Edizione ampliata di Taranto 1943-1945 apparso a stampa in “Taranto
democratica”, Scorpione, Taranto 2013, pp. 33-49. Vietato utilizzare quest’opera
senza il consenso dell’Autore.
© Roberto Nistri 2013.Tutti i
diritti sono riservati.
Roma, 8 settembre
Il Governo Italiano,
riconosciuta l’ impossibilità di continuare l’ impari lotta contro la
soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più
gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower,
Comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve
cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad
eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.
Pietro
Badoglio
1) La fine
della guerra
Il giorno in cui gli italiani “cambiarono guerra” , non venne vissuto
dai tarantini in maniera traumatica. Una nottata di dolore era stata quella tra
il 26 e il 27 agosto, quando il capoluogo aveva subìto una pioggia di bombe. La
testimonianza del generale medico Alfonso Leone avrebbe fornito un cupo quadro d’insieme sulle conseguenze dell’attacco
aereo, durato circa mezz’ora nell’area ferroviaria sul rione Tamburi, colpendo
anche gli scambi ferroviari di Punta Rondinella di fronte all’Ospedale e il
nodo stradale fra Taranto e la Calabria. In quell’area i tedeschi avevano organizzato un
accampamento mimetizzando sotto gli alberi di un grande uliveto un parco di
automezzi. Le bombe causarono
diverse vittime per il crollo di case popolari, ma il triste bilancio si
accresceva con l’ultimo
bombardamento che investiva
la città il 29 agosto. Nel periodo
successivo Taranto veniva
risparmiata dagli anglo-americani, intenzionati a preservare gli
impianti della base navale, per poterli poi utilizzare per lo sbarco.
L’8 settembre del ’43 la cittadinanza tarantina visse l’annuncio dell’armistizio
in maniera del tutto anomala rispetto al resto del paese: malgrado la presenza
in Mar Grande delle corazzate Doria, Duilio e Giulio Cesare, con tre
incrociatori, torpediniere e sommergibili, non venne sparato un solo colpo.
Nella tarda serata due motosiluranti tedesche chiesero l’autorizzazione a
lasciare il porto di Taranto, non prima di essersi rifornite di mine magnetiche
nei depositi di Buffoluto. Gli occupanti avevano tuttavia cercato di minare il
ponte girevole e le banchine del canale di accesso a Mar Piccolo. Il medico
militare Alfonso Leone ha ricordato
di aver visto, qualche giorno prima dell’8 settembre, una squadra di
scalpellini intenti a preparare, con evidente voluta lentezza, le buche sulle
due sponde del canale, destinate ad accogliere le cariche di tritolo.
Fortunatamente mancò il tempo per portare a termine l’operazione, ma un mezzo
navale tedesco riuscì a seminare
mine nella rada di Mar Grande. Reparti germanici avrebbero tentato, senza
riuscirvi, di penetrare nell’area dell’Arsenale militare. Il comandante tedesco
si accordò con l’ammiraglio Brivonesi per una tranquilla dipartita notturna dei
suoi 250 militari e così i tarantini, dal prefetto Innocenti al commissario al
Comune Pampillonia, andarono a dormire, cullati dalla loro buona sorte.
A 37 chilometri da Taranto, a
Castellaneta, i tedeschi in fuga causarono le prime violenze. La piccola patria
di Rodolfo Valentino si trovò, dal 9 all’11 settembre, alla mercè delle truppe
germaniche che requisirono armi, automezzi e viveri. Per tagliare l’avanzata
verso Bari alle forze inglesi che stavano sbarcando a Taranto, i tedeschi
sabotarono il tratto ferroviario, tagliarono i cavi elettrici, piantarono
mitragliatrici perfino nel cimitero. I castellanetani, guidati dal podestà Gabriele
Semeraro, riuscirono a mettere in salvo scorte di farina e di zucchero, nonché
casse di medicinali. L’11 settembre vi furono i primi scontri fra tedeschi e
anglo-americani. I cittadini misero a punto un piano di difesa aggregando
soldati e volontari ma, infuriando
la battaglia alle porte del paese, vennero uccise 25 persone. Tra esse tre
soldati e il colonnello Salvatore Argentina di Francavilla Fontana.
