venerdì 9 agosto 2013

Intervista di Anita Preti a Roberto Nistri sulla chiusura estiva del Museo Archeologico

Intervista di Anita Preti a Roberto Nistri sulla chiusura estiva del Museo Archeologico

di Anita Preti.
Già edita in: Quotidiano 30 giugno 2013

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati.

...La notizia aveva suscitato scalpore, se ne parlava nelle edicole che sono le tribune del popolo. "Taranto capitale della cultura? E chiude il Museo? D'estate!", sì, l'ha proprio ascoltata Roberto Nistri, scrittore, storico, a lungo docente nel prestigioso liceo Archita.

"Io mi sento fasullo nel fare qualsiasi commento. Facciamo sempre la figura di quello che va controcorrente. Da noi vince invece la "Prozac leadership", quella che infonde calore, sicurezza, ti eccita:  "Basta rimboccarsi le maniche!". Ed invece siamo di fronte ad una catastrofe cronica, di lunga durata, che va ben oltre le origini dell'Italsider-Ilva. Da noi si fa tutto quello che non si fa nel resto del mondo".

Così Nistri non può essere tenero con l'ignavia dei più:

"Questa città sembra come se fosse vuota, occupata abusivamente dagli abitanti. E' un contenitore di ricchezza di cui può disporre in minima parte. Noi siamo custodi di un Pil dai confini ineffabili e siamo ostaggi di forze autorevoli che ci mettono in riga".

Come nel caso del Museo.

"Quel pizzico di salvezza che abbiamo è legato a tutto ciò che non ha niente a che fare con la grande industria, che è a latere della monocultura industriale. Queste isole residuali, queste zone franche sono poche. E l'unico tratto identitario, conosciuto e riconosciuto su scala planetaria da tempi remoti e fino ai giorni che arriveranno, è il Museo. L' unico patrimonio che possa restituire ed anche innescare una sorta di riconquista di titoli onorifici che una storia cattiva ci ha dissipato. Allora aspettiamo".

Non c'è scelta.

