venerdì 13 novembre 2015

Quando ricordare la guerra non è vuota retorica


Quando ricordare la guerra non è vuota retorica



di Roberto Nistri

in: La Gazzetta del Mezzogiorno di venerdì 23 ottobre 2015

La giornata di studi del  4 ottobre, promossa dalla benemerita Associazione degli «Amici dei Musei», curata nei dettagli dalla presidente Annapaola Petrone Albanese, ha supplito egregiamente alla latitanza delle istituzioni municipali. Per una volta, la città di Taranto ha onorato seriamente il sacrificio di tanti concittadini che hanno consumatole loro vite in quel conflitto che non si è mai esaurito e che, a tutt’oggi, ci rende ancora eredi e sudditi della pestilenza bellica, che continua ad ingrassare e onorare i mercanti di cannoni e i produttori su larga scala di sua maestà, il filo spinato.
Quel feticcio supremo della guerra infinita, il simbolo par excellence della reclusione universale, che moltiplica muri e trincee nella generale omologazione fra carcerati e carcerieri. La memoria storica della sciagurata deflagrazione, causata da un sabotaggio, della corazzata «Leonardo da Vinci» nel Mar Piccolo di Taranto nella notte del  2 agosto 1916 doveva comportare la morte di 227 membri dell’equipaggio e 21 ufficiali.
Senza le paccottiglie retoriche che nel passato hanno ammorbato la locale memorialistica cittadina, relatori esperti come l’ammiraglio Ermenegildo Ugazzi, Comandante Marina Sud, e gli ammiragli Fabio Caffio e Fabio Ricciardelli della Fondazione Michelagnoli, hanno presentato una ricostruzione accurata ma non pedante di quella tragica vicenda. Questo in virtù anche di un affascinante documentario d’epoca: Morte e resurrezione di una nave. Appassionante anche la relazione dell’architetto Augusto Resta sulla pregevole operazione di restauro del busto di Leonardo da Vinci, posizionato nella Villa Peripato a ricordo del tragico evento.
Nel passato non sono mancate al riguardo le corbellerie toponomastiche. Sul finire degli anni ’50, in una rassegna del Comune di Taranto, non mancavano topiche gustose. Per esempio, a cercare informazioni sul perché di una «rampa Leonardo da Vinci», si incappava in una strana minibiografia dell’illustre personaggio: «Perfezionò le conche, iniziò lo sparo (sic!) dei mortai grandinifughi, costruì molti canali lombardi, studiò il volo degli uccelli in relazione all’aviazione (?) e fondò la dottrina (!) del moto ondoso».
Messo a posto l’ingegnere Leonardo, la giornata di studi si concludeva con grande soddisfazione dei presenti per il risanamento del busto rivolto a Mar Piccolo, pur rimanendo come sempre perplessi di fronte alla enigmatica epigrafe posta a suo tempo dal magniloquente Criscuolo: La codardia nemica distrusse la nave il valore l’italico impero. Tre complementi oggetto distrutti dalla codardia nemica.

Le due città e una tarantola



Le due città e una tarantola


 di Roberto Nistri

© Roberto Nistri 2015. Tutti i diritti sono riservati.

       Mi trovavo a frequentare  per la prima volta la città di Lecce verso la metà degli anni ’60, ospitato da Adolfo Buja,  ex compagno di banco al liceo “Archita”  di Taranto, che si era trasferito in terra salentina .  In quel tempo entrava in funzione il primo altoforno dell’Italsider,  ma questo  non  angustiava minimamente quella my generation che, per ultima, aveva avuto il privilegio di vedere il cielo di Taranto non trafitto dalle ciminiere. Nessuno avrebbe mai potuto sospettare che, nell’anno di disgrazia 2013,  il Comune di Lecce dovesse manifestare serie preoccupazioni per i fumi tossici provenienti da Taranto. Il soggiorno leccese doveva risultare molto istruttivo per lo scrivente: Rino Buja,  grande erudito locale, mi illustrava fatti e misfatti della città, senza fare alcun cenno al tarantismo e alle sue ritualità. Avrei in seguito compreso che, in quel periodo, la musica tarantolata non godeva di particolare fortuna nella cultura borghese cittadina. Non per questo la tradizione si era esaurita. Una vivace testimonianza del tarantismo nel decennio precedente veniva offerta dall’erudito Giovanni Antonucci in una lettera al tarantino Cosimo Acquaviva il 26 novembre 1950: “Io ebbi uno zio dalla vita alquanto irrequieta, tutto preso da velleità di canto e di essere un violinista. Quando qualche tarantolare era colta dalla frenesia del ballo, lo si chiamava perché mettesse in pratica le sue doti musicali: io bambino di 7 od 8 anni correvo cogli altri a vedere la scena che svolgevano in qualche casa a piano terreno e colle porte aperte” (1).
       A dire il vero la  Città  Barocca , considerata arretrata e sonnolenta, era abbastanza snobbata dai tarantini, che in quella fase stavano vivendo l’ebbrezza della grande mutazione industriale. Anche lo scrivente , dopo aver frequentato qualche salotto old fashion e fascistino, in cui era tabuizzato l’argomento Jo Staiano (il primo trans che si era fatto onore nel felliniano La dolce vita)  pensò bene di ritornare di corsa fra i due mari, con tutto l’affetto e la simpatia per la “Bella addormentata”.  Sembrava una città in bilico fra magia e deserto che sarebbe piaciuta al  flaneur Roger Caillois, il cercatore dei “demoni meridiani” della tradizione folclorica, che nella sua Guida Blu aveva rievocato anomalie e sregolatezze, come vetrine che esponevano pipistrelli-vampiro appesi a testa in giù, “simili da lontano a ombrelli di seta neri riposti in buon ordine”.
      Si ritornava  a frequentare Lecce nei paraggi del ’68, quando vi erano abboccamenti fra i combattivi universitari baresi e tarantini e gli ammuinati studenti leccesi che, quanto a contestazione, stavano un po’ scarsi. Eppure proprio in quel contesto avevamo la fortuna di conoscere fugacemente la Rina Durante che, come ha scritto Ilaria Marinaci,  era riuscita a vedere prima degli altri il Salento del futuro , fondando il canzoniere Grecanico Salentino , contribuendo alla riscoperta del griko e analizzando fenomeni identitari come il tarantismo. Accanita masticatrice di tabacco,   avrebbe scritto anche uno splendido racconto Intitolato  La Luce, sulla acciaieria di Taranto (Manni, 1996). Alessandro Leogrande ha tracciato un bellissimo profilo di Rina Durante, proprio a partire dall’esperienza del ’68 e dintorni: La liana arborea e la fine dell’utopia, in “Galaesus”, Taranto, 2014.  “Vado cercando musiche e musicanti per le terre dei padri…nel paese dell’Eco che mi hanno detto risuonare di suoni”, canti notturni di suonatori erranti, fra risentimento e sfinimento …
      Protagonista autorevole di quella stagione di “radiose utopie”, per tirare su i  ragazzi che,  a partire dalle facoltà occupate, non trovavano una fabbrichetta ove distribuire qualche volantino, la Durante faceva una mossa geniale simile a quella di Galilei, quando puntava verso le stelle quel cannocchiale che tutti consideravano solo un oggetto di trastullo. La  signora Rina ebbe la bella pensata di far entrare nell’Università alcuni suonatori di musica di tradizione, che all’epoca rimediavano qualcosina fra matrimoni e compleanni:  nell’Ateneo doveva fare furore il Toto di Calimera. La mossa galileiana della Durante era  straordinaria: si apriva una storia e peccato che, nella anticopernicana Taranto di ieri e di oggi, nessuna testa pensante sia stata capace di una simile genialata.  Le due città continuavano ad avere storie divaricate,  ma era Lecce che iniziava ad incrementare passo dopo passo il proprio sex appeal.
       Intanto nel 1971, avendo a lungo frequentato la casa di Alfredo Maiorano, avevamo avuto modo di apprezzare in anteprima la ricchezza del suo repertorio etnografico, potendo  anche  seguire la sapiente cura esercitata da Antonio Rizzo e Alberto Cirese, nell’allestimento della grande mostra sulle tradizioni popolari,  che doveva costituire un vero primato nell’Italia meridionale. Sulle tristi vicissitudini del costituendo Museo, la storia è nota. L’infelice gestione, da parte degli amministratori, della donazione di don Alfredo, era già un segnale inequivocabile dell’inarrestabile declino di una cultura cittadina ormai slegata dalla propria storia.
       Nel 1984 usciva il film di Giuseppe Schito,  Il ragazzo di Ebalus (1984): si raccontava di un giovane terrorista in crisi che, in fuga da Milano, cercava l’aiuto dei compagni dell’Italsider di Taranto. Braccato sia dai poliziotti che dai brigatisti, veniva ospitato da un vecchio contadino, reincarnazione di quell’agricoltore di Corico (l’attore Cucciolla)  che, incontrando Virgilio sotto le torri della rocca di Ebalo, lo introduceva alla magia del mondo contadino, volta a sconfiggere la cultura della violenza. Casualmente proprio in quel periodo seguivamo a Taranto il processo alla colonna tarantina di “Prima Linea”, scrivendone qualcosa in A sud del Sessantotto. Erano gli anni di una svolta epocale, traumatica. Le cose stavano cambiando. Con l’esaurirsi della Vertenza Taranto, la città e la grande fabbrica correvano ormai, senza alcuna consapevolezza,  nel tunnel del declino. Qualcuno armeggiava attorno a serrature che chiudevano male sull’infinito (Aragon).  I più morivano per attacchi di scetticismo. Invece la barocca “città del sonno” veniva risvegliata dal “folk revival” salentino e poi baciata dal più che principe Edoardo Winspeare .   Le raccoglitrici di tabacco salentine, rimaste inceppate negli ingranaggi di una mobilità sociale negata, non danzano più cercando di schiacciare con il piede quel ragno immaginario che era il simbolo del loro mal di vivere. Nuove generazioni hanno fatto della taranta un emblema identitario trasversale. Da zavorra del passato a risorsa per il futuro, da relitto folklorico a bene culturale. Una nuova patria culturale, avrebbe detto Ernesto  de Martino, da ricordare a 50 anni dalla morte. Egli fece del tarantismo l’emblema di un Meridione dell’anima, come ha scritto Marino Niola.
      Le “spose di San Paolo” non roteavano più la testa e non si arrampicavano sull’altare della barocchissima cappella di Galatina, ma i turisti giungevano a frotte in cerca di buone vibrazioni. Come ha scritto Marino Niola, l’ombra dell’Aracne mediterranea non ha mai abbandonato questi luoghi: “ Resta tra le spighe del grano e le foglie del tabacco come una cifra nascosta, che si rivela nei bagliori visionari della campagna abbacinata dal sole e risorge nel riverbero bizantino del tramonto, quando il cielo diventa una iperbole scarlatta  sospesa sopra un orizzonte di assoluti”.
       Ai piedi di Santu Paulu rimane uno scorpione sormontato da due serpi, sullo sfondo di una ragnatela. Il guanto era  stato rovesciato e il logo antico si andava trasformando nel simbolo positivo di una economia sostenibile e attrattiva. Si metteva in moto una grande avventura che avrebbe fatto di Lecce e del Salento un cosmopolita luogo del cuore; una storia molto lunga, attorno alla quale valorosi studiosi hanno variamente discettato.   Nell’arco di alcuni decenni, con un vasto retroterra di esperienze musicali e spettacolari, Lecce meritoriamente godeva di una pulita economia turistica, con la sua Renaissance pizzicofila. Gli anziani coetanei tarantini  di quei giovinotti del ’68, dopo decenni di volantinaggi al “Siderurgico” si ammuinavano con la ballata degli affumicati. La storia aveva rovesciato la frittata. Culturalmente Lecce e Taranto si avvicinavano:  è da ricordare la mirabilesi  operazione di Koreja e del Sud Sound System in  Acido fenico: la ballata del camorrista Mimmo Carunchio, dal testo del tarantino Giancarlo De Cataldo ispirato alla banda Modeo (2003).
      Eppure le due città offrivano ben diversi marcatori identitari: Taranto rimaneva  sottomessa alla monocultura siderurgica, Lecce valorizzava la propria tradizione pizzicomane. A ciascuno il suo, considerando che ogni monocultura recava in grembo una minaccia e anche la Città Barocca oscillava tra incanto e autarchia, magari spacciando vetusti stereotipi che fingevano vita novella, riducendo la filologia ad ancella del turismo. Nella terra di sotto  nessuno era immune dalla malinconica sindrome delle dissolvenze, degli oggetti smarriti, dei buchi neri. Per questo era importante unire molte solitudini per una piccola ragione di allegria, scacciando il demonio dalla bocca. 
       Si poteva riflettere sul sogno di Jung, durante il viaggio che lo portava insieme a Freud negli Stati Uniti, mentre maturava il suo dissenso nei confronti dello scientismo  del  Maestro. Jung sognava di scendere nella sua casa sempre più verso il “profondo”,  trovando in una grotta due teschi: le due culture, si diceva una volta. I due teschi rappresentavano le due  forme del pensare: il fisicalismo di Freud e il simbolismo di Jung, la ratio e l’icona, la techne e il mito.  Con una eccessiva semplificazione si potrebbe dire che la città del mito ha battuto la città del logos. Convinti da sempre della necessaria concordia discors fra il logo e il mito, non siamo tanto babbioni da contropporre la fucina di Efesto al reincantamento dionisiaco. Diciamo soltanto che il brand della Taranta si presentava,  nell’immaginario collettivo,  molto più attrattivo di quello dell’Ilva.
       Nel 1996 recensivamo il libro di Franco Cassano, Il pensiero meridiano, in cui si invitava a “non pensare il sud alla luce della modernità, ma al contrario pensare la modernità alla luce del sud”. Si trattava di “restituire al sud l’antica dignità di soggetto di pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri”. Un programma audace, in una qualche maniera interrotto o incompiuto, tuttavia ricco di suggestioni in riferimento alle due città . Sempre nel 1996 veniva prodotto Pizzicata di Edoardo Winspeare, il regista che doveva diventare  l’ambasciatore nel mondo del “tarantismo” e della “salentinità”: purtroppo stereotipi che rischiavano di imprigionare l’artista in una sola dimensione.  La filmografia di Edoardo non era certo riducibile alla pizzica come rock’n roll  mediterraneo: le sue erano anche storie di clandestini, trafficanti di droghe, Dark ladies della Sacra Corona Unita, vite in bilico fra musica e contrabbando, in una Puglia dove si scontravano  tradizioni antichissime e criminalità imprenditoriale.
       La frequentazione di Winspeare, soprattutto durante la produzione a Taranto del film Il miracolo (2003) si costituiva nella memoria cittadina come  un momento alto di battaglia culturale. Il miracolo deve essere girato a Taranto, diceva Edoardo. “Questa città possiede la luce più struggente d’Italia… Taranto è perfetta perché è sia spaventosa, con l’impianto siderurgico più grande d’Europa a ridosso della città, sia  il più incantevole luogo  ameno della Magna Grecia, circondata dall’acqua che riflette per ogni dove la luce”.  Cercando i volti fra gli studenti del liceo “Archita” e i ragazzini dei vicoli della città vecchia, l’artista promuoveva  una grande operazione maieutica per la cittadinanza. “Taranto è sempre molto bella”, diceva il regista all’intervistatrice Anita Preti, “ma è anche un luogo dove la violenza è palpabile, una città continuamente ferita”.
       Nell’estate del 2002 presentavamo nella città di Ebalo una corposa raccolta di studi a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, dal titolo molto esplicativo Il ritmo meridiano - La pizzica e le identità danzanti del Salento, in evidente sintonia con la riarticolazione del rapporto fra modernità e tradizione proposta da Cassano.  Sotto l’influsso incoercibile dello “spirito del tempo” , nella stessa estate veniva dato alle stampe un compendio storico-filologico della  Taranta tarantina.  In quel momento quasi felice,  la città riconquistava una  primogenitura indiscutibile , invero mai contestata dagli acculturati: il musicologo Aristosseno di Taranto raccontava di “epidemie di danza” attorno al dio della  maschera e dell’ebbrezza, Dioniso. Antidotum tarantulae, che il medico Paracelso chiamava  Lasciva Chorea, ballo licenzioso. Da Marino a Lubrano si era diffuso un immaginario colto di tutta Europa, al punto che nel Cinquecento, Cesare Ripa poteva raffigurare il tacco d’Italia come una bella danzatrice, vestita di un sottil velo costellato di tarantole.
      Si restituivano  ai due mari le origini del culto della Taranta, smarrito negli anni della grande industrializzazione. Un gruppo di “scienziati tarantoleschi”, coordinati da Carlo Petrone, raccoglieva  tutte le documentazioni reperibili nel territorio jonico su una antica cultura che ancora oggi si offre come un accumulatore di potenza di grande valenza simbolica. Con una strategia di Reconquista la Taranta  ritornava a casa.  Esaurita una  prima edizione del volume, ne veniva  pubblicata una seconda  molto più ricca. E  si continuerà ancora a ricercare, spinti dal desiderio di ritornare a casa e poter rivedere quel luogo come se fosse la prima volta.
      La memoria del Ragno veniva riattivizzata in terra jonica, ma nel frattempo era andata  smarrita una città.  Purtroppo nella antiquissima urbs la techne è stata assolutizzata, abbiamo peccato di  yubris (dismisura) e le potenze degli inferi si sono scatenate diffondendo il Male nostrum. Per poter evitare che la stessa  mater tarantula finisca asfissiata fra le emissioni dell’Ilva e dell’Eni, volenterosi artisti  si sono impegnati nel recupero del ritmo mediterraneo,  per scacciare i maligni vapori, traducendo il mood della pizzica in world music. Fra i non tantissimi, il maestro concertista Mimmo Gori ha raccolto attorno a sé valorosi musici tarantati e non scoordinati, promuovendo il Festival dello Scorpione.  
      Si tratta del più antico emblema di Taranto,  in seguito sostituito dal più accattivante Delfino. In effetti lo Scorpione,  ma anche il  santo Ragno, non brillano per benevolenza.  “Qui lo scorpione è padrone /  e la tarantola ruffiana /di un’antica follia”: così poetava Raffaele Carrieri, ricordandoci che i culti antichi avevano a che fare con un sangue russu russu. Lo Scorpione era una icona  abbastanza lugubre. Gli Africani evitavano di pronunziarne il nome perché portava male. Era minaccioso a causa della coda terminante in un rigonfiamento colmo di veleno che alimentava il pungiglione. Amava la solitudine e gli angoli oscuri, pronto a uccidere il disturbatore. Produceva  effetti allucinatori ed esperienze di transizione ad una realtà altra. Presso i Dogon rappresentava il clitoride asportato. Il più pauroso romanzo di Stephen King era l’apocalittico L’ombra dello scorpione.
      Ma i tarantini sono ormai abituati a frequentare la  Danse macabre. Del resto l’uzzolo zombaiolo e il Negramaro non ci devono far dimenticare il cuore di tenebra della tarantola. “Chi o cosa mi possiede?” rimane l’incipit di ogni horror territory.  L’Uomo Nero, lo Spauracchio, il Babau, il mito deambulante del “fantasma della mente”, il male che si rincorre e si trasforma nella sfera freudiana del perturbante, l’Unheimliche che sfalda il tessuto delle cose “reali”. Nella stasi del tempo immoto,  la calura della controra fa socchiudere le palpebre e nel giallo mare di grano s’intravede un tremolìo, una  figurata malìa e  si avverte lo straniamento dell’essere “posseduti”,  del non sentirsi soli nella propria pelle.  La tarantola è per eccellenza il qualcosa che si nasconde dietro i filari di grano,  la presenza invisibile che si muove tra le spighe. In una città virata in noir, chi combatte da sempre quello scherzo di cultura e non  di natura che è la kinghiana Mangler    (la macchina infernale) può ben avviare nelle notti pizzicate  La danse du dèsir  fra tarantole e scorpioni. I tarantini sono ormai abituati a frequentare la Danse macabre, in the Dark side of the moon.  Il mondo, diceva Ernesto De Martino, ha più che mai fame di simboli per dire i suoi mali, per lenire i suoi dolori.  Ciò che è emerso può affondare e ciò che è affondato può riemergere.   Contro il gigante di ferro  ci si può sempre  difendere,  extrema ratio,  con lo  “sputo medicinale”   e risanatore:  l’arma segreta del  principe  taumaturgo Totò  (2).

NOTE

1) Cfr. Cosimo D’Angela,  Lettere di Giovanni Antonucci a Cosimo Acquaviva (1939-1953) in    “Cenacolo”, N.S. III, 1991, Mandese editore, Taranto, 1991.
2) Cfr. Giancarlo Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso. Dal ballo risanatore allo sputo medicinale,  Congedo editore, Galatina (Le), 2004.

giovedì 8 ottobre 2015

Taranto nella Grande Guerra e il suo monumento ai caduti



Roberto Nistri

Taranto nella Grande Guerra e il suo monumento ai caduti


 © Roberto Nistri 2015. Tutti i diritti sono riservati.

Introduzione al contesto cittadino

A partire dalla fine dell’Ottocento, con la decisione presa dal Parlamento italiano, sulla installazione dell’Arsenale militare marittimo, la città jonica veniva progressivamente ed inesorabilmente militarizzata. La vistosa presenza dell’insediamento industriale modificava le coste, le altimetrie del suolo, divorando masserie, chiese e ville signorili - tra cui la sublime villa Capecelatro, modificando inesorabilmente la facies della Antiquissima Urbs. Venivano ordinate le direttrici di una impetuosa crescita demografica. Nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra, la sua struttura industriale veniva ad essere cospicuamente amplificata dalla installazione dei Cantieri Navali “Franco Tosi” sulla spiaggia a Nord del Mar Piccolo: una Società di Legnano con strutture di ben altro rilievo rispetto ai modesti cantieri Frontini (1903-1906) e Salerni (1906-1915). Nel 1898 l’Arsenale varava la sua prima unità di guerra: la nave” Puglia”, la cui prua sarebbe stata in seguito donata al poeta D’Annunzio, che l’avrebbe sistemata all’interno del suo Vittoriale.
Nel 1915 veniva portata a termine la costruzione del primo sommergibile. Il 4 giugno 1916 dallo scalo improvvisato sul quale era stata impostata cinque mesi prima, veniva inaugurata alla presenza del Duca degli Abruzzi, la prima nave interamente costruita nello stabilimento: il rimorchiatore “Villa Cortese”. Erano anni quelli in cui lo slancio e il fervore militare andavano di pari passo con quello nazionalista. A Taranto, prima che in altre città, già nel novembre 1914, si registravano scontri fra nazionalisti e socialisti. Alcuni incidenti preoccupanti si verificavano il 15 febbraio 1915, quando alcuni giovani nazionalisti protestavano contro il Consolato germanico, provocando una contromanifestazione di neutralisti, che doveva sfociare in tafferugli e arresti.
La città si preparava alla guerra. Il 30 ottobre, durante le imponenti esercitazioni navali alla presenza del sovrano, lo scoppio prematuro di una granata causava la morte di un guardiamarina e quattro uomini dell’equipaggio.
Presso le classi subalterne e soprattutto nel contado, non si registravano segnali di grande esaltazione. I socialisti organizzavano affollati comizi, come quelli tenuti nel mese di febbraio dall’on. Campanozzi a Taranto e in alcuni paesi del circondario, ma non si impegnavano più di tanto. Comprensibilmente il “blocco d’ordine” non incontrava difficoltà nel coagulare attorno a Salandra una volontà di potenza che era tutta ricchezza per una monocultura navalmeccanica che purtroppo ristagnava in periodo di pace e godeva invece di tutte le sovvenzioni possibili, quando giungeva l’eco dei tamburi di guerra. In effetti si sarebbe determinata una condizione di quasi piena occupazione, anche con non pochi lavoranti dei campi che si arrangiavano, fra città e campagna: piccoli commerci al minuto, ambulanti che recavano vettovaglie dal contado.
Dopo la dichiarazione di guerra la città era ormai “piazzaforte marittima in istato di resistenza”: la base navale più importante e al contempo il rifugio più sicuro per la flotta interalleata italiana, francese e inglese, con la Sede del 9° Reggimento Fanteria. La città che sembrava dimenticata dalla storia, stava per affacciarsi al centro del palcoscenico internazionale, crocevia della storia più grande e più folle: La guerra! Taranto era l’unico porto di grande ampiezza e l’unico cantiere completamente attrezzato in prossimità della zona dell’attività bellica. Non era teatro di guerra, di esso era però il retroscena. Il Mar Piccolo ospitava la flotta da guerra italiana e alcune unità navali inglesi di sostegno, mentre l’Arsenale provvedeva ai nuovi impianti di armi, agli adattamenti dei nuovi sistemi protettivi, alle continue riparazioni di un naviglio silurante già logorato dalla campagna in Libia. Taranto attraeva soldati da tutte le parti, ma anche tecnici e maestranze dal circondario e da tutta Italia. In Arsenale si lavorava a pieno ritmo anche di notte. Veniva riparato lo scafo del piroscafo “Orione”, squarciato da un siluro, e quello del cacciatorpediniere francese “Brory”, danneggiato dallo scoppio di una mina. Veniva ricostruita la prua del caccia francese “Boutefeu”, che era stata danneggiata da un investimento in mare, e così quella del CT. “Chinery”. Un vero e proprio boom economico, con una straordinaria espansione del tessuto urbano, pagata inevitabilmente con il totale asservimento alla militarizzazione. Anche la pesca nelle acque dello Jonio veniva vietata. Era l’altra faccia del boom, della fiorente attività economica e del prestigio internazionale. Era alto il rischio a cui la città veniva esposta, in quanto fucina, snodo e punto di partenza di gran parte della flotta italiana.
Come era accaduto per Brindisi, anche Taranto Veniva colpita. Nella notte del 2 agosto 1916 la città veniva scossa da un tremendo scoppio che sembrava sommuoverne le fondamenta. Verso le 23:00 la “Leonardo da Vinci” veniva colpita da un rombo sordo che saliva dal fondo. Lo scafo tremava ed esplosioni sempre più frequenti squassavano la nave e la squarciavano in tanti crateri, con un boato che percorreva l’aria per molte miglia. Fiamme altissime illuminavano la notte. Il professore Giacinto Peluso avrebbe in seguito rievocato “quelle ore apocalittiche: “tante grida, tanto pianto”. I marinai venivano inghiottiti dalle voragini prodotte dagli scoppi e fra di loro molti erano tarantini.
Alle 24:45 la corazzata si capovolgeva. Uno scoppio del deposito munizioni aveva fatto saltare in aria e quindi affondare in Mar Piccolo la più potente delle sei dreadnougts di cui era composta la prima “squadra da battaglia” della flotta italiana.
 Come verrà appurato negli anni seguenti, l’esplosione della “Leonardo da Vinci” si doveva ad una operazione di spionaggio tedesco-austriaco, che aveva visto il coinvolgimento anche dello scrittore tarantino Archita Valente. L’indagine degli uomini della Marina e il successivo contrattacco, il cosiddetto “Colpo di Zurigo”, alla centrale della sede del consolato austriaco in Svizzera, avrebbe permesso di acquisire una relazione completa sull’affondamento della “Leonardo” e sui piani per far saltare la “Giulio Cesare”: documenti che comprendevano una sorta di tariffario per i diversi sabotaggi e la lista completa di tutte le spie agenti in Italia, fra i quali, oltre a oscuri personaggi del Vaticano come il prelato Gerlach, veniva condannato all’ergastolo lo scombinato Valente, “suicidato” nel carcere di Avellino.
 Ricordiamo anche che Taranto aveva dato i natali al maggiore Angelo Berardi, il quale, allo scoppio del conflitto, conquistava subito una medaglia d’argento, per le sue indubbie capacità, dimostrate in numerose azioni: si poneva alla testa dei piloti di dirigibile e veniva fregiato di nuova medaglia d’argento. La fase più intensa della sua attività doveva riguardare la ritirata di Caporetto. Volava infaticabile tutte le notti per colpire con le sue bombe i ponti sul tagliamento e sulla Livenza, sulle arterie del Trentino e le balze alpine. Compiva 18 ore di volo consecutivo e batteva il record mondiale d’altezza per un dirigibile. Nell’agosto del 1918 rovesciava sul nemico, con dieci ardite azioni, una enorme quantità di esplosivi. Durante l’azione decisiva, dall’alto poteva assistere alla tremenda disfatta degli austriaci. Ironia della sorte, il grande aviatore moriva proprio sul golfo di Taranto, scomparendo in una tempesta mentre tornava a casa per ricongiungersi con la propria famiglia. La città riconoscente gli avrebbe dedicato la via Berardi nel borgo umbertino, dove Angelo era nato e aveva trascorso l’infanzia, già intestata al patriota Nicola Mignogna.


Le tribolazioni joniche per un Monumento ai Caduti


Per una città che era stata palcoscenico della Grande Guerra, con le sue importanti vittime, può essere interessante ripercorrere la tormentata vicenda ultratrentennale del colosso dominante l’attuale Piazza della Vittoria, già Piazza XX Settembre. Il vero caduto o almeno infortunato, sul bronzeo campo di battaglia, doveva essere l’onesto scultore Francesco Como, combattente sul Carso, massone, discepolo del Maestro Ettore Ferrari, angariato dai fascisti in quanto vecchio repubblicano. La cittadinanza auspicava a gran voce la messa in cantiere di un solenne monumento volto ad onorare la memoria dei valorosi caduti. Già nel 1919 il Consiglio Comunale, presieduto da Francesco Troilo, faceva nascere rapidamente un pletorico Comitato organizzativo. Non mancavano tuttavia riflessioni più ponderate. L’insegnante Anna Caggiano propugnava una istituzione umanitaria: al posto di un monumento, una opera che, nella sua utilità, esalti il ricordo di chi donò la vita alla Patria, suggerendo “un edificio scolastico, un asilo infantile, un rifugio per minorenni, un ricovero per orfani ed abbandonati, ”. Continuavano a venir fuori proposte assennate: “un ospedale che potesse dare a tanti sofferenti poveri, il modo di lenire i dolori, di sanare i mali, di conservarsi ancora alla vita, al lavoro, all’amore dei figli (articoli della “Voce del Popolo”, 1922). Qualche dubbioso forse ricordava l’amaro avvertimento del liber’uomo Ugo Foscolo: “ove dorme il furor d’inclite gesta / e fien ministri al vivere civile / l’opulenza e il tremore, /inutil pompa / e inaugurate immagini dell’Orco / surgon cippi e marmorei monumenti”…

Note a margine. Non si può sottovalutare il ruolo della funzionalità monumentale nella costruzione di un immaginario collettivo, nel quadro anche di una formazione identitaria. Quando si parla di monumenti non si deve considerare solo l’aspetto estetico, ma anche la funzionalità politica. George L. Mosse considerava la “monumentalizzazione” come uno degli aspetti caratteristici del processo di costruzione di una comunità. Naturalmente, non si può neanche trascurare un semeion fortemente significante, che intenda supportare un investimento emozionale, più o meno vocazionato alla universalità.

Si avanzavano proposte umanitarie, ma non condivise dalla Marina M.M. e dal fronte dei reduci, che avevano visto perire i propri compagni, e dai famigliari delle giovani vittime. La Marina e le associazioni combattentistiche non demordevano. L’erezione di un cippo era da considerarsi non discutibile, obbligatoria, tassativa, malgrado la magniloquenza di un preventivo che doveva raggiungere le 300.000mila lire, in una situazione postbellica bisognosa di molti risanamenti. E monumento doveva essere! Sia pure con risorse contingentate.
Nel 1919 il Consiglio Comunale, presieduto da Francesco Troilo, faceva nascere rapidamente un pletorico Comitato organizzativo. La prima questione doveva riguardare il sito, con incertezze nei riguardi di piazza Archita. Sorgeva all’orizzonte un progetto dell’illustre architetto Cesare Bazzani prospettato per i giardini Garibaldi, ma veniva lasciato in sospeso. La discussione riprendeva senza fretta nel 1921, con l’amministrazione Delli Ponti. Nelle more, si era messa in opera la strategia del “fai da te”: le lapidi fiorivano a piacere. Nel frattempo la presidenza del Liceo Classico “Archita”, con grande smacco per il Municipio, provvedeva a ricordare il sangue dei suoi 52 studenti caduti, con una lapide apposta sulla facciata dell’Istituto. Si pensava ad un periodico “cambio della guardia” al monumento, fra gli studenti. Rimaneva da sciogliere il nodo del sito: posizionare il manufatto in Piazza Giordano Bruno, avrebbe diminuito la visibilità della facciata dell’Arsenale e l’imbottigliamento della stessa Piazza, punto nodale della rete tranviaria. Per fortuna veniva scartata la proposta di insediare il monumentone al centro del gran piazzale della Villa Peripato, con cassarmonica per la banda (Peluso p. 67).
Tutti concordavano sulla necessità di una ampia superficie di sfondo: ci si orientava verso il centro di Piazza XX Settembre, progressivamente annientando i palmizi che la circondavano. Nel 1922, a ridosso della marcia su Roma, il clima diventava più battagliero. Vi furono maltrattamenti nei confronti nei confronti dello scultore Como e dei suoi fratelli, abbandonati dallo squadrista motorizzato Parabita in una zona malarica. Si diffondevano anche manifestini malevoli.
Nel 1923 era partito il concorso nazionale. La commissione esaminatrice, formata per lo più da massoni, proclamava vincitore l’autore del bozzetto a cui era stato dato il titolo “Si spiritus pro nobis quis contra nos?”: trattavasi di Francesco Como, premiato con lire 5000. Gli esclusi dalla mangiatoia addirittura avrebbero preteso che Como dovesse starsene contento del suo premio e lasciare ad altri l’esecuzione del progetto. Questo prevedeva quattro gruppi bronzei raffigurati dallo scultore tarantino intorno ad un grande basamento marmoreo: “La Vittoria e i suoi eroi”, “Taranto e i suoi Artefici “, “L’Apoteosi del Fante” e L’ Aquilifero”. La cifra preventivata dal bozzetto, 300mila lire, appariva enorme per una città appena uscita dai travagli della guerra. Deciso il sito (Piazza XX Settembre) si prospettava la cerimonia della posa della prima pietra per il 21 aprile del 1924, ma si era ancora a zero, per festeggiare il “Natale di Roma”. Si cominciava a lavorare sul basamento, ma dei pregiati gruppi bronzei nessuna traccia! Soprattutto bisognava rastrellare i soldi. La fantasia dei tarantini si sbizzarriva con le “Kermesse” in Villa Peripato, con le marche “pro monumento” da applicare su tutti i documenti, pedaggi al ponte e salvadanai nei pubblici uffici, fino ad una raccolta porta a porta, con la città divisa in sette zone strategiche. In quattro anni si raccoglievano 76mila lire, ma si era molto lontani dalla meta e i costi lievitavano. Il basamento era sempre lì, ma tutto procedeva con moto uniformemente ritardato e la cifra di 500mila lire rimaneva ben lontana.
Nel 1926 il Podestà Spartera sembrava voler usare il pugno duro, magari a colpi di francobolli e lotterie. In previsione della inaugurazione veniva soppresso il chiosco orinatoio di Piazza XX Settembre. Ma l’erigendo monumento ai Caduti attendeva sempre di essere inaugurato. Le cose dovevano peggiorare con l’intervento di diversi commissari prefettizi: 1924-1925. Il podestà Giovanni Spartera si prodigava come cercasoldi, fra ricchi premi e cotillons, sempre a pro dell’erigendo monumento. Nel 1928 si arrivava alla rottura con l’artista.
 Come se non bastasse, nel 1930 bisognava ingaggiar battaglia con il signor Francesco Rizzo, gestore di un chiosco in legno per la vendita di “gratta gratte… sumend’e zuccre, orzata, granatina, menta, anice ghiacciata… Il contenzioso sarebbe durato dal 1924 al 1930, con prorogatio di mese in mese. Alla fine Rizzo la spuntava, ottenendo la concessione di un altro chiosco più bello che pria. Si era fatto spazio al monumento e la concessione si sarebbe rinnovata ogni tre anni, purtroppo interrotta dalla deflagrazione del secondo conflitto.
 Intanto Il podestà “protempore” Giovanni Spartera si sentiva sempre più sotto tiro e, su spinta del governo, nel 1928, si decideva a convocare l’egregio scultore Guastalla di Roma (anch’egli onesto massone) con l’incarico di esaminare lo stato dei lavori. Ma un anno dopo il Guastalla rinunciava all’incarico per comprensibili incompatibilità fra l’autore e il controllore, ma anche per lo stato confusionale delle procedure. Nel 1934 veniva addirittura chiamato in giudizio per una poco edificante ricompensa, richiesta per tre anni di lavoro. Alla fine veniva pagato irregolarmente e a rate. Qualche frutto il Guastalla doveva comunque averlo prodotto, se nel settembre 1929 il primo altorilievo “La vittoria tarantina e gli eroi” era quasi pronto. Doveva seguire la “glorificazione del fante”, ma la cifra preventivata passava a 750mila!
Nel 1930 si arrivava all’inaugurazione del monumento non-finito, alla presenza del Sovrano e del ministro Di Crollalanza. La folla era strabocchevole, Como si ritrovava quasi nascosto. Il gentiluomo aveva lasciato Taranto nel 1928, con un assegno mensile ad personam per tutta la durata dei lavori, ma dopo due anni il suo compito non era stato ancora ultimato. Nel giugno 1930, per inadempienza, veniva troncato qualsiasi invio di denaro allo scultore, compromettendo così il modello di argilla dello Aquilifero, che prima si essiccava e poi finiva in frantumi. Con i fondi del tutto esauriti, Como avrebbe dovuto concludere i lavori pagando di tasca propria: una soluzione del tutto improponibile. Il povero artista si ritrovava in condizioni miserrime, tanto da sognare l’interessamento del Sovrano. Durante le celebrazioni del IV novembre non era stato neanche invitato e intanto si allargava sempre più il solco fra l’Artista e il Regime. Si arrivava comunque all’inaugurazione del 1930, con il monumento incompleto. Si poteva leggere l’epigrafe dettata da Alessandro Criscuolo in chiara contaminazione fascista
Forti nella vita, epici nella morte
Nella storia eterni
Taranto Madre
La ricostruzione dettagliata della operazione scultorea è perfettamente esposta nel prezioso testo di Giacinto Peluso, al quale si rinvia doverosamente, evitando inutili commenti.
L’operazione avrebbe comportato la spesa globale di circa 800mila lire (cfr. Peluso e “Voce del Popolo”).

