lunedì 20 maggio 2013

Taranto Democratica dalla dittatura alla Repubblica

A.N.P.I. Taranto - Taranto Democratica

dalla dittatura alla Repubblica 1943-1946

Presentazione del libro "Taranto democratica dalla dittatura alla Repubblica 1943-1946"
Presenti due autori Roberto Nistri e Pinuccio Stea
presso la libreria Gilgamesh il 20 maggio 2013


lunedì 13 maggio 2013

Epicedio per Mustaki: un gigante buono e contestatore

Epicedio per Mustaki: un gigante buono e contestatore
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Voce del Popolo", 15 settembre 2004

"Sono ormai vent'anni che il sergente Pepper ha fondato la sua banda ... noi siamo la banda ... sedetevi e aspettate che arrivi la sera": agli albori del Sessantotto quel disco dei Beatles accompagnava le storie della "meglio gioventù". Sono trascorsi oltre trent'anni da quella mitica stagione, non pochi della vecchia tribù del Maggio sono ormai andati via, eppure ci sembra che la banda non abbia ancora smesso di suonare. Alla Masseria Belmonte, la sera del 3 settembre, mentre il suono della Taranta trascinava un pubblico entusiasta, gli organizzatori hanno voluto dedicare il concerto alla memoria di Salvatore Gigante detto "Mustaki". E un momento di dolce commozione ha accomunato tutti i presenti, anche tutti quei "pizzicomani" che non erano neanche nati quando Salvatore e altri giovani corsari s'imbarcarono sulla gran Tortuga della "contestazione".
Forse qualcuno poteva ancora ricordare le ultime avventure di quel gigante buono e barbuto, come quella del novembre 1988, quando per le strade di Taranto si manifestava contro l'attracco della Deep Sea Carrier, la cosiddetta "nave dei veleni": le forze dell'ordine stavano trattando un
po' ruvidamente una studentessa e l'indignato Mustaki intervenne prontamente. Intimando "lassate sta' a uagnedda", causò qualche danno a cinque vigili urbani, rimediando per conto suo tre giorni di cella. Ma ben altre imprese avevano nutrito la sua "chanson de geste": dalla spazzolata ai fascisti di Reggio Calabria, nel 1970, alla messa in fuga di un noto squadrista che si era presentato davanti alla sezione di "Lotta continua" brandendo una pistola.
Ma i vecchi compagni sanno bene quale sia stata la più bella impresa
di Salvatore: non è diventato sindaco come quel tale squadrista, non è diventato un capo camorrista come quel suo famoso coetaneo della città vecchia, ma (pur formandosi in un contesto ambientale di miseria e di violenza) ha lavorato onestamente tutta la vita prima come carbonaio e muratore, poi come operaio e cuoco, spendendosi generosamente in difesa dei  più deboli, sempre intendendo per "compagni" coloro che si dividono lo stesso pane. E , quando i prepotenti di tutte le risme ferirono la democrazia con pugnali pistole e bombe, lui continuò ad usare le mani nude e il suo buon cuore.
Nato nel cuore della città vecchia, ha vissuto in Arco Loiucco con i suoi dieci fratelli. In una intervista rilasciataci nel 1988, così raccontava il suo ingresso in politica: "Ebbi il mio primo scontro con la polizia nel 1964 quando, durante una vertenza per l'Inam, ci fu una carica durante uno sciopero, con decine di arresti. Allora facevo il carbonaio, e partecipai alla manifestazione tutto sporco di carbone. Non mi iscrissi mai al Pci, ma frequentavo spesso la sezione Gramsci, che era molto forte nel quartiere. Nel '68 lavoravo con la ditta edile Gattinari, e mi trovavo sopra una impalcatura quando vidi passare un grosso corteo di studenti, con i cartelli. Scesi dall'impalcatura, lasciai il lavoro e me ne andai con il corteo. In quel periodo lavorai con una cooperativa dei cantieri navali, poi due mesi a Milano, poi con ditte-pirata che fornivano lavoro a termine attorno all'Italsider, senza assicurazione e senza niente. Fui regolarmente assunto dalla Peyrani come tubista e in quel periodo si cominciava a costituire il consiglio di fabbrica, c'era Nello De Gregorio che interveniva per la Fiom. Quando conobbi Lotta Continua, capii che era l'organizzazione fatta per me, spontaneista e per la lotta dura. Aprimmo la prima sede sui Tamburi, per la vicinanza con le ditte, e poi quella nella Città vecchia, nella via di Mezzo. In fabbrica conquistammo subito molti simpatizzanti, operai bravi erano il napoletano Francesco Simeone e il calabrese Pasqualino Gulemì, ma il certificato di nascita di Lc fu l'occupazione delle case dalle parti di via Archimede, dove organizzammo una serie di baraccati che vivevano vicino al cimitero. C'erano assemblee ogni domenica e mi ricordo i primi scontri con il Pci. L'occupazione durò un anno, c'erano manifestazioni per l'attacco della luce e dell'acqua. Alla fine ci fu lo sgombero da parte della polizia, alcuni occupanti fecero resistenza, due compagni di Lotta Continua furono arrestati. Poi quegli occupanti finirono nelle case di via Cesare Battisti, vicino l'Oviesse, e noi mantenemmo con loro i contatti".
Lotta Continua era l'organizzazione più scapestrata della giovane sinistra extraparlamentare per cui, aprendo la nuova sede in via Giusti, attirava ragazzi e ragazze a frotte, inseguiti dai genitori che consideravano Mustaki come una specie di orco. In realtà lo spirito di trasgressione era molto bonario, sul tipo dell'infiltrazione in un ricevimento tenuto dagli ufficiali presso la Lega velica: mentre qualcuno staccava la corrente, gli altri fecero sparire in un battibaleno interi tavoli coperti di cibarie, che vennero fatte fuori in una colossale mangiata sotto il Lungomare. Così ci raccontava Enzo Quazzico di quella volta che "avevamo organizzato una grande assemblea in un cinema di Talsano, dove avevamo una sezione (ce n'erano altre a Massafra e Palagiano) ma gli oratori tarantini arrivarono in ritardo perché si erano intrattenuti a chiacchierare, tirando 4 litri di vino e 72 bottiglie di birra da tre quarti. Salvatore entrò salutando tutti calorosamente e fece un bel discorso. Solo che lo ripetette quattro volte, e alla quinta dovemmo tirarlo giù dal palco". Bella era la vita nel Movimento: ma la pelle era sempre in gioco: Salvatore se la vide brutta quella sera dell'11 febbraio del '75 quando, durante una manifestazione in Piazza della Vittoria, una canaglia fascista gli piazzò a tradimento una coltellata fra le costole.
Dopo il dolce, veniva l'amaro. All'allegria subentrava la frustrazione, il generoso spirito di utopia veniva soffocato dalla violenza più cupa.
Molti scomparvero nel buio delle carceri o della droga, alcuni giocarono la carta del pentitismo e rinnegarono i loro sogni. Salvatore, il candido  popolano della Città Vecchia, è uno di quelli che sono riusciti a consegnare alle generazioni successive la bella memoria di una vita spesa nella ricerca non del profitto ma della felicità condivisa, comunitaria: il lascito migliore della storia di una festa, di una passione e di una rabbia, vissuta a sud del Sessantotto, a sud del mondo. Per questo nessuno lo ha dimenticato, anche molti anni dopo che aveva lasciato Taranto, peregrinando fra il Sud America e la Grecia.  Per questo, giunta da Bologna la notizia della sua infermità, in tanti si sono subito prodigati per soccorrerlo. Come in tanti lo hanno accompagnato nell'ultimo viaggio di ritorno nel grembo della città proletaria, quella Tarde Vecchje che lo ha accolto con la sua bandiera e le sue canzoni.
Di quelle tre giornate passate al fresco, lui raccontava: "Durante l'ora d'aria grattini e carcerati vari mi chiedevano: Cos'hai fatto, Mustaki? Rispondevo sinceramente. E loro: Ma chi te l'ha fatta fare!". Cosa spingeva Isadora Duncan a danzare e Jimi Hendrix a suonare la chitarra? Cosa spingeva un ragazzo dei vicoli a ribellarsi di fronte ad ogni sopraffazione? Forse si nasce sotto una stella rossa. Che la vecchia banda continui a suonare, in onore di Salvatore Gigante, detto Mustaki!