Alessandro Leogrande e i fumi di Taranto

Alessandro Leogrande e i fumi di Taranto 

di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati

Alessandro Leogrande è nato giornalista. Nei corridoi del liceo “Archita” s’impegnava nel giornalino d’Istituto e scriveva ponderosi saggi sulla rivista “Galaesus”. Partecipava ad un confronto fra una ventina di studenti e lo scrittore e critico cinematografico Goffredo Fofi, che lo sollecitava a intervenire ad un convegno a Napoli sulle culture giovanili nel sud. Suggerimento accettato da Alessandro che, marinando alcune giornate scolastiche, pubblicava in seguito puntuali resoconti sul “Quotidiano” di Taranto. A Roma si laureava bene in Filosofia, senza farsi imprigionare nella gabbia dell’esamificio. Collaborando alla rivista “Lo straniero”, incominciava a condurre numerose inchieste per Radio Popolare e, nel novembre 1998, per la tarantina Primavera Radio raccoglieva preziose interviste sulle condizioni di lavoro nel Siderurgico. Una importante esperienza è stata certo quella di giornalista accreditato presso il G8 di Genova. Quasi come congedo dalla piccola patria pubblicava nel 2000 una robusta inchiesta su Taranto, una città “emblematica della storia italiana di fine millennio, modello per lo sviluppo del mezzogiorno degli anni sessanta, divenuta poi l’incubo degli anni novanta”.
I sempre più numerosi titoli di Leogrande evidenziano la ricchezza delle sue esplorazioni: Criminalità: il versante adriatico del 2002; Le male vite, storie di contrabbando e multinazionali del 2003; Nel paese dei vicerè, l’Italia tra pace e guerra del 2006, Ragazzi di mafia del 2008; Uomini e caporali, nuovi schiavi nelle campagne del sud del 2008; Il naufragio della Kater i Rades, morte nel mediterraneo del 2011; Fumo sulla città, del 2013. Come si vede, lo scrittore ha voluto curiosare su terreni poco battuti, frequentati da eterni stranieri, anime danneggiate, figure che abitano sull’orlo, mafiosi, contrabbandieri, migranti in viaggio verso un buco nero, mercati di braccia e corpi, fra prigioni e racket dei caporali. Alessandro è scrittore di corpi in fuga, rappresentati con ricognizione analitica, puntuale, senza imbrigliare la voglia di capire e di raccontare, mettendo in gioco la propria soggettività: ne Le male vite, si veda il racconto di Ciccio Prudentino, il “signore delle sigarette” con il suo socio Quaranta, che giocano a carte con il famigerato comandante Arkan nel casinò di Pogdorica, perdendo assieme tre miliardi e mezzo di lire: una forma di omaggio o prezzo da pagare per stringere affari con il comandante delle Tigri e criminale di guerra. Con lo stesso tono da film di Orson Welles, si svolge la conversazione con un altro giocatore corsaro e perdente, come il pittoresco vice del granguignolesco Giancarlo Cito. Ma qui incappiamo in un detour, un incessante andirvieni fra il primo e l’ultimo libro di Alessandro.
Abbiamo fatto cenno al testo del 2000, Il mare nascosto: un titolo molto incisivo che indicava l’obsolescenza del Paradigma Mare nel vissuto quotidiano di una Taranto infelix, che per secoli si era fregiata del titolo di Città dei due mari. Un libro di congedo che si portava appresso il solito essere-due, il sentirsi sempre a metà della città, ma anche il libro della conquistata maturità, dell’uscita dalla minorità, in una città governata da un guappo che sognava di essere re, mentre un popolo bambino impazzava. Opportunamente il testo in cui recensivamo gli Jonici Graffiti di Leogrande era titolato Esodi e approdi. Il cittadino adulto se ne va, ma non cesserà di misurarsi con il cuore di tenebra, il diabolus ex machina che si è incistato nel carattere sociale della città ebalica, indossando la maschera proterva del sindaco in orbace oppure quella dello spacciatore di rottame e di diossina.
Il primo libro non si scorda mai, se è un libro seminale come il Terroni del tarantino De Cataldo. Così nel testo d’esordio di Alessandro erano già raccolte, come in un primo movimento musicale, le cellule della successiva ricerca: il filo del Mare nascosto si ritrova in Fumo sulla città; una scrittura che, come una conchiglia, sembra silenziosa ma dentro ci puoi ancora sentire il rumore del mare.
Non si può perdere un legame con una città all’interno della quale si è fatto almeno un pezzettino di storia, nel caso specifico lo scontro con Cito, il ras degli zeloti, ll sindaco nero. Lo choc e lo spaesamento segnavano l’autore nella notte di Valpurga, il 21 dicembre del ’95, quando saltava il coperchio e dal pentolone infernale fuorusciva il Pandemonium, la festa di tutti i diavoli: un corteo aperto da uno striscione con la scritta “Siamo tutti mafiosi”, una fiumana livida e arruffata di diecimila citoisti che imprecavano e minacciavano a destra e a manca, ripetendo in mezzo alle ronde degli ultrà neofascisti: “Chi non salta comunista è”.
Il filo nero di questa vicenda continua a svolgersi in molte pagine di Fumo sulla città. Un pezzo di bravura rimane l’intervista a Mimmo De Cosmo, ex delfino di Cito e sindaco di Taranto dal 1995 al 1999, spodestato dal boss e condannato a tre anni. Dopo aver affrontato in solitudine una sequenza di processi, gestiva una improbabile bottega di antiquariato. Con garbo Alessando tirava fuori dal fascistone incallito un intelligente bilancio dell’avventura citiana. Fin dagli anni sessanta i due squadristi avevano avuto di che brigare nella città di Taranto, Cito come capo indiscusso del manipolo, De Cosmo come guardaspalle e uomo ombra. Impagabile nei filmati goliardici della trash television, quando vestito da Papa benediceva il duce truce, con codazzo di ragazzuole vestite da suore. In realtà era l’unico a non subire totalmente l’arroganza del Piccolo Cesare. Mente fina, fra i due aveva più intelligenza politica De Cosmo, non privo di un certo garbo dialogante.
All’intervistatore Mimino rispondeva con spirito brioso, fumando una sigaretta dopo l’altra e tirando continuamente col naso, invecchiato ma abbastanza lucido nelle sue analisi. Cito era stato assolutamente incapace di organizzare una vera lega meridionale quando il momento era propizio e alle Europee a Milano avevano ottenuto migliaia di voti tra gli immigrati. Ma Il Dittatore dello Stato libero dei Caggioni non sapeva schiodarsi dal suo autarchismo jonico. Quanto agli altri politici, non avevano capito che la città per il 70% era fatta di gente che viveva in periferia, che prima o poi avrebbero preso d’assalto il comune e la città sarebbe finita a rotoli.