A Taranto, poche ore dopo la partenza degli
occupanti, arrivarono gli “altri”: alle 6,30 a Porta Napoli, il parroco di San Cataldo, Guglielmo
Motolese, venne bloccato da alcuni soldati canadesi che gli requisirono la
Topolino. Intanto il fuggiasco Vittorio Emanuele - capo supremo di un esercito
nei cui confronti si era macchiato di alto tradimento, abbandonandolo in balìa
del nemico - dopo aver lasciato i
nostri soldati armistiziati e senza ordini di fronte ai carri armati tedeschi
(nella difesa di Roma moriva il tarantino Massimo De Palma) si affrettava per arrivare il giorno 10
a Brindisi, capitale provvisoria
dell’Italia libera. Nella città bimare, alle 17,30 del giorno 9,
le navi alleate entravano in Mar Grande. Verso la mezzanotte l’Abdiel, uno degli incrociatori inglesi che si accingeva
alle operazioni di attracco,
saltava in aria a circa mille metri dal Castello aragonese, per
l’attivazione di una mina, riportando gravi perdite. L’incidente rallentava lo
sbarco angloamericano, per la necessaria opera di sminamento. Per la Taranto “perla del Regime” e
“città tre volte fascista”, liberata prima della Liberazione, iniziava un
dopoguerra tutto particolare, mentre il resto della penisola doveva ancora
affrontare i giorni dell’ira e del dolore.
Quanto al fascismo jonico,
esso era praticamente defunto prima ancora della nascita del governo Badoglio:
nel giugno del ’43 i gerarchi tarantini, durante un’ispezione per la consegna
del grano agli ammassi, venivano colti in flagrante chiancareddata: una
inopportuna abbuffata con “il nemico alle porte”, che giustificava il feroce
sarcasmo inglese del “Daily Telegraph”. La direzione del Fascio veniva azzerata e ricostituita il 24 luglio,
ma il giorno dopo il dittatore era gà deposto. Il maresciallo Amalfitano, della squadra politica della
questura, chiudeva la Federazione e si portava a casa le chiavi. Il 26 luglio
il direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il tarantino squadrista Pupino
Carbonelli, faceva capire ai
lettori di essere l’unico italiano non informato della fine del Regime. Quando
veniva convinto dagli altri redattori
che non era più il caso di elogiare il Duce, Carbonelli scompariva dalla
circolazione. Il 28 luglio la “Gazzetta” si decideva finalmente a comunicare la
caduta del fascismo. A Taranto il
Prefetto non registrava “alcun turbamento dell’ordine pubblico”. “La guerra ufficialmente era finita,
mentre continuava” (Emilio Lussu).
2 )
L’occupazione alleata
Dopo lo sbarco dei carri armati, la
città cominciava a riempirsi di angloamericani, neozelandesi, australiani,
canadesi, francesi, polacchi, algerini, marocchini, sudafricani, indiani,
greci, con l’inevitabile
requisizione del cinquanta per cento delle case e dell’ottanta per cento
degli edifici pubblici: occupati prima gli alberghi, le ville, gli appartamenti
dei gerarchi fascisti e dei cittadini più ricchi, poi gli appartamenti comuni, in
primis quelli dotati di stanza da bagno. In
due o tre ore bisognava abbandonare mobili e biancheria e il town-major,
a titolo di consolazione, suggeriva
soltanto di supporre che una bomba avesse
distrutto ogni casa. In città risultavano distrutte 800 abitazioni e duemila
vani erano danneggiati. Gli
angloamericani si sistemavano nel Palazzo degli Uffici, con requisizione e
sgombero del liceo “Archita”:
tutta la suppellettile veniva ammucchiata nel mercato di via Alfieri. I
polacchi si sistemavano in Piazza Bettolo, i marocchini sul “monte delle
vacche” presso Viale Virgilio, gli
indiani in via Duca di Genova. Gli inglesi occupavano anche il convento di S.
Antonio, a ridosso della Villa Peripato: ivi veniva installata una piscina in
cemento armato for
officiers only.
La città era in preda al caos. Quasi tutti i negozi erano chiusi e
mancavano gli articoli di più largo consumo. Tutti i traffici si esercitavano
in case e portoni. Rapidamente sorgevano efficienti organizzazioni per il
commercio di farina, sigarette, coperte, scarpe, scatole di burro, di carne, di
formaggio sottratte ai magazzini degli alleati. Nei pressi del ponte i grandi
carri militari dovevano rallentare o fermarsi e la “roba” veniva fatta sparire in
un baleno e inghiottita nei vicoli a opera delle bande di panarijdde, ragazzini lesti e organizzati. A nulla valevano le requisizioni dei red
caps e i cartelli di off limits posti nei punti d’ingresso della città vecchia. Le
varie forme di prostituzione e di violenza sessuale non si discostavano
purtroppo da quelle ricorrenti nelle altre zone dell’Italia “liberata”. Gli
incidenti più frequenti venivano provocati dai soldati inglesi ubriachi e un
comportamento particolarmente aggressivo caratterizzava le truppe
franco-marocchine. I problemi dovevano ulteriormente aggravarsi per la gran
quantità di profughi che cominciavano a pervenire dalle zone di guerra (già duemila alla fine di novembre, con
una consistente presenza di ebrei). Per tempo si era provveduto alla
installazione di un ospedale.