sabato 11 maggio 2013

Eja, Eja, baccalà! (Jacovitti)

"Eja, Eja, baccalà!" (Jacovitti)
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Scintille", dicembre 1998

Una vivace assemblea, la serata del 25 giugno 1998: su iniziativa del Centro ricerche e studi "Piero Calamandrei" si è discusso attorno a "Il ventennio fascista a Taranto",  l'ultimo parto parastoriografico di Giovanni Acquaviva, il già direttore del "Corriere del Giorno" e cronista della "Voce del Popolo" negli anni Trenta, da oltre sessant' anni l'unico vero "intellettuale organico" nella città bimare. In quell' occasione abbiamo contestato  un po' duramente l'immagine abbastanza edulcorata del "ventennio" che Acquaviva ha proposto, rimuovendo completamente tutti i perseguitati, i licenziati, i torturati, i carcerati, i confinati. Dimenticando completamente tutti i lavoratori ammazzati dai fascisti o morti in carcere: Raffaele Favia, Giuseppe Migliaresi, Francesco Mellone, Totò Voccoli, Antonio De Valeris, Alessandro Volta, Umberto Candelli ... Del resto, nell' altro recente libro di Acquaviva, "Il 900 a Taranto", si può leggere: "l'antifascismo qui non emergeva, a livello di massa; in verità non c'era mai stato". Lo stesso oblio per i tarantini che hanno combattuto al nord come l'ufficiale di artiglieria Pietro Pandiani, quel "Capitano Pietro" che comandò la  Brigata "Giustizia e Libertà". Mentre, scrive sempre Acquaviva in un altro suo libro, "Un altro provinciale", era viva "l'impressione tutta negativa, specialmente nel Mezzogiorno d'Italia, delle nefandezze, dei delitti compiuti al Nord durante la cosiddetta Resistenza" (sic).
Ma allora, cosa ci racconta Acquaviva degli anni del fascismo? Spende tre pagine per illustrare il 31° Congresso della "Dante Alighieri", l'ospizio di tutti i grafomani locali, dove il trombone Criscuolo discettava su "Gli uomini belli: da Antinoo a Valentino", e non dice una parola sul fatto che, nello stesso periodo, fra il giugno e l'ottobre del '26, venivano arrestati oltre trenta lavoratori, che non avevano torto un capello a chicchessia: tutti condannati dal Tribunale speciale, Odoardo Voccoli a 12 anni e sei mesi! Si parla di una terribile battaglia che dovette affrontare l'arcivescovo Mazzella, che nel '34 "si trovò a fronteggiare ... la massiccia predicazione di un pastore valdese". Ma non si racconta l'esito dell'epico scontro: il poveraccio, il pulsanese Michele Mandrillo, venne arrestato per aver letto pubblicamente la "Lettera ai Romani". Viene menzionata una visita di D'Annunzio alla libreria Filippi, ma si dimentica l'arresto di Ulderico Filippi per aver conservato in magazzino libri "proibiti". Di passaggio Acquaviva attribuisce al Fascismo "il riscatto del mondo femminile" e fornisce un gustoso esempio con la confezione dei "pacchi coloniali": le donne "si impegnano con entusiasmo in questo compito, che è loro particolarmente congeniale". Poteva anche citare una richiesta del federale Magnini al prefetto (da noi pubblicata) di licenziare le donne impiegate negli uffici per dare i posti a disoccupati maschi.
Così vede la storia Acquaviva . Quando gli viene fatto notare che nelle sue opere di "storia" non viene offerta alcuna fonte documentaria, risponde candidamente che non ne vede il motivo. E mentre polemizzavo con lui, mi sono ricordato di botto che in tal maniera stavo celebrando il trentennale della mia prima contestazione a Giannino Acquaviva. Si era alla fine della primavera del '68: c'era stato il Maggio francese, la ribellione giovanile stava surriscaldando il mondo intero, la critica ormai travalicava la questione specificamente universitaria e investiva complessivamente il Sistema, diventava "contestazione globale". Anche a Taranto la discussione e la provocazione si diffondevano ovunque, utilizzando le sedi più eccentriche, come il Sindacato dei pensionati in piazza Garibaldi o la parrocchia di S. Pasquale. Si interveniva con argomenti e con un linguaggio del tutto inusuali in certi ambienti, molti si offendevano e molti battevano le mani, e comunque le carte si rimescolavano e non pochi si mettevano in discussione e ogni giorno nuovi personaggi partecipavano alla festa. L'happening in piazza non finiva mai, e ci fu anche un' assemblea registrata dalla Rai-Tv: Cresci ci fece un'intervista per il servizio "I giovani a Taranto.
Decidemmo di andare a contestare un'assemblea convocata presso il salone della Provincia, presieduta dall' arcivescovo Motolese, per discutere una Lettera pastorale sul problema dei giovani. Prendemmo l'iniziativa per spassarcela un poco, ma c'erano anche motivi seri. Chi aveva frequentato il movimento sin dall'inizio poteva avvertire alcune cose che in seguito, nel 1971, vennero scientificamente elaborate in un' inchiesta apparsa su "Rassegna italiana di sociologia": il 44% dei gruppi extra istituzionali attingevano i propri seguaci esclusivamente dal mondo cattolico, il 20% da quello marxista e il 15% da entrambi. Il confronto poteva quindi essere interessante. Ma, come mettemmo il naso in quell'inquietante adunanza, ci passò tutta la fantasia. Qualcuno aveva dato segni di sgomento all' ingresso della nostra gagliarda combriccola, ma a noi era mancato veramente il fiato: atmosfera soffocante, facce grigie, parole così pesanti che, appena pronunciate, rotolavano sotto le sedie. Moderatore: Giannino Acquaviva. Ci venne immediatamente voglia di tornar a riveder le stelle.
Dal fondo del salone chiesi ad alta voce di poter intervenire e, preso il microfono, contestai quell' anacronistico discorso sui giovani, totalmente cieco e sordo di fronte all'agitazione che era in corso, la più grande rivoluzione giovanile della storia.
Dopo questa tirata, prende il microfono Acquaviva e cosa dice? "Vorrei tanto sapere quali voti ha sul suo libretto quello studente". Ci congedammo rumorosamente da lui e da tutto quell'egregio sinedrio. Ma, in verità, c'ero rimasto di stucco. Con quello che accadeva dall'Europa agli Stati Uniti, dal Vietnam al Giappone, di che cosa s'interessava Acquaviva? Dei voti miei. Il culto dell'inessenziale: una caratteristica tutta tarantina. Indichi la luna e ti guardano il dito.
Ultimo esempio, dal libro di Acquaviva sul Fascismo. Vengono promulgate le leggi razziali, ma non è grosso il problema "relativo agli ebrei: a Taranto, si viene a sapere, ce n'è una quindicina, ma si tratta di persone perfettamente integrate che non danno perciò alcuna preoccupazione". In verità gli ebrei non davano preoccupazioni a nessuno da nessuna parte ed erano ovunque perfettamente integrati (anche nel partito fascista). Sembra invece che siano stati i fascisti a dare qualche preoccupazione agli ebrei, tanto da provocare una loro disintegrazione. E questo è l'essenziale. Per la storia. Non per Giannino Acquaviva che avviò la sua lunga carriera di giornalista aprendosi un varco proprio come specialista in antisemitismo. Quelli erano tempi...

giovedì 9 maggio 2013

Il balilla in collina

"Il balilla in collina"
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Corriere del Giorno", 10 gennaio 1998

L'immagine dell' infanzia aggredita e mortificata, comune denominatore degli sterminati scenari di sopraffazione e avvilimento che avvolgono la luccicante vetrina della società opulenta, rimane sempre un criterio forte per chiamare a giudizio la Storia maiuscola, quel grande fiume della prepotenza che sui libri di scuola celebra i suoi trionfi travolgendo i dimenticati, i tanti "piccoli" senza nome. Speriamo che lo studio del '900 faccia finalmente entrare nelle scuole anche un romanzo come " La storia" di Elsa Morante, che tanti dibattiti e polemiche suscitò nel momento della sua pubblicazione, nel 1974. L'autrice opponeva alla Storia con la S maiuscola la vicenda minuscola, ma tragica, delle "cavie", che non sanno il perché della loro morte, o dei "piccoli" del Vangelo di Luca: la maestra elementare calabrese Iduzza e il suo bambinello Useppe, annientati dalla guerra e dal dopoguerra, erano gli "emarginati dalla storia" ("terza specie", secondo la Morante, rispetto ai ricchi che si nutrono "a spese dei poveri", e ai poveri che tendono "a pigliare il posto dei ricchi"), rappresentanti di un mondo "necessariamente e come fatalmente subalterno, perchè non ha neppure la coscienza di esserlo" (Romano Luperini).
Ma anche la storiografia più rigorosa, che ha imparato ormai ad avvalersi criticamente delle testimonianze "minime" e delle tradizioni orali, può reperire nel diario di un bambino un autentico patrimonio di documentazione civica. Così un diario di vita scolastica, compilato dal piccolo Antonio Amatulli quando frequentava la quarta elementare nel 1931/32, costitui-
sce il filo conduttore di una preziosa ricerca di microstoria municipale, pubblicata dalla Scorpione Editrice:" Quando eravamo balilla. Frammenti degli anni '20 e '30 a Mottola". Un nutrito gruppo di studiosi (R. Colucci D'Eredità; A. Amatulli, S. N. Maglie, T. Errico, D. Scapati, P. Lentini, R. Mandorino, V. Fumarola, A. De Santo, S. Caragnano) ha lavorato sapientemente su testi e immagini, restituendo tutta la sua ricchezza e la sua complessità, in un sempre difficile equilibrio fra localismo e globalismo, ad una situazione esemplare di fascismo rurale nel Mezzogiorno.
Così Antonio descrive il primo giorno di scuola: "Alzandomi questa mattina mi sentivo molto più allegro perché pensavo alla scuola. Al suono della sirena mi sono incamminato per la strada e pò in gondrato tutti i miei vecchi compagni di classe. Ci siamo salutati romanamente e poi endrati in una nuova aula abbiamo ritrovato il nostro amato professore". È costui il vero destinatario della traballante grammatica di Antonio: la stesura del diario quotidiano è una pratica largamente diffusa nella scuola primaria dell' epoca fascista, "una sorta di indiretto controllo sulla ortodossia politica ed ideologica della famiglia e dell' ambiente sociale dello scolaro" (S. Maglio).
L'ossequio al regime è garantito: "Oggi il nostro maestro in classe ci à fatto una conferenza sui benefici che l'Italia faceva alle altre Nazioni. A' liberato la Francia che oggi non doveva essere alla luce del mondo, come anche la Siberia, ed altre Nazioni aleate. Ma adesso la Francia, la Siberia, unite con le altre N azione, sono i più terribili nemici dell' Italia, dopo avergli salvato la vita". Con sicura soddisfazione del maestro, la conclusione è perentoria: "Doveva essere allora il nostro amato Duce come adesso per comandare tutto" (20 maggio 1932).
Autentica è l'esultanza per l'inaugurazione della fontana monumentale posta in piazza Plebiscito: "hanno venuto tanti Fascisti forestieri, dopo e venuto il Prefetto e siamo andati a benedire la fontanina. Mentre il Parago la benedetta la commara apresa una bottiglia scimpagnia la peso al collo di un pescio, gli adato un urto e la bottiglia si è rotta, allora la fontanina si a messo abbuttare acqua. In piazza era tutto alluminato che sembrava un paradiso. Evviva il nostro Duce che cià data la basa principale del nostro paese".
Con sincerità emerge anche la miserella condizione sociale del piccolo Amatulli. La madre vedova e disoccupata, con a carico sei figli in tenera età, non si può permettere di regalargli un gelato o di riempirgli la calzina il giorno della Befana: "lo era tanto aflitto perché la mia madre non mià potuto cresimare per mancanza del vestito nuovo". Pure riesce a tirare fuori senza fiatare qualche spicciolo per la "Croce Rossa": presiede la raccolta dei fondi il potente ras fascista Giuseppe Turi (la cui figura viene attentamente ricostruita da Sergio Maglio in alcuni capitoli di notevole cura storiografica).
In una provincia che nel ventennio non riesce ad esprimere una forte e caratterizzante leadership politica, dove anzi lo scontro fratricida tra i clan dei gerarchi legati ai vari potentati pugliesi si protrae senza fine, l' avv. Turi si segnala fra i pochi protagonisti di un qualche rilievo. Di estrazione liberale, con passeggere simpatie per i socialisti, si lega subito al Fascio mottolese (il primo ad essere costituito nel Circondario di Taranto), viene eletto per acclamazione segretario federale del P.N.F. di Terra Jonica, nel '27 è il primo Podestà di Mottola e nel '29 viene nominato primo Preside della Provincia dello Jonio.
La sua folgorante carriera viene troncata agli inizi del '39 dalle furibonde lotte di fazione, in sintonia con il declino del suo referente nazionale, Achille Starace. Grazie al suo peso politico, Mottola ha goduto di un potenziamento reale della sua rete di servizi pubblici ed infrastrutture civili. Pur rimanendo sostanzialmente in una condizione di sottosviluppo economico e sociale, il paese sulla collina elabora miticamente l'età del'oro" ormai conclusa, mentre il castello di carte del regime è ormai prossimo al suo inglorioso crollo. Nel suo diario il balilla Antonio aveva mostrato di saper affrontare le miserie e i dolori del quotidiano, grazie alla speranza che "se Dio vuole ci farà campiare condizione".

martedì 7 maggio 2013

Note sull'antifascismo di terra jonica

"Note sull' antifascismo di terra jonica"
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati.