De Cosmo si spegneva durante le seguenti elezioni del 2007. Veniva svuotato il suo negozio di busti mussoliniani e nostalgiche cianfrusaglie, orologi a cucù, vecchi lampadari, bambole, nonchè una insegna in corsivo: “Un salto indietro nel tempo”.
Sicuramente la vicenda citiana è risultata cruciale nell’esperienza esistenziale, ma anche di studio e di scrittura, del nostro Leogrande, soprattutto considerando la persistente rimozione, da parte di politologi e analisti tarantini, nei riguardi di quel “bubbone” esploso inopinatamente , per usare la metafora crociana sul fascismo e che invece si sarebbe dovuto studiare “gobettianamente” come il più torbido capitolo di una autobiografia della comunità. Nelle sue molte pagine tarantine l’autore ha messo in guardia contro il frastornante “eccezionalismo tarantino”: disoccupazione, malaedilizia, inquinamento, tumori… Nella crisi di lunghissima durata, per Leogrande sempre “andrebbe ricordato che la politica è stata e continua a essere questa”. Eppure ci sembra che la sindrome Cito abbia avvinghiato lo scrittore e non solo lui. Si avverte come l’eco disperato delle ultime parole di Kurtz in Cuore di tenebra: “Quale orrore”! “Quale orrore”! Addirittura il giornalista Lanucara ebbe a paragonare il Duce dei Caggioni al demone del Necronomicon, quel Cthulhu che Lovecraft rappresentava come una enorme testa di polpo. . Giustamente Claudio Fava in Sud ridimensionava Cito nella categoria del “demone meschino” di Sologub: “ Nemmeno Cito rappresenta veramente il potere a Taranto. Recita, improvvisa, scalcia, si diverte”.
Comunque quella sindrome ci sembra abbia parzialmente velato l’acume giornalistico di Alessandro, in occasione della insorgenza dei “non rappresentati” nella piazza del 2 agosto 2012, quando si determinava la spettacolare contestazione dell’Apecar nei confronti di una gestione sindacale non sempre limpida. In quell’occasione lo scrittore ebbe ad usare un lessico secondo noi poco opportuno: “ultrà, fascisti e teppisti” nei riguardi di operai e giovani precari o disoccupati. Molti fra i presenti in quella manifestazione, compreso lo scrivente, accoglievano lo squillo di tromba dello sgangherato trabiccolo come un liberatorio “Arrivano i nostri!” Crediamo di non sbagliare, pensando che Leogrande abbia invece visto, in quella folla casinara, risorgere le truppe cammellate del citoidi, i fantasmi di quel lontano 21 dicembre del 1995. Ci sembra che il seguito degli eventi non gli abbia dato ragione, anche se nel futuro quei maligni “spiriti animali” potrebbero riprendere a sputare fuoco. Di questi accadimenti abbiamo discusso con Leogrande, e si continuerà a discutere a lungo, con quanti dentro e fuori la città continueranno a spingere la pietra lungo una strada tutta in salita, per difendere una città chiamata Taranto, che subisce una autentica Strage di Stato di lunga durata, paradossalmente rea confessa e a norma di legge. Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare.
Nella sezione sezione conclusiva del libro, Zibaldone delle polveri, l’autore riapre la problematica della grande industria su uno scenario globale che vede ancora una volta la città di Taranto come un osservatorio (si fa per dire) privilegiato di questo angustioso presente storico. In Leogrande apprezziamo una dimensione molto minoritaria nel dibattito cittadino. Lo scrittore ha forte il senso della memoria o addirittura della memorialistica : in particolare la memoria del lavoro. Ebbene, mentre la siderurgica locomotiva del progresso si è infilata in un buco nero, trascinando con sé apologeti e trombettieri del re, faccendieri e giornalisti su libro paga, Alessandro cerca di misurarsi con una enorme problematica industriale dalla quale è assente il grande motore dello sviluppo storico: il conflitto sociale. In questa incerta vicenda sembra del tutto irreale applicare la tradizionale dialettica hegeliana servo/padrone. Funziona invece il paradigma della Shoa, il rapporto fra vittima e carnefice, con l’inevitabile overdose di memoria, testimonianza , emozione, nonchè l’indesiderabile effetto collaterale del negazionismo. E’ un continuo rivivere la tragedia senza tuttavia superarla, come scrive Miguel Gotor. Lo scrittore sembra fiducioso, l’illuminismo meridionalistico di Leogrande si muove controcorrente, anche se in tutta una serie di scritti evidenzia e lamenta la desertificazione industriale del meridione. Non sappiamo quanto abbia ragione, ma sappiamo che vuol vedere la storia rimettersi un moto.
L’aspetto che tuttavia consideriamo particolarmente importante di Fumo sulla città, non riguarda tanto il lato economico, attorno al quale ormai è fiorita una sterminata pubblicistica, quanto la ripresa della questione urbanistica, sulla quale anche gli ambientalisti dicono poco o niente. Sono puntuali le pagine sulla città vecchia e sul Borgo, ma soprattutto lo scrittore riesce a cogliere la dimensione residuale dell’abitare: una non-città dai margini indistinti che si sperde in un gigantismo edilizio del tutto incongruo, con uno sfinire in irredimibili periferie di Case Bianche che non sono più bianche. Massi squadrati dalla campagna, sulle erbacce si alza direttamente il cemento. La città è diventata sempre più un arcipelago di satelliti, con scarse strutture e infrastrutture. Ma il centro intorno al quale questi satelliti dovrebbero girare collassa. “In queste periferie muore il Sud”, ha scritto Leogrande. Da queste banlieues, dai margini della città, lo scrittore ha alzato lo sguardo per scrutare la sorte di questo mondo di stranieri, dell’emarginato braccato da tutti, come nel film L’odio di Mathieu Kassovitz (1995) con il suo folgorante incipit:
“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani.
Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro il tizio per farsi coraggio si ripete
‘fino a qui tutto bene…’
‘fino a qui tutto bene…’
Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.