Soddisfare la fame era il pensiero
dominante: si dava la caccia al
pane bianco, alla polvere di piselli, al
corned beef. Le ragazze partecipavano a feste da
ballo mentre fratelli o fidanzati attendevano pazientemente fuori dai locali,
nella speranza di rimediare qualche scatoletta. Intanto cresceva una umorale e rozza offensiva nei confronti
del commerciante “affamatore”. Eppure quella Taranto così degradata vantava un
grande punto di forza: era l’unica città italiana ad aver mantenuto intatto il
proprio impianto industriale.
3 ) L’orgoglio
dell’industria militare
Come già nel primo dopoguerra, solo gli arsenalotti e i cantierini
continuavano a tenere alto il loro protagonismo sociale. Dall’8 settembre 1943
al 31 luglio 1945 venivano riparate ben 1846 navi: 621 della Marina da guerra alleata, 1022 mercantili, 203
piroscafi nazionali in servizio alleato, centinaia di unità da guerra italiane.
Per circa 2.100 interventi si arrivavano a contare punte di 13.000 operai e
2.000 impiegati. I lavori venivano eseguiti a tempo di primato per ogni unità
riparata. Le autorità navali britanniche si profusero in elogi e ampi
riconoscimenti ai tecnici e alle maestranze dell’Arsenale e del Cantiere Tosi
per la perizia professionale dimostrata, in particolare per la riparazione
della Abercrombie. Il
porto di Taranto sostenne per venti mesi l’iniziativa militare, garantendo
anche il rimpatrio di decine di migliaia di militari italiani: furono aperte le porte dell’Arcivescovado
e venne installato il Campo di “S. Andrea”.
In questo Campo furono internati tra il febbraio e il maggio 1946, sotto
il controllo inglese, circa diecimila prigionieri italiani: si andava da
prigionieri catturati prima dell’ 8 settembre a internati appartenenti alle
forze nazi-fasciste, fino ai cosiddetti “recalcitranti”: componenti delle
Brigate Nere, della Legione
“Muti”, della X Mas , della “Folgore” e dei repubblichini del maresciallo
Graziani. Dalla fine del ’45, man mano giungevano oltre 20.000 ex prigionieri
provenienti da India, Kenia, Egitto, Sud Africa, Inghilterra. Era penoso il
pellegrinaggio di parenti che giungevano da varie parti d’Italia per cercare
contatto con propri congiunti. Un
campo provvisorio veniva allestito in un uliveto alla periferia di Taranto, per
accogliere centinaia di ebrei di diversa nazionalità e slavi. Mentre andava
esaurendosi l’impegno bellico, fra settembre e novembre del 1945, si dovette fronteggiare anche il flagello della
peste.
4 ) Il Comitato di Liberazione Nazionale
La componente operaia, con il
suo alto peso specifico nell’economia cittadina, con alle spalle un’antica
tradizione organizzativa e una opposizione non eclatante ma comunque onorevole
al regime fascista, aveva le carte in regola per guidare la transizione al
postfascismo. “Rossi ed esperti”,
si diceva. A questa componente dovevano fare riferimento i capi delle
organizzazioni politiche e popolari, per lo più confinati e fuoriusciti, che
dopo lunghi anni di lontananza o di reclusione dovevano riorientarsi in una
realtà magmatica e scombussolata. Del rinnovamento politico avrebbe dovuto
farsi carico il Comitato di Liberazione Nazionale che tuttavia a Taranto non
aveva liberato niente e nessuno e poteva solo collaborare con gli
angloamericani. Non mancavano le discussioni, come quelle sulla toponomastica:
in genere vennero ripristinati i toponimi del periodo pre-fascista, ma piazza
Giordano Bruno non riuscì a riconquistare la sua vecchia targa. Il filosofo
abbruciato dovette cedere il toponimo a Maria Immacolata.
Nominato commissario al Comune
l’avvocato Agilulfo Caramia, nel settembre del ’43 si costituiva il C.L.N. nella tipografia del liberale Nicola
Pappacena: presenti, oltre al proprietario del locale, Drago e Solari per i
socialisti, Voccoli e Renzulli per i comunisti, