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Piazza Giordano Bruno nel 1913 |
Taranto nella grande guerra. Sul palcoscenico della Grande storia
di
Roberto Nistri
© Roberto Nistri 2014. Tutti i diritti sono riservati.
1. Sul palcoscenico della Grande
Storia
Taranto assisteva, arrendevole e compiaciuta, alla
progressiva militarizzazione della sua economia e del suo territorio, come ha
scritto Matteo Pizzigallo. La macroscopica presenza dell’insediamento
industriale continuava a modificare le coste, le altimetrie del suolo,
fagocitando al suo interno masserie, chiese e ville signorili, condizionando il
disegno della città e le direttrici della sua impetuosa crescita. Taranto subiva
una espansione demografica tra le più imponenti d’Italia, con flussi
provenienti dalle aree rurali e importazioni di manodopera specializzata (cfr.
(Giuliano Lapesa, Taranto dall’Unità al 1940). La struttura industriale della città veniva ad essere cospicuamente
amplificata, nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra, dalla
installazione dei Cantieri Navali “Franco Tosi”, sulla spiaggia a nord del Mar Piccolo: una società di Legnano con strutture di ben altro rilievo rispetto
ai modesti cantieri Frontini (1903 - 1906) e Salerni (1906 - 1915). I tempi erano acceleratissimi: mentre
il cantiere si stava ancora approntando,
venivano già stipulati i contratti per le prime ordinazioni della Marina
italiana. Si trattava di due sommergibili da 277 tonn. e dieci dragamine da 200
tonn. Nel 1915 veniva completato il primo sommergibile.
Il 4 giugno 1916, dalla scalo
improvvisato sul quale era stata impostata cinque mesi prima, veniva
varata, alla presenza del Duca
degli Abruzzi, la prima nave
interamente costruita nello stabilimento:
il rimorchiatore “Villa Cortese” per i servizi dello stesso
Cantiere. Presenziava il Duca
degli Abruzzi e veniva offerto dal
Moderno Caffè Greco ricco champagne
frappè. Seguivano in breve tempo due sommergibili e dieci dragamine.
L’impresa era abbastanza
“protetta”: si agganciava al complesso navalmeccanico tarantino,
utilizzando strutture già esistenti (bacini, pontoni…) ottenute in prestito dal
Regio Arsenale, nel quadro di una
prospettiva bellicista ed espansionista. Nel 1915 sarebbe stato completato il
primo sommergibile. Un ottimo affare per Tosi , che già produceva per la Marina
motori navali nei suoi cantieri di Legnano. Un impianto del genere non esisteva
in tutto l’arco dello Jonio e nel basso Adriatico. I terreni venivano concessi
a prezzi molto accessibili e le commesse erano garantite.
Si trattava di investimenti che
sicuramente non andavano nella direzione di una auspicata diversificazione
produttiva, ma anzi la monocultura dipendente tarantina risultava perpetuata e
tonificata, con le solite attività satellitari di tipo metalmeccanico,
finalizzate alle esigenze del
“Mare Militare” ed estranee al libero mercato. Con i
Cantieri veniva indotto nel
tessuto sociale un forte incremento
di manodopera,
caratterizzata da un antagonismo sociale che non trovava riscontri nelle
maestranze del Regio Arsenale, ben garantite e influenzate dalla ideologia
della “grande famiglia”. Si trattava comunque della più grande concentrazione
operaia del Mezzogiorno, non priva di iniziativa anche nelle piccole ditte,
come gli operai della Brambilla
che, nel pieno dell’ondata militarista, scioperavano per un aumento salariale,
ottenendo risultati dopo due giorni di agitazione. Nel 1914, durante la “settimana rossa”
veniva proclamato lo sciopero dei
ferrovieri, sostenuto anche da alcuni portuali e mitilicultori. Fallita
l’iniziativa, il fuochista
socialista Luigi Guidetti raggiungeva i rivoltosi di Ancona, inseguendo un
sogno insurrezionale destinato a dissolversi, mentre già rombavano i cannoni.
2. Si apriva il Grande Gioco
Nella fase di preludio alla grande
mattanza si era aperto il Grande Gioco dei posizionamenti più o meno occulti,
nella guerra sotterranea dei soldi e degli agenti segreti, che non pochi danni dovevano procurare in terra
jonica. Mussolini era stato il primo a saltare il fosso, passando dalla
neutralità all’interventismo. Il
nuovo giornale, il “Popolo d’Italia” era stato, se non proprio “lanciato”, per
lo meno vigorosamente sostenuto da sovvenzioni provenienti dal Governo
francese: prima 15.000, poi
versamenti mensili di 10.000 franchi,
inviati dal ministro
socialista francese Marcel Sembat.
Benito finiva per accumulare 100.000 franchi e cercava di accaparrarsi
anche rubli dello zar, per
l’attacco che alcuni interventisti di sinistra volevano portare ad una caserma
austriaca, per creare un casus
belli.
In quella frenetica giostra, molte speranze e timori si
concentravano sulla figura del neoeletto Giacomo Della Chiesa, il poco
conosciuto Benedetto XV, le cui
simpatie politiche non risultavano ancora chiare alle potenze belligeranti che,
comprensibilmente, cercavano di attrarlo nella propria orbita, anche con sostegni economici: il nuovo
Papa si era ritrovato con le casse vuote e senza l’ “obolo di San Pietro”, in
quanto la guerra stava azzerando i contributi di pellegrini e turisti. Da
subito tedeschi e austriaci si attivavano con cospicue donazioni attraverso le
banche svizzere. Per il Papa la linea di condotta più sensata doveva essere
quella del neutralismo italiano che,
nel fatale 1914, manteneva
ancora un certo consenso. Benedetto XVI lo avrebbe ricordato come “ uomo della
pace”, preoccupato per la “inutile strage” e soprattutto per l’aggressività montante
nei confronti dell’amata cattolicissima Austria. Gli austriaci avevano un
elenco di parlamentari sul loro libro paga, il cui voto poteva essere
influenzato con cinque milioni. Già nell’aprile del 1915 il governo italiano
prendeva atto che il Santo Padre era schierato con gli Imperi centrali. I
finanziamenti germanici dovevano durare fino alla fine della guerra. Quello che
non era prevedibile, era la disgraziata circostanza che il Papa
dovesse personalmente invischiarsi
in una spy story molto tormentata: analoga a quella, certo molto meno incresciosa, di un Benedetto del secolo dopo.
Secondo John Pollard, Benedetto, al
momento dell’entrata in guerra dell’Italia, veniva preso da autentica angoscia
( Il papa sconosciuto , Ed. San Paolo, 2001). I
francesi chiamavano Giacomo
Della Chiesa non il “Papa della pace”, ma
il “papa crucco”, le pape Bosche. In
Vaticano girava disinvoltamente un diplomatico accreditato presso l’ambasciata
tedesca a Roma, residente a Lucerna e attivo organizzatore di una rete di spie
e informatori operanti in Italia.
Quel Franz von Stockhammern che si era addirittura intrufolato di notte
nel Vaticano, eludendo ogni
sorveglianza, per arruolare Benedetto nel suo piano clandestino. Ma nell’ombra
si muoveva un personaggio di più alto livello.
Giovanni Della Chiesa aveva conosciuto il giovane e
aitante Rudolph Gerlach come
allievo all’Accademia dei Nobili Ecclesiastici e lo aveva preso a benvolere,
non sapendo (?) del suo contatto con l’Evidenzbureau, il servizio informazioni austroungarico: una fitta
rete di rapporti segreti i cui fili erano manovrati proprio dal suo più stretto
collaboratore. John Pollard
suppone che Benedetto “avesse uno speciale affetto” per Gerlach .
Era Un uomo dalla personalità affascinante, entrato anche nelle grazie della ex regina Maria Sofia di Napoli,
dipinta da D’Annunzio come l’Arcigna aquiletta bavara. Nel
conflitto era schierata
attivamente nei confronti dell’Impero germanico e dell’Austria-Ungheria, nella
speranza di un ripristino del Regno delle Due Sicilie: sospettata di
coinvolgimento in atti di spionaggio e sabotaggio, forse per questo veniva
denominata la “regina degli
anarchici”. Non mancava tuttavia di visitare i campi dei
prigionieri italiani, che non
capivano chi fosse quella signora che parlava napoletano-tedesco e distribuiva
sigari e bonbon. (Arrigo
Petacco). Tempo dopo sarebbero
stati arrestati tre deputati (Adolfo Brunicardi, Enrico Buonanno e Luigi Dini)
del giro di donna Sofia e soprattutto di Gerlach, il monsignore “cameriere”,
dalle cui mani passavano tutti i documenti riservati.
Proprio nella fase in cui l’Italia stava per schierarsi con
l’Intesa, si potevano mettere a rischio le già
difficili relazioni tra lo Stato italiano e il Vaticano. Il fidato consigliere,
ben assestato nella corte
papalina , aveva già allestito la
più fitta rete di servizi segreti operante in Europa. Si prodigava con ingenti fondi in difesa della
neutralità, finanziando giornali e gruppi di pressione favorevoli al non
intervento, come “La
Vittoria”, “Il bastone” e “Il
Corriere d’Italia”, che riceveva
da Berlino ben 22.000 lire al mese.
Nella sua postazione
privilegiata il signor G. raccoglieva informazioni di prima mano
e agiva in accordo con un intermediario
governativo, il barone Carlo Monti.
Aveva utilizzato grosse somme di denaro ricevute dal barone Franz von
Stockhaammern, Fino alla
fine della guerra il Vaticano (le cui casse languivano) avrebbe incassato dai
tedeschi somme favolose tramite banche svizzere, in particolare dal Credit Suiss. Quanto al governo italiano, si era reso conto ben
presto che il papato si era definitivamente schierato dalla parte degli Imperi
centrali. Veniva attivata una ambasciata inglese proprio per neutralizzare
l’invadenza germanofila. L’arcispia Stockaammern si era addirittura intrufolato
nottetempo in Vaticano, eludendo la sorveglianza della polizia italiana e delle
guardie svizzere. Nel finale di partita
Gerlach, da maggio 1915
considerato la superspia del Kaiser nel Vaticano, distribuiva cinque
milioni di lire a membri della curia, giornalisti e politici. Anche gli austriaci avevano un elenco
di parlamentari italiani sul loro libro paga, nella centrale di Zurigo.
Veniva dichiarata guerra
all’Austria, con imbarazzo da parte del Governo, ma soprattutto del Vaticano.
Per la prima volta erano costretti a interloquire: quasi un abbozzo di
“riconciliazione”. Intanto l’aitante aristocratico dai modi
brillanti, che aveva accesso a documenti riservatissimi, era
solo agli inizi di una stupefacente carriera. Gerlach
aveva già informazioni precise sul numero dei soldati presenti in
Francia e nei Dardanelli. Ormai in guerra contro l’Italia, il Barone bavarese carpiva tutti i segreti
militari e passava le notizie ai servizi di Intelligence attraverso
i corrieri postali del Vaticano. I servizi austriaci conoscevano in anticipo
tutti i piani italiani, prima e dopo l’entrata in guerra. Gli agenti di G. avrebbero presto sabotato officine, fabbriche e arsenali
a Cengio, Genova, Livorno, Terni,
La Spezia… Il prezzario del sabotaggio era di 300.000 per un sommergibile,
500.000 per un incrociatore, un milione di lire per una corazzata. I soldi per
gli attentati erano depositati presso una banca di Lugano.
3. L’incisiva presenza dei
Nazionalisti
Proprio a Taranto si
levavano le prime voci in favore
della guerra, con la “Libera Parola” e la “Voce del Popolo”. “Il Nazionalista di
Taranto” era, tra l’altro, l’unico giornale a prendere sin dall’inizio posizione
contro austriaci e tedeschi, mentre la stampa nazionalista auspicava in genere
l’intervento accanto gli imperi centrali. Si dichiarava per l’intervento sin
dall’8 agosto 1914: “La guerra va accettata come una necessità e come un dovere
per mantenere ed accrescere la civiltà che rappresentiamo”. A Taranto era presente una robusta componente della Associazione
Nazionalista Italiana (ANI) e si faceva anche sentire un drappello di
futuristi. “L’idea nazionale”
simpatizzava per la Germania, riceveva la visita del socialdemocratico tedesco
Sudekum, volto a incoraggiare una campagna nazionalista perché l’Italia
onorasse i suoi impegni verso la Triplice. Ma ai nazionalisti l’Austria non
andava bene come alleata. A un certo punto l’interventismo italiano propendeva
in misura maggioritaria al fianco dell’Intesa e alla fine quello che importava era il “bagno di sangue”
rigeneratore. I nazionalisti si adeguavano. Non mancava il sostegno della Fiat, della Terni e dei
fabbricanti di armi. Nelle
campagne cresceva intanto il malumore per il caroviveri e anche tale pressione
spingeva speculatori e agrari verso un rapido superamento del neutralismo.
I nazionalisti si mobilitavano
a Taranto prima che altrove: già nel novembre 1914 si segnalavano scontri fra nazionalisti
e socialisti, ma incidenti più proccupanti si verificavano il 15 febbraio
1915, quando alcuni giovani
nazionalisti manifestavano contro il Consolato germanico, provocando una
contromanifestazione dei neutralisti e determinando tafferugli e arresti. La
città si preparava alla guerra. Il 30 ottobre si registravano, alla presenza
del sovrano, imponenti
esercitazioni navali che, per lo scoppio prematuro di una granata, causavano la
morte di un guardiamarina e
quattro uomini di equipaggio.
Dalle classi subalterne, soprattatto nel contado, non si
registravano segnali di grande entusiasmo. I socialisti, malgrado affollati
comizi, come quelli tenuti nel
mese di febbraio dall’ on. Campanozzi a Taranto, Castellaneta, Ginosa,
Palagianello, Francavilla Fontana,
non si impegnavano più di tanto. In un rapporto del Prefetto di Lecce si
poteva leggere che “il 20 aprile 1915 a Lecce la maggioranza delle classi
dirigenti è per la guerra (…) e così a Taranto e a Brindisi”. A Taranto il
“blocco d’ordine” non incontrava
difficoltà nel coagularsi attorno al sostegno a Salandra: una volontà di guerra beneaugurante per l’economia tarantina. I finanziamenti per l’industria navalmeccanica erano
cospicui, c’era quasi piena occupazione e non pochi lavoranti
dei campi si arrangiavano, fra città e campagna, con piccole attività
di ambulanti.
Nelle giornate del “maggio radioso”
l’indignazione contro Giolitti prendeva un carattere popolare: un corteo di
3.000 persone il 16 maggio percorreva le vie cittadine inneggiando a Salandra
con musiche, bengali, e bandiere distribuite dai consolati “amici”. La musica della R. Marina percorreva le
vie della città vecchia al suono di inni patriottici, seguita da gran folla di
popolani e di donne plaudenti. Da
molte finestre venivano lanciati fiori ai marinai. Al palazzo dell’Ammiragliato
una commissione con l’arcivescovo Cecchini pregava l’Ammiraglio Cerri di
trasmettere al Sovrano i voti augurali del popolo. Il 23 maggio due navi
tedesche, la “Goeben” e la “Breslau” erano alla fonda nelle acque di Mar Grande
. Si saggiava il campo per una pacifica sfida calcistica. Si prevedeva una
grande affluenza di spettatori, ma
certe scadenze imponevano
un prudente rinvio dell’incontro a data da destinarsi. La guerra veniva
dichiarata e la città era ormai
“Piazzaforte marittima in istato di resistenza”.
4. La piazzaforte militare
Taranto era la Base navale più importante e al contempo il rifugio più
sicuro per la flotta interalleata italiana, francese e inglese, con la sede del
9° Reggimento Fanteria. Mentre il Comando Militare provvedeva alle opere di
fortificazione e di difesa nello Jonio e nel basso Adriatico, la popolazione
civile si organizzava in vari comitati. Funzionava da subito la Croce Rossa per
la raccolta della lana, per i degenti, per un servizio d’informazioni. Veniva
aperta una Casa del Soldato e un dispensario diretto dal dott. Lucio Moro.
Prontamente le signore si distinguevano nella raccolta di offerte d’oro e
d’argento, comprese alcune elargizioni inusuali. Due funzionari sanitari attuavano con successo l’idea di
raccogliere offerte per la guerra nelle case da the. Raccolte 1934 lire e altre oblazioni una tantum, i due patrioti si compiacevano perché
tutte le tenutarie delle case di piacere esistenti in Taranto e le donne ad
esse iscritte, avevano con entusiasmo risposto all’appello con magnifica
solidarietà patriottica. Abbiamo constatato che il tesoro dei sentimenti morali
non è spento in quelle disgraziate travolte dai marosi della vita” (cfr. “Voce
del popolo”, 20 novembre 1915).
Intanto, “al cospetto del Mare jonio”, il commendator Criscuolo
tromboneggiava inesausto: “ A te, o re, duce della nuova epopea, questo popolo
acclama… l’armi levando, i volti , per gloria lucenti passano, d’assalto e
fuoco e di vittoria allegri”.
Martina Franca era la prima
cittadina in terra d’Otranto ad istituire la tessera dell’annona e a costituire
un Comitato di assistenza civile per le famiglie bisognose dei chiamati al fronte.
50 giovani martinesi non sarebbero tornati, ma gli amministratori si
impegnavano in molteplici opere pubbliche, dalla costruzione del teatro alla
sistemazione di piazze e giardini, per dar lavoro ai disoccupati. A Grottaglie
ben 225 uomini non fecero ritorno Si era comunque installata una struttura
militare che doveva giovare alla cittadinanza, e cioè l’aereoscalo Mario
Arlotta, dal nome del giovane aviatore scomparso nel mare Adriatico.
La mattina del 24 maggio
partivano da Massafra 500 militi, accompagnati dalla fanfara di Peppino
Tedesco. Alla stazione di Taranto, mentre si caricavano i muli requisiti dalle
autorità militari, il consigliere don Peppantonio Scarano elevava il morale dei
partenti e dei familiari. Nella serata iniziava l’oscuramento e in caso di
attacchi aerei le campane della torre dell’orologio dovevano suonare grazie al
guardiano della torre: il signor Cosimo Pranzo, con il suo fucile da caccia a
tracolla. Ogni giorno partivano tradotte cariche di soldati, dirette al fronte.
Il 6 luglio arrivava la notizia del primo caduto di guerra massafrese, Cosimo
Sasso. Il 12 agosto, sulla linea ferroviaria Taranto-Napoli, nel tratto del
ponte sul fiume Patemisco, quattro individui travestiti da monaci, con donne al seguito, si aggiravano con aria sospetta. I militari
freddavano due di loro, mentre gli altri si dileguavano a nuoto. Girava la
voce che fossero spie austriache,
ma erano due poveracci in compagnia di donnine: uno dei due era il Frate
Antonio con la barba rossa, pseudo-eremita che menava vita avventurosa nelle
grotte di Mottola. Il 10 maggio 1917 arrivava da Mottola un altro Messia, che garantiva la fine della guerra per
il 17 maggio e se ne ripartiva con le bisacce piene di ogni bene. Intanto tutti si rivolgevano al
“barbiere letterato”, per rispondere
alle lettere dal fronte. Ai colombi domestici bisognava tagliare le ali, perché
non si confondessero con i piccioni viaggiatori, usati come “portaordini” militari. Il 7 febbraio 1916 si
inaugurava l’Acquedotto Pugliese con l’inaugurazione in piazza Giordano Bruno:
scaturiva faticosamente un primo zampillo d’acqua del Sele. Il 3 aprile giungeva a Massafra una lettera
sfuggita alla censura, in cui il bersagliere Rocco Ladiana, dal settore carsico
di Tolmino, ammetteva che l’osso “era troppo duro da spolpare”.
Durante la guerra Taranto, l’unico
porto di grande ampiezza e l’unico cantiere completamente attrezzato in
prossimità della zona dell’attività bellica, funzionava da base principale per
le forze navali. Non era teatro di guerra (non subiva nessun attacco per mare né si segnalavano incursioni di
aerei nemici) di esso era però il
retroscena. Le operazioni sul mare avevano come punto di riferimento le due
basi navali di Brindisi e Taranto.
Il mar piccolo ospitava la flotta da guerra italiana e alcune unità
navali inglesi di sostegno, mentre l’Arsenale provvedeva ai nuovi impianti di
armi, agli adattamenti dei nuovi sistemi protettivi, alle continue riparazioni
necessarie al naviglio silurante. Veniva riparato lo scafo del piroscafo
“Orione”, squarciato da un siluro,
e quello del cacciatorpediniere francese “Brory”, danneggiato dallo
scoppio di una mina. Veniva ricostruita la prua del caccia francese “Boutefeu”
, che era stata danneggiata da un investimento in mare, e così quella de C.T. “Chinery”.
Riparazioni venivano fatte anche allo scafo del piroscafo “Bulgaria”, raggiunto
da un siluro, mentre veniva ricostruita la prora del C.T. “Carini” e riparata
la cisterna “Giove”. Di grande rilievo tecnico erano interventi come quello
effettuato nel dicembre 1916 di recupero, ricostruzione e riallestimento di un
sommergibile posamine tedesco, autoaffondatosi durante le attività di rilascio
di mine nelle acque di Taranto. A causa
dell’urto contro una mina, il sommergibile si spaccava in due
tronconi, e dopo gli interventi di
riparazione veniva consegnato alla Regia Marina e ribattezzato “XI”. La difesa
era potenziata con mine e ostruzioni. Vigilavano aerei , idrovolanti e
dirigibili. La città fungeva
da capolinea e centro di smistamento per le spedizioni in Grecia, Albania, Macedonia e Montenegro (cfr.
Vito Antonio Leuzzi, La grande guerra in Puglia, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 16 ottobre 2014).
Si scriveva una bella pagina con il
salvataggio dell’esercito serbo, dopo la sconfitta inflitta da austriaci e
tedeschi al re Pietro. Dalla metà
di dicembre 1915 al 24 febbraio del 1916,
furono trasportati dall’una all’altra sponda dell’Adriatico 260 mila uomini. Impegnativo doveva essere il trasporto
di 50 mila uomini a Salonicco, estrema ala orientale dell’esercito
interalleato. Il secondo seno di mar Piccolo diveniva il porto della nuova
intendenza per l’armata d’Oriente, sulle cui rive, fra Buffoluto e Cimino
sorgevano città effimere, baracche di lamiere ondulate che contenevano in media
40.000 uomini. L’andirvieni
incessante dei convogli di piroscafi e navi di scorta motivava la nascita di
giganteschi accampamenti, dove si
avvicendavano decine di migliaia di giovani di varia estrazione, in una babele
di lingue.
5. Fra esotismo e servitù militari
Non considerando il
favoleggiare del poeta Carrieri su asciutti ufficiali britannici, col casco
bianco e i favoriti, maestosi indiani coi turbanti di seta, piccoli giapponesi
indaffarati e sfuggenti, sultani, belle donne, pirati… Rimangono belle pagine
di Vito Forleo sulla pittoresca
internazionalità militare di Taranto: “Certo, quei marinai britannici natanti
nell’immensità dei loro pantaloni, quei marinai della Repubblica che
ostentavano sul berretto la nappina rossa… Vaste pennellate di kaki e di blu
orizzonte si distendevano sul nostro austero grigioverde… E poi gonnellini di high-landers scozzesi, turbanti d’indiani , facce gialle
d’annamiti, facce nere di malgasci,
si offrivano, impreveduti e gratuiti ‘numeri d’attrazione’, alla curiosità della cittadinanza. Di
così vasta e impetuosa ondata esotica, a guerra finita, che cosa rimase? Quasi
nulla. Un Caffè degli alleati in una strada eccentrica; qualche
insegna con la scritta: Automobiles, marchez au pas; un posteggiatore che per le fumose taverne della
banchina di Cariati andava massacrando it’s a long way to Tipperary” …
Truppe franco-inglesi, provenienti
anche dalle lontane colonie dell’India e del Tonchino, dopo una sommaria
preparazione alla vita di trincea, venivano dislocate ai vari fronti, imbarcate
per Salonicco o trasportate per ferrovia verso la Francia . Munito di biglietto
per Salonicco, in realtà un argonauta senza meta, giungeva a Taranto uno svogliato soldato: il grande Alberto Savinio che, alcuni decenni dopo,
avrebbe onorato il “Premio
Taranto”. “Mi sento coperchiato da un’ombra: l’ombra di una tettoia, la tettoia
di una stazione: la stazione di Taranto!
Lo scrittore riconosceva su quella enorme boa armata il ponte dei due
mari, “potente e trinato che, se
apre l’abbraccio, dà libero volo alla flotta di battaglia, e se lo chiude, la
raccoglie tutta nell’interno ventre liquido”. Con il suo occhio ciclopico Savinio percepiva e dipingeva il
fascino “mostruoso” dei terramaricoli, dei pesci-quasi uomini, dei “tritoni
bimbi” che guizzavano nel canale, a pochi passi da una “nidiata di meretrici ,
irte sui tacchi rossi alti come trampoli, beccheggianti davanti alle porticine
buie ”. Si coglieva immediatamente la comica fisionomia di una città duale,
quella nuova con una gota rasata e
quella vecchia con la faccia
non rasata. Al momento della inutile partenza, l’argonauta veniva
salutato da una frotta di sfottenti sirene cha cantavano ritornelli da
operetta, “sporgendo le poppe brillanti dal mare… in un sogno profumato di
vento e di sale”. In seguito
Savinio avrebbe dichiarato: “ Io ho vinto la guerra, sono rimasto vivo!”. Nello
stesso periodo ad Udine usciva semiclandestino Il porto sepolto in cui Ungaretti, che nel secondo dopoguerra doveva
prodigarsi a Taranto nelle più belle battaglie culturali, lui che aveva
combattuto in trincea, poneva in primo piano l’uomo-fante in una condizione di
assoluta precarietà
6. Boom economico e paralisi civile a Taranto
La città che anni addietro sembrava
scivolata fuori dalla storia, si affacciava invece al centro del palcoscenico
internazionale, crocevia della storia più grande e più folle, la guerra. Per
provvedere ai nuovi impianti di armi, agli adattamenti dei nuovi sistemi
protettivi, alle continue riparazioni di un naviglio silurante già logorato
dalla guerra di Libia, attraeva come una calamita soldati da tutte le parti del
mondo ma anche una nuova leva di tecnici e maestranze dal circondario e da
tutta Italia. In Arsenale si lavorava a pieno ritmo anche di notte. Un vero e
proprio boom economico, con uno straordinario rigonfiamento del tessuto urbano,
pagato inevitabilmente con il totale asservimento alla militarizzazione. Anche
la pesca nelle acque dello Jonio veniva vietata. Pagava soprattutto la città
vecchia, con la stazione ferroviaria, i magazzini generali e il porto
mercantile, isolata dal ponte
girevole tenuto aperto in permanenza, per timore di atti di sabotaggio che, inutilizzandolo,
avrebbero impedito l’entrata e l’uscita delle navi. Il 16 marzo 1916 il sommergibile
tedesco “U.C.12” esplodeva nelle acque di Taranto, presso l’isola di S.Paolo,
mentre posava le torpedini destinate a far saltare le unità navali italiane. Il
timore degli attentati era ragionevole, considerando che il 27 settembre 1915,
nel porto di Brindisi, la corazzata Benedetto Brin era saltata in aria.
7. Alba di sangue a
Brindisi
La guerra infuriava da quattro
mesi in Europa e Brindisi rappresentava un importantissimo teatro per le
operazioni militari. Erano da poco passate le ore 8.00 del mattino di lunedì 27
settembre 1915. Un buon
numero di persone assistevano all’alzabandiera e ascoltavano marcette militari.
In quel momento si registrava un boato terrificante che faceva tremare l’intera
città. La nave era esplosa e la forza d’urto aveva proiettato in alto, per
molti metri, poveri corpi straziati di marinai. Del contrammiraglio Rubin De Cervin si reperivano solo alcuni
brandelli. Sulla corazzata esplodeva il deposito di munizioni e un forte
incendio si sviluppava su tutta la nave che affondava lentamente, formandosi un
letto nel fango molle. Qualche incertezza nel conteggio, ma si parlava di
456 vittime , scomparse o irriconoscibili. Esclusa
l’eventualità di una azione di sommergibili nemici, in quanto il porto era chiusa
da una rete metallica risultante integra ai successivi controlli, le
alternative erano secche: o si trattava di una incredibile dabbenaggine per la
maldestra disposizione della “Santabarbara” presso la sala motori oppure si
trattava di un attentato. Si
ventilava la paternità di un sabotaggio da parte di austriaci e tedeschi, forti di un attivo sistema
spionistico. Quattro inchieste
reticenti producevano un pugno di mosche. Nomi di presunti colpevoli
sparivano dalle carte, documenti importanti finivano strappati o mutilati.
Insabbiamento generale di indagini mai rese pubbliche “per non dare vantaggio
al nemico”.
A distanza di un secolo quei
morti chiedono ancora giustizia.
Rimane la medaglia d’oro ad un ufficiale che, sebbene colpito dall’esplosione
e lanciato in mare con gravissime ustioni, si prodigava in operazioni di
salvataggio, fino a giungere morto in ospedale. In seguito sarebbero stati
condannati tre marinai e un
caporale in un contesto molto confuso. Il 16 marzo 1916 un tale Cesare
Merlatti, detenuto nelle carceri di Ancona per spionaggio, riferiva al tenente
dei carabinieri Enrico Locatelli alcune rivelazioni avute da un certo Benser
intorno al disastro. Diceva che un tale Itasark, messosi a Venezia d’accordo
con due albergatori tedeschi, per mezzo di essi avrebbe trovato un marinaio di
Mestre, il quale, dietro compenso di 85 mila lire, con un ordigno a forma di
orologio, avrebbe fatto saltare in aria la nave, riuscendo a mettersi in salvo.
Veniva avviata l’istruttoria, ma il 10 luglio si dichiarava il non luogo a
procedere contro tutti gli imputati, per insufficienza di prove. Intanto il
marinaio Vezio Diamantini, rinchiuso nelle carceri di S. Elmo con Achille
Moschini, denunciava il suo compagno per confidenze su una rete di sabotatori.
Si appurava che un altro
imputato, Giorgio Carpi, prima e durante la guerra, aveva ricevuto denaro dal
nemico. Il commerciante Vincenzi era latitante, forse ucciso dai tedeschi in
quanto doppiogiochista. Il commissario di P.S. Cimmaruta e il capo furiere
Criscuolo, venivano prima
condannati, poi assolti per mancanza di prove. Il Tribunale Militare condannava
Giorgio Carpi , Achille Moschini e Guglielmo Bartolini alla fucilazione
nella schiena. La pena si commutava in ergastolo e alla fine sarebbe subentrata
la grazia. Carpi e Moschini dovevano anche rifondere i
danni all’avvocato Rocco, che si era costituito parte civile per la morte del
figlio Oberdan, avvenuta a bordo della sfortunata nave (Saverio La Sorsa). La grazia ai prigionieri doveva
subentrare in tutt’altra fase storica, durante la piena riconciliazione fra
l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. Pezzi grossi erano rimasti nell’ombra e, ancora nel 1925 il regime copriva l’ex
ufficiale della Regia Marina, tale Cesare Santoro, accusato di complicità per
l’affondamento della “Leonardo”
8. Guerra di spie
Testimonianza della scrittrice
Rina Durante: Si racconta che a
Otranto si era visto lampeggiare
sui bastioni, qualche minuto prima di un bombardamento. Qualcuno ancora
oggi crede di sapere che a fare i segnali fu un giovane di trent’anni che
faceva però il doppio gioco. A Tricase circolavano due strani personaggi,
certamente al servizio dello spionaggio tedesco, uno, e l’altro del
controspionaggio inglese… Un mio parente era ufficiale di cavalleria presso la
piazzaforte di Taranto quando, a un ballo della Marina conobbe una splendida
donna che aveva un leggero accento straniero. Lei accettò di trascorrere con
lui ore indimenticabili, ma al mattino era scomparsa lasciando un biglietto:
‘Dimenticami, la mia vita è così strana’… Il giorno dopo, il 2 agosto 1916, la
Leonardo da Vinci saltava in aria nel porto di Taranto. Giovani biondi dalla
nuca altera, belle dames sans
mercì, siluette dall’ancheggio sapiente
turbavano le coscienze dei nostri nonni” : Guerra di spie, in “ Quotidiano”, 31 maggio 1984; Guerra
nell’Adriatico, 24-31 maggio 1984.
Sulla stampa francese e
statunitense il ciambellano Gerlach veniva indicato come l’artefice dei
sabotaggi , che avevano provocato l’affondamento delle due più grandi corazzate
italiane.
Per cogliere
qualche sprazzo di verità
bisognava mettersi sulle
piste di monsignor spione, i cui intrighi dovevano essere
sventati solo dalla mirabile operazione Zurigo.
Il 23
giugno 1917, l’ineffabile Rudolph Gerlach veniva condannato all’ergastolo da un
tribunale militare italiano per “aver comunicato notizie militari allo
spionaggio nemico”. Sul prelato pesava un corpo di imputazioni pesanti. Era
accusato di tirare le fila di una importante rete di spionaggio internazionale
organizzata da Berlino e Vienna.
C’era ovviamente il suo zampino nella oscura vicenda della Benedetto
Brin, dopo appena quattro mesi dall’inizio delle ostilità. Eppure La Segreteria
di Stato e lo stesso Pontefice tentarono di bloccare il provvedimento
giudiziario. Alcuni mesi prima del verdetto, il 6 gennaio 1917 il monsignor
barone veniva scortato sino alla frontiera, accomodandosi nella neutrale
Svizzera su un treno confortevole. Il Vaticano si era premurato di pagare una
munifica parcella all’avvocato della spia del Kaiser. “Benedetto fra le spie” accusava una improbabile macchinazione massonica in combutta con i servizi
francesi. Fra faccendieri e femmes
fatales, era la vicenda di Taranto e della “Leonardo Da Vinci” che
aveva fatto scoperchiare il pentolone nero.
9. Lo scrittore e la sua ombra
Chi era Archita Valente? Nato a
Taranto il 13 settembre del 1875, doveva morire nel tetro penitenziario di
Avellino, nel novembre del 1918.
Scrittore dalla personalità complessa e contraddittoria, tendente a un qualche
romantico maledettismo, i suoi amici romani non lo avrebbero mai considerato un
“genio del male”, dal fascino
tenebroso dell’agente segreto votato al plotone d’esecuzione. Allievo del liceo
Archita di Taranto, tra l’estremo scorcio dell’ottocento e i primi del novecento, veniva contagiato
dall’intensa attività di una eccezionale stagione teatrale. Al Politeama Alhambra, al Marconi,
all’Eden , al Paisiello, nella sua città venivano rappresentati Carlo Veneziani
e Cesare Giulio Viola. Il tarantino Lucio Ridenti entrava nella compagnia di
Ermete Novelli e nel 1915 si faceva avanti il conterraneo Filippo Surico. A
Roma, del tutto indisponibile agli studi di giurisprudenza, Archita viveva gli ultimi fuochi della belle
epoque, fra la Sala Umberto e l’Ambra Jovinelli, dove D’Annunzio
cominciava a cimentarsi come cronista mondano e la regina del Tabarin era la grande diva Anna Fougez, la superba icona
degli anni Venti, al secolo la tarantina Annina Pappacena Laganà.
Sotto il segno dannunziano, nel 1899 Valente pubblicava una modesta
raccolta di novelle, ma un “dramma sociale” intitolato Gli ultimi saranno i
primi, veniva proibito dalla Prefettura.
Assiduo frequentatore di teatri, biondo, alto e muscoloso, gioviale e amicone,
Valente era l’eterno provinciale che rimaneva sempre ai bordi. Frequentava giri
importanti: Marinetti e Pirandello, Scarfoglio e Serao; non invitato da alcuno,
Archita interveniva ogni sera,
grosso, beato, ridente, riempiendo con la corpulenta persona tutt’un tavolino…
Voglioso di respirare atmosfere letterarie, non si curava di essere inerme
bersaglio di continue frecciate ironiche, come ha scritto Ettore Panareo. Lucio
D’Ambra raccontava di un tiro mancino giocato alle spalle di Archita, che aveva
organizzato al Caffè Aragno un banchetto per venti persone, le quali si
assentavano malignamente, mentre
il tapino si risolveva a pasteggiare solitario a capotavola, offrendo gratuitamente
cibo a una ventina di passanti. Archita Valente non si arrendeva e riusciva a
far girare sue opere con la prestigiosa compagnia di Ermete Zacconi, sembra
anche a Parigi e a Taranto. Continuava a macinare libri e testi teatrali, ma le
critiche erano sempre implacabili. Anche la moglie gli creava impicci: amante
del direttore del gaz Pouchain, dopo l’improvvisa morte di questi, si doveva
accollare il pagamento di un mobile donato e non pagato. Ridotto in condizioni
disagiate, nel biennio precedente
lo scoppio della guerra, su di lui
calava il silenzio. Quando si venne a sapere delle macchinazioni di Archita, i
letterati del gruppo romano rimasero attoniti. Il poeta trilussa componeva un
sardonico epigramma: “Quello tradiva? Mi stupisco assai/ che avesse
intelligenza col nemico/ se con gli amici non ne aveva mai”. La figura del
buontempone tarantino si era ridotta a quella di “demone meschino”.
10. L’agente segreto
Una mattina di aprile del 1916 (l’annus
terribilis della Leonardo Da Vinci) il
controspionaggio italiano riceveva la visita dell’avvocato Antonio Celletti,
amico dello scrittore tarantino Archita Valente, sempre alle prese con strani pacchi ricevuti da sconosciuti
e molto attento agli annunci de “Il Giornale d’Italia”, in particolare le
“Rubriche per cuori solitari”. Lo
scrittore jonico, sempre attaccato al tavolo da gioco, perdeva somme di denaro
troppo al di sopra delle sue possibilità.
Inizialmente la polizia si mostrava scettica e si limitava a sospendere
il passaporto di Valente, già remunerato come ex informatore. In realtà Archita
aveva accettato di passare informazioni ai tedeschi in cambio di un cospicuo assegno mensile e di diversi premi
per incarichi speciali. Con il suo codice segreto, lo scrittore poteva comunicare che lo ZIO= Generale Cadorna
era in viaggio= offensiva militare…
“ZINGARA TI AMA” oppure “ZINGARA FARA’ TARDI”. Un codice cifrato che
veniva decodificato oltre le Alpi. Valente, privato del passaporto, pregava l’amico Grassi
di portare a Lucerna alcune lettere per il Barone Stockhammern, l’ormai
noto spione. Grassi doveva
presentarsi al Barone declamando Nel mezzo del cammin di nostra vita. In
realtà Celletti, in accordo con la polizia italiana, prendeva il posto di Grassi, all’insaputa di Valente. Veniva accolto da Mario Pomarici,
giornalista italiano filotedesco,
che riferiva anche del ruolo di Valente, esperto operatore di messaggi
in codice. Veniva fuori il nome di
Rudolf Gerlach come il principale agente , nonchè l’avvocato Giuseppe
Ambrogetti , spedizioniere del Vaticano e vari cardinali e vescovi. Ritornato a
Roma Celletti denunciava Valente,
che veniva rilasciato ma lungamente sorvegliato, mentre cercava di
abborracciare una sorta di doppio gioco riguardo “piste clandestine” in Italia e Svizzera, che lui avrebbe
seguito come ex informatore, per
poter fornire rivelazioni al
Governo italiano… Londra, Parigi e
Washington già propendevano per le fucilazioni, ma con il Vaticano occorreva
prudenza. Valente parlava come un fiume in piena, indicando proprio in
Ambrogetti colui che gli recapitava lo stipendio mensile. Valente veniva
accusato di aver ricevuto un sussidio mensile di 3.000 lire per la stampa del
giornale “Il bastone” fino al dicembre 1916, da parte dell’ineffabile Gerlack.
Con l’acquisizione dei cifrari di Zurigo venivano smascherati i sabotatori
della “Brin” e della “Leonardo”. Quaranta arresti in Italia. la sorte di
Valente era segnata. Veniva condannato a trent’anni. Proprio analizzando il
“caso Valente”, Carlotta Latini ha ragionato sulla “giustizia di eccezione”, che permetteva ai militari di applicare
il codice penale dell’esercito anche nei riguardi dei borghesi, come nei casi di “disfattismo
minuto”. L’avvocato Giuseppe
Ambrogetti, agente speciale della Curia per i trasferimenti di denari tedeschi,
imputato per alto tradimento doveva scontare tre anni di galera. Condanna per
intelligenza col nemico, anche
senza intenzione di tradire. Pomarici si rifugiava in Svizzera . Il consigliori
del Papa veniva condannato in
contumacia, ma si allontanava
verso la Svizzera su un vagone di prima classe. Valente veniva accusato di alto tradimento: mentre Pomarici
si rifugiava in Svizzera. Valente aveva tradito il mandato di informatore , per
aver ricevuto 3.000 lire per il giornale “La Vittoria”. Nel trattato
di Londra firmato da Sonnino veniva aggiunta una clausola segreta, l’articolo
15, su richiesta di Londra, Parigi e San Pietroburgo, che impediva l’intervento
del Vaticano o di qualsiasi funzionario della Santa sede, in una futura
conferenza di pace.
10. La notte di Taranto
La notte del 2 agosto 1916, il
Mar Piccolo di Taranto pareva una foresta, con gli alberi della prima squadra
azzurrati dal mascheramento notturno. Era una notte senza luna e afosa. Verso
le 23.00 La “Leonardo Da Vinci” veniva scossa da un rombo sordo che saliva dal
fondo. Lo scafo tremava ed esplosioni sempre più frequenti squassavano il
ventre della nave. Alle 23.40 l’esplosione spaccava la “Leonardo” in tanti
crateri, con un rombo che percorreva l’aria per molte miglia. Fiamme altissime
illuminavano la notte e i marinai venivano inghiottiti nelle voragini prodotte
dagli scoppi. Alle 24.45 la corazzata si capovolgeva. Uno scoppio del deposito
munizioni aveva fatto saltare in aria e quindi affondare in mar Piccolo la più
potente delle sei dreadnoughts di cui
era composta la prima “squadra da battaglia” della flotta italiana. La nave si
capovolgeva e s’immergeva, lasciando fuoriuscire dall’acqua, per cinque metri,
la chiglia puntata verso il cielo illuminato dai riflettori. Trovavano la morte
227 membri dell’equipaggio e 21 ufficiali. La commissione d’inchiesta accertava
senza alcun dubbio la natura dell’attentato e non mancava di evidenziare alcune
deficienze del servizio di bordo, nella sorveglianza della piazzaforte e in
certi particolari riguardanti la disciplina dell’armata. Testimonianza del
prof. Giacinto Peluso: “con papà
al fronte, la notte del 3 agosto 1916 fummo svegliati verso le 23 da uno
scoppio tremendo che scosse la città dalle sue fondamenta. Di quelle ore
apocalittiche noi ricordiamo un cielo rosso come quello che ora si vede in
direzione del ‘siderurgico’, tante grida e tanto, tanto pianto. Dal balcone
della nostra abitazione nel Vico Statte che affacciava, a causa del dislivello,
al di sopra delle terrazze dei palazzi della via Di Mezzo, si spaziava su tutto
il Mar Piccolo gremito di navi italiane ed alleate. L’unità colpita era la
corazzata ‘ Leonardo da Vinci’,
una unità davvero temibile con le sue 26mila tonnellate di stazza, 13 cannoni da
305 disposti in cinque torri blindate, che si inabissava dopo essersi capovolta
e si adagiava sul basso fondale con la carena che affiorava dalla superficie
del mare. La città vecchia era particolarmente interessata perché parecchi
marinai imbarcati sulla ‘Leonardo’
erano tarantini’. Nel nostro vico, per esempio, abitava un sottufficiale con
moglie e tre figli in tenera età e lasciamo immaginare le scene di disperazione
quando, in un baleno si conobbe il
nome dell’unità”. L’immane
detonazione era stata avvertita anche a Massafra, con un grande bagliore che
illuminava a giorno la zona e i paesi circostanti. Veniva fissata la taglia di
centomila lire per chi riusciva a scoprire i dinamitardi. Si trovavano
coinvolti un commissario di P.S. e un commerciante latitante (probabilmente
liquidato dai servizi nemici in quanto doppiogiochista). Dalle carte trafugate
a Zurigo emergeva il ruolo delle superspie e venivano scoperti ed arrestati 40
informatori e sabotatori residenti in Italia. La commissione d’inchiesta
presieduta dall’ammiraglio Napoleone Canavero non riusciva a cavare un ragno
dal buco. Giungeva un plico
sigillato dal Ministero della Marina, che doveva contenere le prove della
colpevolezza e le cause dell’affondamento, ma la commissione non aveva il
potere di aprire il plico, che veniva requisito, censurato e inviato alla
magistratura. Una trionfale retata di spie e un pugno di mosche (Luigi
Bazzoli). Un vile attentato,
dicevano tutti! Dati i tempi, nel 1917 , i signori Vile decidevano bene di cambiare il nome in Villa.
11. Il colpo di Zurigo
Dipanata, almeno parzialmente, la
rete informativa dei servizi tedeschi, si decideva un attacco
frontale alla centrale di Zurigo nella sede del Consolato
austriaco, dove il Console Mayer aveva in dotazione fondi illimitati per i
sabotaggi. Il Ministero della Marina non doveva risultare coinvolto. Il capitano di Vascello Marino Laureati
e il Capitano di Corvetta Pompeo Aloisi organizzavano una squadra di specialisti, compredente anche un abilissimo scassinatore di professione,
Natale Papini. Nella notte di Carnevale del 22 febbraio 1917 si raggiungeva la
cassaforte, utilizzando sedici chiavi per aprire sedici porte. La 17° porta non
era prevista. Bisognava provvedere a tempo di record e si ritentava nella notte
del 24, sabato grasso. Si lavorava durante tutta la notte, sfidando anche un
gettito di gas venefico. Si riusciva al fine a impadronirsi dei codici cifrati
e dell’elenco completo delle spie austriache in Italia. Veniva anche prelevata
una ingente somma di denaro che passava al controspionaggio della Marina.
Forzata la cassaforte, si acquisiva una relazione completa sull’affondamento
della “Leonardo” e sui piani per far saltare la “Giulio Cesare”. Due valigie di
documenti con la lista completa di tutte le spie agenti in Italia, fra i quali
Archita Valente, complice nella
distruzione della “Leonardo da Vinci” . Da quella operazione veniva tratto un film di Lionello De
Felice: Senza bandiera, prodotto nel
1946, ma uscito solo nel 1951. In seguito sarebbe stato prodotto anche uno
sceneggiato in tre puntate per RAI 1.
12. Verso il
dopoguerra
Coprifuoco, oscuramento totale,
requisizioni di locali, strozzavano sempre di più le libertà individuali e collettive.
Lo stato di eccezione recava in grembo i futuri gravi problemi della
smobilitazione e della riconversione, da una economia di guerra a una di pace, nel quadro di una
mentalità ormai congelata. Soltanto il ceto operaio aveva visto crescere il
proprio prestigio, acquistando una
posizione centralissima nella vita cittadina. Si costituivano cooperative di
ogni genere, per fronteggiare i
prezzi proibitivi dei generi alimentari e delle case. Nel 1916 veniva
inaugurato il Bacino Ferrati, adibito prevalentemente al recupero sommergibili. Nel 1917
venivano carenate 500 navi da guerra e 60 piroscafi, con un indotto francamente
sproporzionato. Mentre a Taranto era in corso di demolizione la ringhiera in
ferro della Villa, il 22 maggio
1917, dopo 11 mesi di prigionia
trascorsi nel campo di Mathausen, grazie allo scambio di mutilati ed invalidi
fra l’Italia e l’Austria, veniva rimpatriato a Massafra il sottotenente Cosimo
Licurgo. Il 2 luglio il fante Davide Sorrentino, forse finto pazzo per non
andare al fronte, si denudava e attraversava Massafra con la baionetta per
ammazzare il Capitano, ma veniva fatto rinsavire da alcuni fruttivendoli.
Nell’agosto 1916 la “Voce del Popolo” aveva pubblicato una documentazione dell’Ufficio del
Lavoro che indicava Taranto, fra tutte le città d’Italia con il primato del rincaro
dei generi di prima necessità, con aumento del 48% per cento. Grossi affari per gli speculatori, rispetto e
invidia per i navalmeccanici, ma
livore antioperaio espresso dai ceti medi e piccolo borghesi che vedevano
scadere il loro tenore di vita. Durante tutti gli anni di guerra, i socialisti tenevano alta la loro bandiera con il
battagliero giornale “Grido del popolo” che sosteneva in particolare i
lavoratori del mare. Non mancava una propaganda antimilitarista in Arsenale a
opera di Cataldo Mongelli, Paolo Illuzzi, Umberto Boccuni, Cosimo Zito e
Francesco Ippolito. Nel 1918 si registrava il primo sciopero del dopoguerra dei
giovani allievi dell’Arsenale per l’abolizione del lavoro domenicale. La
richiesta veniva accolta, ma gli organizzatori venivano duramente puniti. Il 21
ottobre 1918 a Massafra si segnalavano molti ammalati di “Spagnola”, la febbre
micidiale che doveva procurare più morti della guerra. Il 4 novembre giungeva il bollettino
della Vittoria. Nel Salento, a
Taranto si registrava il minor numero di caduti: 227. Una strada cittadina
ricorda un autentico eroe, il Maggiore Angelo Berardi, che allo scoppio della guerra
conquistava subito una medaglia d’argento. Per la bravura dimostrata in
numerose azioni, si poneva alla testa dei piloti di dirigibile e veniva
fregiato di nuova medaglia d’argento, della croce di guerra belga e di quella
italiana. La fase più intensa della sua attività seguiva la ritirata di
Caporetto. Volava infaticabile tutte le notti per colpire con le sue bombe i
ponti sul Tagliamento e sulla
Livenza , sulle arterie del Trentino e le balze alpine. Compiva 18 ore di volo
consecutive e batteva il record mondiale d’altezza per dirigibile. Nell’agosto
del ’18 rovesciava sul nemico, con dieci ardite azioni una enorme quantità di
esplosivi. Durante l’azione decisiva, dall’alto poteva assistere alla tremenda
disfatta degli austriaci. Per ironia della sorte, il grande aviatore doveva
incontrare la morte sul golfo di Taranto, scomparendo in un viaggio da diporto,
per ricongiungersi con la famiglia.
Durante tutta la guerra, il cantante
tarantino Enzo Tacci, esponente di punta del canzoniere napoletano e del
“cafè-chantant” ai tempi di Gilda Mignonette, si era prodigato con innumerevoli
spettacoli che si davano nelle immediate retrovie, negli ospedaletti da campo
del fronte… In una lettera in data 25 marzo 1927, E.A. Mario gli scriveva: “Caro Tacci, tu sei il cantore della
“Leggenda del Piave”, della canzone che era il grido d’una aspirazione, che faceva sognare una rinascita. Canta
ancora, se questa è la tua missione”. E questa rimase fino alla fine la sua
missione.
***
Il 21 febbraio 1919 il Comando
in capo del Dipartimento marittimo decretava la fine dello “Stato di resistenza”.
Nel mese di novembre, concerto ai
giardini Peripato con la Banda della Marina e la Banda inglese. In Puglia i
caduti in guerra erano 28.195: a Bari 4.572; a Barletta 6.394; a Foggia 5.287;
a Lecce 6.953; a Taranto 4.989.
Della più audace impresa del
controspionaggio italiano, il caso Zurigo, non è rimasta traccia documentale. A
seguito di un film uscito nel 1955, alcuni protagonisti raccontavano qualcosa sulle pagine
della “Domenica del Corriere”, del 20 marzo 1955. Nel 1954 in Parlamento si era
discusso di un possibile intervento a favore dell’ “agente scassinatore”
Papini, malato e ridotto alla fame, ma tarde furono grazie divine. L’unico documento superstite, conservato in
Archivio, è una ricevuta riguardante una cassettina di latta con i gioielli di proprietà del Mayer,
cavallerescamente restituiti dagli italiani. Leggibile una iscrizione: Frida e
Rudolph, sposi.
I dossier concernenti la
“Benedetto Brin” (vittime 400) e
la “Leonardo Da Vinci” (vittime 249) rimanevano indefinitivamente secretati e,
fra i maneggi dell’autorità militare e di quella politica, andavano praticamente distrutti. Documenti
importanti erano stati strappati o
mutilati (Luigi Bazzoli). I molti inquisiti del “caso Brindisi” dovevano essere
fucilati nella schiena, poi condannati all’ergastolo e infine graziati. Per il
sabotaggio della “Leonardo” erano stati assolti per insufficienza di prove una
decina di imputati .
Gerlach, “la spia venuta dal
Vaticano”, veniva decorato dal Kaiser Guglielmo II a Berlino e dall’imperatore Carlo I a Vienna . Benedetto XV
si spegneva il 22 gennaio 1922, dopo essersi tormentato per l’imbroglio del “cameriere”.
A metà degli anni ’30, l’astuto bavarese si ritrovava ancora
a trafficare nel Bel Paese, nostalgicamente desideroso di un qualche Souvenir d’Italy. Sia pure in ritardo, la polizia fascista si accorgeva di quello strano condannato
all’ergastolo e monsignor spione preferiva scomparire di nuovo. Abbandonata la carriera ecclesiastica,
riceveva onorificenze da diverse
nazioni per i servizi prestati. Adottava lo stile di vita dell’uomo d’affari
cosmopolita e conduceva a Davos “vita di secolare convivenza” con una contessa.
Moriva in Gran Bretagna nel 1945, dove aveva vissuto sotto falso nome,
collaborando con i servizi segreti di Sua Maestà.
Archita Valente, sepolto nel carcere
duro di Avellino, poneva fine ai suoi giorni precipitando nel vuoto da una
finestra. Circostanza anche questa non priva di ombre. Era il 7 novembre 1918.
Quattro giorni dopo, l’11 novembre, in una Taranto festante
per la fine vittoriosa della guerra, Marietta De Vincentis, madre del suicida,
seguiva la sorte del figlio, anch’essa precipitandosi da una finestra. Come
scriveva Enzo Panareo: “tutto come in uno di quegli scadenti drammi borghesi,
dei quali Archita Valente era stato appassionato, anche se sfortunato, autore”.
Tra le canzoni in voga ce n’era una
portata al successo dalla tarantina Anna Fougez , che sembrava interpretare uno
stato d’animo collettivo: l’orrore per la guerra, per il sangue versato sulle
trincee del Carso e lungo le sponde del Piave. Il ritornello faceva così:
Cuore, so
che vuoi goder
So che vuoi per te rose d’ogni color
Ma le rose rosse no, non le voglio veder…
Testi di riferimento:
Saverio La Sorsa, La Puglia e la guerra mondiale, Ed.Casini, Bari-Roma 1928.
Enzo Panareo, Archita
Valente: dalla letteratura allo Spionaggio,
“Sallentum”, Anno , n.IV, n. 3.
La più audace impresa del controspionaggio italiano nella
prima guerra mondiale, “ Storia
illustrata”, Settembre 1969, n.142.
Aa.vv. La
Città al borgo, Mandese editore, Taranto
1983.
Fernando Ladiana e Espedito Jacovelli, Massafra e la
Grande Guerra, Cspcr Massafra, 1984.
Nino Bixio Lo Martire, I Cantieri Navali di Taranto, Coop.19 luglio, Taranto 1990.
Roberto Nistri, Civiltà dell’industria, Scorpione editrice, Taranto, 1988
Corrado Pasquali, 1914-1918, L’armata silente, Bolzano 2004.
Rosa Alba Petrelli, L’Arsenale Marittimo Militare di
Taranto, Perugia, 2005.
David Alvarez, I servizi segreti del Vaticano, Newton Compton editori, Roma, 2008.
Eric Frattini, L’entità, Fazi Editore, Roma, 2009.
Aa.vv. I
Cantieri Tosi, Fondazione Michelagnoli,
Taranto, 2013.
Annibale Paloscia,
Benedetto fra le spie, Mursia
editore, 2013.
Filmografia:
Lionello De Felice, Senza bandiera, prodotto nel 1946 uscito nel 1951.
Adolfo Fenoglio, Accadde a Zurigo,
Sceneggiato in tre puntate puntate su Rai 1, 1981.