranto post-risorgimentale, L’unità in canti il 30 marzo e una celebrazione il 4 maggio, con la Fanfara della Marina, di alcuni concittadini emigrati nelle Americhe che hanno conseguito grande fama nelle arti e nelle scienze. Ricordiamo anche un corso d’aggiornamento per docenti sulla Memoria storica del Lavoro, organizzato dalla Regione Puglia presso l’Istituto “Maria Pia” il 13 aprile, nonché una ricca Mostra documentaria - E’ per sorgere un’era novella… - allestita dall’Archivio di Stato di Taranto il 9 aprile. Per altre iniziative, cfr. R. BONGERMINO, Il Sud e Taranto nell’Unità d’Italia, in “Corriere del giorno”, 21 dicembre 2010; M. GUAGNANO, L’insorgenza postunitaria, in “Corriere”, 18 marzo 2011; A. BASILE, Giuseppe Nocera a Palazzo Galeota, in “Corriere”, 23 marzo 2011.
3)    Cfr. Taranto da cento anni nell’Unità, in “Voce del Popolo”, 3 settembre 1960. Rizzo faceva riferimento al viaggio di Ferdinando II descritto da Raffaele De Cesare in La fine d’un Regno; nel gennaio del 1859 il Borbone giunse in Puglia, ricevendo ovunque un’accoglienza trionfale: “i Massafresi si abbandonarono alle più sfrenate esultanze e gridavano in coro: ‘Grazie, grazie Maestà’. Al che il re, equivocando, domandò: ‘E che grazia volete?’. E quelli con più alte grida: Basta che t’avimmo visto” . A Taranto Ferdinando venne accolto da “acclamazioni ed applausi di tutti i Tarantini, usciti fuori dalla Città incontro ai Sovrani”. Il Borbone domandò se ci fossero a Taranto fratielli, cioè framassoni, liberali. Il comandante del Castello “lo assicurò, dicendogli essere Taranto città tranquilla e fedele”.
4)    “Qualche confusione si era verificata in città a partire dalla metà di luglio, quando la popolazione (affamata e malandata) tentò di saccheggiare alcune navi cariche di frumento, per tentare di dare una risposta, sia pure momentanea e non definitiva, ai richiami del ventre. E lo strano fu che le autorità sembrarono, quasi quasi, favorire la bella impresa, nel tentativo di dimostrare ai più quale anarchia si crei al solo sopraggiungere delle idee nuove”; P. MASSAFRA, Facce di sempre, Taranto, 1988, p.175.
5)    Le delibere del Decurionato sono state pubblicate integralmente per la prima volta da Orazio Santoro: Come fu vissuto lo sbarco dei Mille nella provincia jonica, in “Città”, 1 giugno 1982. Nello stesso saggio Santoro ricorda i patrioti di terra jonica che presero parte alla spedizione dei Mille: i tarantini Nicola Mignogna e Vincenzo Carbonelli (Nicola Gigante aggiunge Perrone, Piccioni, Valente, Petruzzi, Jurlaro, Catapano, Agostinelli e i fratelli De Gennaro; cfr. A. PRETI, A noi restano le briciole, in “Quotidiano”, 17 maggio 1982) i martinesi Giuseppe Fanelli e Giovanni Guglielmi, Nicola Perrone di Laterza,  Gioacchino Lemarangi di Mottola. Durante l’avanzata garibaldina partirono da Martina Franca: Vitantonio Grassi, il Sac. Pasquale Guglielmi, Innocenzo Elefante, Giuseppe Miccoli, Donato Semeraro, Francesco P. Bellopede e Girolamo Casavola. Da Laterza: Candeloro e Cosimo Iavernaro, Vitantonio ed Edoardo Pollicoro, Nunzio e Nicola Bonamassa, Gaetano Minilascino e Giustiniano. Tra i comuni del Distretto di Taranto è da Massafra che partirono il maggior numero di garibaldini: Alessandro Izzinosa, Giovanni ed Antonio De Carlo, Giovanni Casulli, Vito Blasi, Domenico Franchino, Francesco Losavio detto Cicciarudde, Sabino Gallo, Nicola Fanelli, Vitantonio D’Eri, Vitantonio Zanframundo, Tommaso Mairo, Giuseppe Maria, Cosimo Misciagna, Paolo Notaristefano, Luigi Quero, Pietro Scalzo, Domenico Presta, Pietro Scialpi, Ignazio Scarcia, Leonardo Mazzarone, Francesco Maraglino, Lorenzo Galante, Giovanni Basile, Michelangelo D’Errico e Saverio Fanelli, protagonista di una rocambolesca evasione dal Castello di Taranto (cfr. O. SANTORO, Saverio Fanelli, patriota di Massafra, in “Voce Nostra”, n.1, gennaio 1961; A. FOSCARINI, I circoli di Massafra, in “Corriere meridionale”, Lecce, 16 e 23 marzo 1911; E. JACOVELLI, Saverio Fanelli patriota di Massafra, in “Corriere del giorno”, 13 giugno 1982; anche S. LA SORSA, La partecipazione della Puglia alla spedizione dei Mille, in “Voce del Popolo”, 21 maggio 1960). Va ricordata anche la figura avventurosa di frate Geremia Tinella di Castellaneta, sottotenente garibaldino ferito e spretato; cfr. G. LATORRE, Quando Garibaldi vendeva candele a Castellaneta…, in “Corriere del giorno”, 18 maggio 1982.
6)    Esemplare la relazione del prof. Ruggiero Rizzelli sul plebiscito a Maglie: “La mattina di domenica 21 ottobre 1861, Maglie entusiasta accorse alle urne… La votazione fatta con il mezzo delle fave per esprimere il ‘sì’ e dei fagioli per esprimere il ‘no’ dette 975 voti favorevoli all’Unità d’Italia e 6 soltanto contrari. Questi pochi voti contrari irritarono la popolazione che avrebbe voluto l’unanimità… Con un vecchio barbiere, che si ostinava a rimaner fedele al Borbone, corsero minacce e busse” (C. S. ROCHIRA, Il plebiscito del 1861 e il nostro popolo, in “Voce del Popolo, 7 dicembre 1935).
7)    Vico Nasuti, 11: il covo dei patrioti, in “Voce del Popolo”, 1 marzo 2006. L’articolo di Acquaviva offre comunque una gradevole scheda su Nicola Schiavoni, un manduriano che si era già distinto nei moti del ’48. Era stato arrestato e condannato a trent’anni di ferri. In galera perse un occhio e, deportato nel ’59 in America, finì invece in Irlanda. Compagno di Carlo Poerio, Silvio Spaventa e Luigi Settembrini, dopo l’impresa dei Mille tornò a Manduria e venne eletto in Parlamento; cfr. Manduria a Nicola Schiavoni e Giacomo Lacaita. Onoranze rese il giorno 19 dicembre 1909, Trani 1910; di Acquaviva vedi anche Il primo deputato tarantino: Giuseppe Pisanelli, in “Corriere del giorno”, 13 giugno 1948.
8)    Cfr. R. DE CESARE, La fine di un regno, Città di Castello, 1900;  E. DE VINCENTIS, I patrioti salentini, Taranto, 1912; P. IMPERATRICE, Vicende di Taranto dal 1848 al 1870, in “Taranto - Rassegna del Comune”, Anno III, nn. 7-8, luglio-agosto 1934 e Anno IV, maggio-giugno 1935, nn. 5-6; ID, Cataldo Nitti, in “Taras”, 1928, nn.1-4; S. LA SORSA, La città di Taranto sulla fine della dominazione borbonica, in “Voce del Popolo”, 14 e 21 giugno 1942; M. GRECO, La fanfara di Taranto e il Quarantotto, in “VdP”, 12-19-26 giugno 1948; S. PANAREO, Taranto attorno al ’60, in “VdP”, 21 e 28 gennaio, 4 febbraio 1939; G. BELTRANI, L’autorità di Giuseppe Massari, in “Rassegna pugliese”, 1912; R. COTUGNO, La vita e i tempi di Giuseppe Massari, Trani, 1931; C. ACQUAVIVA, Taranto e Giuseppe Massari, in “Taranto-Rassegna del Comune”, Anno IV, maggio-giugno 1935, anno XIII, nn. 5-6; A. ALTAMURA, Massari e l’unità d’Italia, in “VdP”, 1-2 gennaio 1937; G. DE MATTEIS, Liborio Romano e Cataldo Nitti, in “Taranto - Rassegna del Comune”, gennaio-giugno 1938; E. BAFFI, Agostino Baffi, in “VdP”, 12 maggio 1940; D. RIZZO, Luigi Baffi, in “VdP”, 3 agosto 1941; D. GENNARINI, Vincenzo Carbonelli, in “Corriere delle Puglie”, 3 giugno 1911; Vincenzo Carbonelli, in “VdP”, 26 maggio 1940; LISI, Due patrioti tarantini: Tommaso De Vincentiis e Antonio Valentini, in “VdP”, 30 giugno 1928; A. ALTAMURA, Giuseppe De Cesare, un sindaco saggio e illuminato, in <<Ribalta>>, dicembre 2005; P. IMPERATRICE, Gaetano Portacci, in “Taras - Bollettino del Comune di Taranto”, Anno I, maggio 1927, nn. 3-4. Poco citato anche dai suoi contemporanei, Portacci venne probabilmente stimato più come letterato ed insegnante che come rivoluzionario. Era certo un personaggio esuberante ed irrequieto. Giovane prete, dichiarò guerra al governo di Re Bomba e sembra che gli amici lo abbiano trattenuto a stento da un attentato in occasione della visita del Borbone. Scapigliato e compagnone, spese tutto il suo patrimonio in giocondi banchetti sulle alture circondanti il Mar Piccolo. In un fascicolo della “Rassegna Pugliese di scienze, lettere ed arti” del 1913, Francesco Barberio annota che la sua passione dinamitarda non causò alcun danno agli odiati borbonici, ma gli riuscì conveniente per la pesca, in particolare quando sopraggiunsero le ristrettezze. Nel 1878 una piccola bomba gli asportò la mano destra. Agli amici accorsi a visitarlo impedì loro di portar via una cassa di bombe nascosta sotto il suo letto, perché potevano tornare sempre utili.
9)    Mentre il Settembrini venne condannato a morte (pena commutata in ergastolo) Mignogna seppe sfuggire alle accuse “fingendosi ebete”. Lisi prende criticamente le distanze dalle due  biografie classiche (A. CRISCUOLO, Ricordi di Nicola Mignogna, Taranto, 1888 e G. PUPINO-CARBONELLI, Nicola Mignogna nella storia dell’unità d’Italia, Napoli, 1889) e conferisce il giusto rilievo anche al martinese Fanelli, uomo di fiducia del Mazzini  (cfr. E. DE VINCENTIIS, Giuseppe Fanelli nel Risorgimento italiano, in “Voce del Popolo”, 8 giugno 1918; C. TEOFILATO, Giuseppe Fanelli dalla “Giovane Italia” alla “Internazionale”, in “Pensiero e volontà”, Roma, A.II, 1925; A. LUCARELLI, Il patriota Giuseppe Fanelli, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 16 luglio 1949; ID, Giuseppe Fanelli nella storia del Risorgimento e del socialismo italiano, Trani, 1953; una recensione in “Voce del Popolo”, 28 febbraio 1953).
10)  Mignogna venne condannato all’esilio mentre la De Pace fu assolta. Antonietta partecipò a tutta l’epopea risorgimentale, dalla preparazione della spedizione di Pisacane all’avventura dei Mille alla conquista di Roma. Nel centocinquantenario RAI-Storia ha prodotto un bel documentario sulla De Pace, con un preciso resoconto del processo (conosciuto a Londra come il Mignogna case) senza purtroppo citare il patriota tarantino. Sull’eroina salentina, cfr. B. MARCIANO, Della vita e dei fatti di Antonietta De Pace, Napoli, 1901; F. BERNARDINI, Antonietta De Pace cospiratrice e garibaldina, in “La Puglia letteraria”, 31 maggio 1932; P. INGUSCI, Antonietta De Pace, in “Voce del Popolo”, 15 gennaio 1966; O. COLANGELI, Antonietta patriota, Galatina, 1967; E. BERNARDINI, Antonietta e i Borbone, Lecce 2000; D. DE LORENTIIS, Antonietta De Pace, in “Quotidiano”, 15 marzo 2011.
 In occasione della presentazione dell’opera di Lisi, abbiamo discusso con l’autore su un messaggio di Settembrini per l’intimo amico Mignogna: “lo saluto di cuore e l’amo”. Probabilmente ha ragione Lisi nel considerare tale frasario come ricorrente nella confraternita patriottica. E’ comunque da ricordare che quel padre della patria ebbe il coraggio di scrivere un romanzo molto esplicito, I neoplatonici, rimasto nella polvere per un secolo perché censurato da Benedetto Croce. Pubblicato per la prima volta nel 1977 con una nota di Giorgio Manganelli, è stato ristampato da Sellerio nel 2001 e attualmente ripubblicato a cura di Vincenzo Palladino che nell’amore neoplatonico vede adombrato il legame tra Settembrini e il patriota Silvio Spaventa, suo compagno di carcere per otto anni. Uno dei benefici effetti collaterali dell’attuale celebrazione può essere considerato lo “sdoganamento del Risorgimento Gay”, con opere come Garibaldi amore mio di Maurizio Micheli e Sangue garibaldino di Giorgio Ansaldo. Sempre per il rispetto della verità storica.