Lo scultore si trovava a sbarcare il lunario con l’insegnamento e, dopo crisi profonde, decideva di chiedere l’iscrizione al Fascio, cosa non facilissima, per le idee antifasciste sbandierate in più occasioni. Come ottenne la “tessera”, Como si stabilizzò nella Scuola, continuando a lavorare nel suo studio tarantino, prima del trasferimento definitivo a Roma. Un ricordo di Raffaele Carrieri sullo scultore meditabondo e solitario: “Non saprei parlare di questo semplice e pensieroso Artista senza mettere in primissimo piano la sua bella fibra di uomo: moralmente e artisticamente parlando. La ricostruzione dettagliata della operazione scultorea è compiutamente esposta nel testo di Giacinto Peluso, al quale si rinvia doverosamente.

Nel marzo 1950 si riapriva la discussione sul completamento dell’opera monumentale, con interessamento delle Associazioni Industriali e (strano a dirsi) dei segretari della Camera del Lavoro della C.G.I.L. Il Monumento fatturato a rate, trovava alla fine il suo completamento con il gruppo detto “l’Aquilifero”, con il fiero sostegno della amministrazione comunista. L’occhio esperto poteva leggere nell’opera i simboli massonici del triangolo, delle due colonne, del sancta sanctorum del tempio, con la Nike che raffigurava il fatidico numero tre. Il 18 ottobre 1953 si concludeva la trentennale vicenda: era trascorsa anche la seconda guerra mondiale e un monumento poteva ormai bastare per i due grandi conflitti. Quella volta, alla celebrazione, Francesco Como era ben presente, per ricevere quell’omaggio che gli era stato negato nel 1930.


I monumenti sono la storia in piedi (Ugo Ojetti)


Al momento della inaugurazione finale, l’opera era certamente un anacronismo. In quegli anni nessuno studente si sarebbe prestato al “cambio della guardia”, secondo i desiderata dell’ex preside del Liceo: I Beatles erano in arrivo. Gli omoni nudi con l’elmetto facevano impressione. E invece, negli anni Settanta, nella festa giovanile della contestazione, per i giovani tarantini e non solo, quel monumento si trovava a rappresentare l’ombelico del mondo. Quel bronzo era letteralmente avvolto da una folla di ragazzi vocianti e musicanti. I figli dei fiori rendevano quel cenotafio un rendez-vous giovane, cordiale, capellone, greco, nemico della guerra: uno spazio liberato di felice coabitazione fra i presenti e gli scomparsi. Il giornalista Antonio Rizzo, assieme ad un suo estimatore, veniva dalle forze dell’ordine allontanato in malo modo da quella festa dei presenti e degli assenti. Ma gli spiriti cupi non trovavano pace: denunce pseudopatriottiche e farisaiche. Rizzo scriveva: “A me il monumento animato da quelle presenze giovanili, piaceva. Mi appariva come un fatto vivo, vitale, cordiale, popolare. Non un fatto artistico, ma esistenziale. Un happening che umanizzava una struttura fredda e retorica”. Rimane il dolce ricordo di una festa libertaria nello spazio della antica Agorà. Rimane anche l’onesta testimonianza del repubblicano Franco Como, un artista figlio di un capomastro e di una sarta, volto sempre alla speranza che mai più si abbia a versare sangue innocente.


 Patriottismo peloso


Sarebbe ingiusto sottovalutare il ruolo della funzionalità monumentale nella costruzione di un immaginario collettivo, nel quadro anche di una formazione identitaria. Un’opera, per forza delle cose, può rimanere anacronistica, démodé, ma può anche essere una sincera e onesta espressione di un datato contesto culturale. Altra cosa è il subdolo” monumento donato” (Timeo Danaos et dona ferentes…). Ci riferiamo all’altro colosso: quel Monumento al marinaio, regalato dall’Ammiraglio Angelo Jachino a un Consiglio comunale che accettava tutto a scatola chiusa, senza preoccupazioni di permessi e licenze. Gli antifascisti dell’epoca non si accorgevano nemmeno che sul basamento s’inneggiava alla guerra 1940-43: la guerra di Mussolini. Era facile invece decifrarne il codice segreto: Il monumento visto dall’avanti e dal di dietro, con le due grandi W e M, era un vistoso “Onore al Duce”!


Bibliografia : Taranto in guerra

Saverio Lasorsa, La Puglia e la guerra mondiale, Ed. Caini, Bari-Roma 1928
Enzo Panareo, Archita Valente: dalla letteratura allo spionaggio, in “Sallentum”, anno IV, n. 3
La più audace impresa del controspionaggio italiano nella prima guerra mondiale, in “Storia illustrata”, Settembre 1969, n. 142
E.C. Protto, Vita, morte e risorgimento della dreadnought “Leonard da Vinci”, Edita@, Taranto
Ferdinando Ladiana e Espedito Jacovelli, Massafra e la Grande Guerra, Cspcr, 1984
Nino Bixio Lomartire, I cantieri navali di Taranto, Coop. 19 luglio, Taranto 1990
Roberto Nistri, Civiltà dell’industria, Scorpione ed., Taranto 1988
Roberto Nistri, Una Loggia “Martinista a Taranto, in “Cenacolo”, Mandese ed., 1994
Rosa Alba Petrelli, L’Arsenale militare marittimo di Taranto, Perugia 2005
David Alvarez, I servizi segreti del Vaticano, Newton Compton Editori, Roma 2008
Eric Frattini, L’Entità, Fazi Editore, Roma, 2009
AA.VV., I Cantieri Tosi, Fondazione Michelagnoli, Taranto 2013
Annibale Paloscia, Benedetto fra le spie, Mursia ed., 2013


Bibliografia: Taranto e il suo monumento ai caduti

Giacinto Peluso, Una città, un monumento, Mandese Ed., Taranto 1984
Francesco Guida, La Massoneria tarantina dal dopoguerra al 1960 in Taranto dagli ulivi agli altiforni, Mandese ed., Taranto 2007.