Il testo riproduce parte delle relazioni tenute dall'autore in una serie di dibattiti organizzati dallo SPI-CGIL, il 26-27-28 aprile 1983  negli incontri tenuti presso il Circolo Ilva con studenti degli istituti superiori, il 29 aprile nell'Assemblea dei lavoratori dell'Arsenale della Marina Militare.

Una comprensione scientifica del passato non può comportare una amnistia generalizzata, anzi se amnistie possono essere legittime da un punto di vista politico e giuridico, non lo sono affatto dal punto di vista della storia, che deve inchiodarc individui e gruppi alle loro responsabilità.
Crediamo che lo storico debba studiare gli eventi con la massima scrupolosità, comprendendo le ragioni degl uni e le ragioni degli altri, ma non per questo ci sentiamo di porre sullo stesso piano la vittima e il torturatore, la violenza dello schiavista e la violenza che lo schiavo esercita per liberarsi. Possiamo ben comprendere le ragioni del potere romano e quelle delle autorità giudaiche  ma, diciamolo francamente, una delle immagini - cardine della nostra civiltà è quella di un uomo in croce, quella croce che era la condanna degli schiavi, dei poveracci, degli ultimi. Comprendere sì, oggettivamente, la storia. Ma cosa comprendiamo, se dimentichiamo che la storia è lo sforzo dell'uomo per liberarsi dalla croce dell'oppressione, dell'intolleranza, dello sfruttamento?
Non possiamo accettare una storiografia alla Ponzio Pilato che, auspicando il superamento dell'antifascismo e l'avvento di una società deideologizzata, favorisce solo l'asservimento dell'uomo alla rivoluzione tecnologica e il culto feticistico del mercato e del più squallido consumismo. Lo studio della storia non deve pacificarci qualunquisticamente dicendo che siamo tutti della stessa pasta, ma deve anzi servire a tener fermo un criterio di giudizio, che nasce dalla storia stessa: un criterio forte scritto col sangue di 50 milioni di vite umane. Non abbiamo le idee chiare su cosa sia il bene, ma quei 50 milioni di morti nell' Apocalisse scatenata dal nazifascismo ci indicano con chiarezza cosa è il male.
Ci premeva svolgere queste considerazioni, proprio per chiarire il forte impegno civile, che ha caratterizzato la recente ricerca storiografica sulla città di Taranto, una città che particolarmente ha sofferto di amnesie, cbe ha devastato la propria memoria storica, illudendosi che si possa conquistare il nuovo soltanto perdendo l'antico. Una città che è stata attraversata dai miti del più acritico e vorace consumismo, oggi comprende che per conquistarsi un futuro sensatamente progettato, deve recuperare
e valorizzare la propria memoria e i segni del passato. Una memoria che dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni è senz'altro quella di una robusta tradizione antifascista, della quale dobbiamo essere orgogliosi. Dovremmo riscoprire tutto l'antifascismo meridionale, che è stato appannato dalla più vistosa presenza del fenomeno resistenziale e poi marginalizzato da una storiografia ruotante sull'asse Roma-Milano. Resistenza ed antifascismo finirono per coincidere ma non sono la stessa cosa: il secondo contiene il primo. L'antifascismo è un movimento più vasto politicamente e anche territorialmente più esteso. La Repubblica è nata dalla Resistenza ma è stata preparata dall' Antifascismo che, minoritario e diversificato, ha comunque avuto una presenza in tutta la penisola. 
Dopo 40 anni abbiamo potuto ricostruire una prima storia dell' antifascismo tarantino: in una città promossa dal fascismo capoluogo di provincia e che godeva economicamente, attraverso l'Arsenale, di tutta una strategia di rilancio della produzione bellica, in questa "Taranto città tre volte fascista" , "perla del regime", l'antifascismo non ha mai smobilitato un momento, profondamente radicato nel cuore della classe operaia. E parliamo di classe operaia, perché gli elenchi dei perseguitati dal Tribunale Speciale forniscono quasi tutti nomi di umili lavoratori: a Taranto, e questo è un elemento storico di grande importanza per comprendere le evoluzioni successive. Non c'è stato un antifascismo borghcse e intellettuale, ma solo un antifascismo proletario, caratterizzato da una tensione più sociale che non ideologica, attaccato a quella solida tradizione di organizzazioni operaie che era stata violentcmente smantellata dal fascismo (un fascismo che, è bene ricordare la sua peculiarità nel quadro meridionale, è nato prima in città per poi svilupparsi nelle campagne).
Dall'assassinio dell'operaio del Tosi Raffaele Favia, nel luglio del ' 21, si snocciola tutta una sequenza di attentati e di persccuzioni da parte di uno squadrismo protetto dal prefetto, armato dalle autorità militari, foraggiato dai galantuomini locali. Le camere del lavoro vengono incendiate, le avanguardie sindacali dei cantieri Tosi vengono licenziate, il 28 aprile del '22 gli squadristi uccidono il comunista Giuseppe Migliaresi, poche settimane prima della marcia su Roma viene assaltata a colpi di pistola e di bombe a mano la casa del leader Odoardo Voccoli. Il fascismo trionfante esalta il ruolo di Taranto come piazzaforte militare, lega a sé i ceti medi, ma non riesce a trovare consenso negli ambienti operai che, pur condizionati dalla struttura statal-militare della produzione, non prenderanno mai la tessera del PNF. Con gli arresti del ' 26, l'organizzazione operaia viene decapitata, ma le radici rimangono profonde e vigorose.
Il comportamento rigoroso e intransigente tenuto dagli antifascisti in carcere, trova una testimonianza esemplare nella figura del dirigente comunista Odoardo Voccoli, condannato a 12 anni di carcere, che mai conosce un momento di cedimento, malgrado lo sfascio economico della sua famiglia e la persecuzione nei confronti dei suoi figlioli uno dei quali, Todol, morirà in carcere (come in carcere muoiono i fratelli Alessandro e Federico Mellone). Dopo il verdetto, scrive alla compagna Assunta: "I deboli si accasciano, chi viene colpito per la sua fede non deve impallidire dinanzi alle conseguenze che gli derivano dall'aver troppo amata la sua idea". I diari scritti in carcere indicano come la categoria dell' antifascismo assuma veramente valenze universali: il "non mollare" come capacità di resistenza dell'indignazione, della solidarietà e della speranza, di fronte
 a tutti i tentativi dell' oppressore di spezzarti la coscienza, di ridurti a cosa fra le cose. Di fronte alle pressioni dei questurini perché venga firmata la domanda di grazia, rimane sempre la libertà di dire no, di non "dimettersi da uomini", come scrive Odoardo. La "scuola del carcere" è la grande università alla quale si sono iscritti questi organizzatori della classe operaia, temprando quelle capacità e quelle conoscenze che daranno linfa vitale alla nostra Repubblica.
Nel '32 l'amnistia libera Odoardo e gli altri carcerati, che riprendono subito il loro dovere di oppositori al regime, di nuovo arrestati nel '34. Nel '36, mentre la guerra in Etiopia è in pieno svolgimento, Taranto è pervasa dal mal d'Africa e si canta a voce spiegata " Faccetta nera", la morte del figlio di Odoardo, Todol, è occasione per una vera manifestazione antifascista, a via D'Aquino. Da un rapporto dello stesso anno dell' ispettore Calabrese - Aversini, apprendiamo che a Taranto, "dove maggiormente alligna il comunismo tra i centri pugliesi per la numerosa classe operaia ivi residente", nonostante le pene inflitte dal tribunale speciale, "coloro che hanno radicato nell'animo la fede comunista non si sono intimiditi". Anzi: "essi riescono a malapena a trattenere l'entusiasmo col quale seguono i sanguinosi rivoluzionari avvenimenti spagnoli".
A differenza della vicina Bari, a Taranto gli uomini di cultura non offrono il minimo segnale di maturazione di una sensibilità antifascista: abbiamo intellettuali di regime, come Alessandro Criscuolo, che partorisce reboanti e sconclusionate epigrafi basso-dannunziane oppure, nel migliore dei casi, l'afascismo tutto cerebrale del bibliotecario Vito Forleo. Gli antifascisti tarantini, tutti semplici operai, artigiani, pescatori, privi di qualunque supporto della "intellighenzia" locale (un caso a sé, politicamente poco rilevante, è dato dal poeta Michele Pierri), si stringono attorno ai vecchi dirigenti proletari (Voccoli, Latorre, Candelli, De Falco) che si presenteranno come gli autentici punti di riferimcnto dopo la caduta del fascismo.
La persecuzione contro gli antifascisti continua fino alle condanne del febbraio '43. Al momento dell'armistizio, i 250 soldati tedeeschi si allontanano da Taranto senza alcuno scontro, mentre le prime resistenze si incontrano a Castellaneta. Le forze anti fasciste si trovano a guidare un processo di transizione la cui complessità è ancora da chiarire.
Se al Nord il dopoguerra inizierà il 25 aprile '45, il Sud vive un particolare dopoguerra fra il'43 e il '45, ed è ancora tutto da studiare quanto accadde in quattro province pugliesi (Brindisi, Lecce, Taranto e Bari) che costituirono inizialmente l'area territoriale entro la quale lo Stato italiano, nella persona del re, poteva esercitare la sua sovranità. E nelle "province del re" si sintetizza un vischioso processo di continuità e di trasformazione, una inscindibile mescolanza di vecchio e di nuovo. La Puglia diviene il ponte di passaggio tra l'Italia monarchica e fascista e l'Italia che si apre alla nuova democrazia. La disgregazione del blocco dominante trova un elemento di forte ricomposizione nella monarchia.
La separazione tra corona e littorio che in altre regioni si effettua drammaticamente perché i simboli dei Savoia restano come emblema della. continuità dell'Italia contro le armate tedesche e la Repubblica Sociale, nel Sud - in larga parte risparmiato dalla guerra civile - avviene in maniera indolore. Le conseguenze sono importanti per quanto riguarda i meccanismi di ricambio fra vecchia e nuova classc dirigente: al Nord la selezione e la legittimazione sono state determinate dal basso, sul terreno della lotta partigiana, nel fuoco dello scontro armato, mentre al Sud la transizione è nel contempo più brusca e più vischiosa, riciclando la vecchia classe dirigente all'ombra di Comitati di Li berazione che non hanno liberato niente.
Quella diversa modalità di separazione fra corona e littorio permise nel Mezzogiorno una mimetizzazione maggiore delle forze e degli uomini che avevano avuto un ruolo importante durante il fascismo, e le conseguenze si sono fatte sentire sino a tutti gli anni Cinquanta. Ma, per quello che riguarda il nostro territorio, dovremmo aggiungere altri elementi interessanti: 1) in Puglia la continuità delle istituzioni statuali ha inceppato un autentico processo di ricambio politico, ma anche ha contenuto i guasti operati altrove dall'amministrazionc alleata, come il recupero di posizioni di comando della mafia in Sicilia; 2) la Puglia ha espresso una significativa tensione sociale (a Taranto, scioperi ai cantieri navali, l' assalto alla Prefettura...) attraverso la quale ha avuto modo di
manifestarsi il protagonismo cIelle classi subalterne e la sua volontà di trasformazione sociale; 3) quella vigorosa tradizione antifascista ha avuto un ruolo nel processo di transizione esprimendo una cultura meridionale che da tempo aveva fatto del Mezzogiorno un problema nazionale, indicando delle soluzioni avanzate, che non hanno trovato le gambe per concretizzarsi adeguatamente, ma hanno posto le basi per una possibile rinascita.
Concludiamo dicendo che un discorso storico su quegli anni cruciali deve fare i conti con una realtà fortemente contraddittoria. Basti pensare alla stridente diversità con cui, al di qua e al di là della linea gotica, viene vissuto l'autunno-inverno del '44-'45. Mentre al Nord le formazioni partigiane affrontano l'ultima sanguinosissima fase della Resistenza, a Sud l'unità antifascista è già sfilacciata e incomincia a funzionare la seduzione dell"'Uomo Qualunque", la rivista che dice "Abbasso tutti!" riaggregando nostalgici e malcontenti. Il risultato è che il 25 aprile, quando secondo le generose illusioni dell'Italia partigiana dovrebbe cominciare a soffiare il "vento del nord", nell'Italia già liberata si è fatto in tempo a consumare tre crisi di governo, la rottura di fatto della unità ciellenistica, il fallimento dell' epurazione, gli effetti devastanti di una massiccia inflazione, la riorganizzazione delle forze moderate filofasciste, la repressione nelle campagne dei primi moti contadini. Parri, Longo, Pertini e gli altri capi partigiani che sfilano in testa ai cortei nelle città appena liberate, non possono rendersene pienamente conto, ma il futuro che loro immaginano di poter costruire ex novo è già in gran parte ipotecato da tutto ciò che è avvenuto nell' altra Italia, e si tratta di un futuro dove gli elementi della "continuità" saranno, se non proprio più numerosi, almeno pari a quelli della "innovazione" e della "rottura".
Ma proprio per questo è da rivalutare il ruolo di quei vecchi antifascisti meridionali che hanno continuato a funzionare come ideale baluardo democratico nei difficili anni della ricostruzione, e il cui insegnamento, già negli anni della Resistenza, ha  fruttificato sui più diversi terreni, fornendo un luminoso esempio di fermezza e rigore morale. Quella fermezza che troviamo in tanti soldati meridionali che, trovandosi al nord, si sono dati alla macchia organizzandosi nelle formazioni partigiane. Quell' esempio "di rigore, di pulizia, di modestia" che Enzo Biagi ricorda della figura di Pietro Pandiani, il tarantino "Capitan Pietro", un comandante partigiano che non volle fare carriera, che rimase sempre un uomo schivo e riservato, che non cercò onorificenze e buoni posti.
La città di Taranto ha voluto ricordare questo valoroso combattente, indicando alle giovani generazioni la virtù del suo silenzioso eroismo, del
suo disincantato ma infrangibile rigorismo morale, che può valere come sano correttivo dei guasti della società dello spettacolo e del rumore, che deve valere come esempio della parte più nobile dell' anima meridionale e tarantina.
Nel maggio del 1988, per iniziativa del sindaco Mario Guadagnalo, con la partecipazione delle Associazioni Partigiane A.N.P.I. - F.I.V.L. - F.I.A.P. ELA.P. e della 1° Brigata "Giustizia e Libertà" della Divisione Bologna,
dopo gli interventi del Professor Roberto Nistri, dell'avvocato Francesco Berti Arnoaldi Veli (Presidente Istituto Regionale Storia della Resistenza in Emilia Romagna) e di Aldo Aniasi (Presidente Nazionale F.I.A.P.), i giardini antistanti la sede dell'ex Enpas sono stati dedicati a Pietro Pandiani, capitano medaglia d'argento al valore militare. I tarantini hanno voluto onorare questo loro concittadino dedicandogli un cippo marmoreo in ricordo della lotta partigiana e dei valori a cui essa rimanda: libertà, democrazia, tolleranza, giustizia sociale.

lunedì 6 maggio 2013

Presentazione del libro “Taranto democratica"



 
ANPI TARANTO
SCORPIONE EDITRICE

Lunedì 6 maggio 2013
Ore 18,00

CENTRO SPORTIVO MAGNA GRECIA
Via Zara, 121 - Taranto

Presentazione del libro

“TARANTO DEMOCRATICA
dalla dittatura alla Repubblica (1943-1946)”

Introduce

GIOVANNI BATTAFARANO, Presidente ANPI Taranto

Interventi degli Autori

ALFREDO ANZOINO
ROBERTO NISTRI
PINO STEA

dell’Editore

PIERO MASSAFRA  

Conclusioni

CORRADO PETROCELLI Magnifico Rettore Università di Bari


Gli studenti e i cittadini sono invitati
ANPI Taranto – Via De Cesare 4 – Taranto
anpitaranto45@gmail.com

Taras: 3001 Odissea nel Mar Piccolo

Per la prima volta on line, un fumetto disegnato dall'ottimo Vito Messi, e sceneggiato da Roberto Nistri. Edito nel 1981 sulle pagine della rivista "Città".

La fatica di Sisifo: la costruzione della pace


"La fatica di Sisifo: la costruzione della pace"
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati.

Intervento tenuto a Palazzo Pantaleo, il 7 luglio 1994, in occasione dell'incontro - organizzato dal Comitato "Non c'è pace senza giustizia" - con il sindaco di Sarajevo, Muhamed Kresevljakovic

Il sogno jugoslavo di uno stato multietnico, capace di federare e far convivere in un comune progetto popoli tormentati da conflitti e rancori storici, sembra essersi definitivamente infranto. Sorprende la rapidità con  cui, nel giro di 2-3 anni, è cresciuta la diffusa persuasione dell'incompatibìlità tra popoli sino a poco fa ancora fortemente intrecciati ed assai mescolati in molte regioni del paese (oltre che nell' emigrazione). Ma ii demone nazionalista è così: si diffonde con grande rapidità, al pari del razzismo o del fanatisrno religioso distingue con nettezza tra "noi" (amici) e "loro" (nemici), fa rapidamente proseliti, emargina (e magari punisce) come traditore chi non è d'accordo e non canta nel coro, e si assiste così alla veloce distruzione del "fondo comune" che teneva insieme genti diverse.
Molto tempo fa avvertiva lo scrittore croato Krleza: la Jugoslavia è come una bettola, piena di avventori pronti a spegnere le luci per dare mano ai coltelli. Ora hanno spento la luce. E non ci sono miracoli o scorciatoie. Non c'è altra strada che la soluzione pacifica, negoziata, rispettosa delle esigenze di parti che oggi sembrano votate alla convinzione "mors tua, vita mea" e che invece dovranno re-imparare a convivere in una regione europea,in una Europa che non può convivere né con uno scenario Beirut né con uno scenario Belfast. Una Europa che non tuttavia non può pensarsi senza il Mediterraneo, perché è nata nel Mediterraneo, che non è e non può essere solo un "mare del passato".
Il nome greco del Mediterraneo era "mesogaios" ("tra le terre"), una sepa razione che era anche coniugazione, visto che un altro nome era "pontos", ponte che esprime distacco e congiunzione con l'Altro. Oggi purtroppo il Mediterraneo non sembra più ii mare della scoperta, dell'attraversamento,
non è più un grande spazio di comunicazione ma una barriera che tiene
distanti gli "intrusi", che isola e divide. Una storia sciagurata lo ha trasformato, da straordinaria opportunità di conoscenza e di scambio, in luogo chiuso fatto di ostilità e di impenetrabilità. Il mare ha mutato la sua natura, trasformandosi in muro, frontiera.
Come ha detto l'autore "Mediterraneo", Pedrag Matvejevitch, l'Europa
pretende di assumere una forma senza riferimenti al "suo" mare, il "mare primo", la "patria dei miti". Il Mediterraneo rimane come un dato di fatto residuale, non è un progetto né per la ricca sponda nord né per la povera sponda sud. E così quel sud che è stato l'inconscio del mondo, il ventre da cui sono uscite le civiltà, sembra destinato a diventare un mondo di "ex". La Jugoslavia è la tragica metafora di un fallimento: il sogno della realizzazione di una convivenza all'interno dei territorio multietnici o plurinazionali, dove s'incrociano e si mescolano culture variegate e religioni differenti, sembra rovesciarsi nell'apocalisse.
"Da Oriente a Occidente, in ogni punto è divisione". Questa citazione di Leonardo, che sembra una centuria di Nostradamus, bene si applica alla ex Jugoslavia: frontiera tra Oriente e Occidente, falla tra la cattolicità latina e l'ortodossia bizantina, tra la cristianità e l'Islam. Primo paese del Terzo mondo in Europa o primo paese europeo nel Terzo mondo, è difficile dire a quale categoria questo paese possa appartenere, fra la tradizione asburgica e quella ottomana. Mentre i giovani abitanti della sponda sud sono lacerati da un'alternativa insolubile: modernizzare l'Islam o islamizzare la modernità? In questo grande anfiteatro sembra che si reciti sempre lo stesso repertorio, con gli stessi gesti e le stesse parole, e l'incapacità della parola nuova, della liberazione verso il futuro, ha alimentato ormai una orribile corsa verso il passato.
Una parte di questa Taranto ha sempre cercato di contribuire al dialogo interetnico e rafforzare tutti gli impegni che in questo senso vengono esercitati da coraggiose minoranze controcorrente che esistono in tutti i territori della ex Jugoslavia. Un gruppo di tarantini partecipò, nel Natale del '92, alla marcia su Sarajevo organizzata da "Beati i costruttori di pace", con alla testa il non dimenticato Mons. Tonino Bello, vescovo di Molfetta. Alcuni tarantini collaborano con i campi profughi insediati fra Bari e Foggia, con il sindaco di Molfetta Guglielmo Minervini. Collaborano al progetto per la ricostruzione della Biblioteca di Sarajevo. Sarebbe ora che nel Centro storico di Taranto, che è un "testo" essenziale di questa nostra storia mediterranea, si promuovesse un centro studi sul Sud Europa. E che si promuovano strutture di accoglienza per evitare il moltiplicarsi di sempre nuove divisioni e conflittualità.
Non si tratta di arginare l'esplosione di una follia localizzata e anomala.
Con la fine dell'ordine bipolare stiamo assistendo all'esplosione di una miriade di guerre civili. Sempre più crudeli, sempre più incontrollabili: quella che, nel suo ultimo libro, Hans Magnus Enzensberger chiama la metastasi della "guerra civile molecolare". Una nuova peste, dalla quale l'Italia è tutt' altro che immune. Sarajevo può essere ovunque. Per questo dobbiamo sempre di nuovo ripartire alla ricerca della "nuova spiaggia". Sempre di nuovo, come Sisifo, dobbiamo riprendere a spingere fino alla sommità del monte un macigno, il macigno della pace, che purtroppo riprende sempre a  rotolare.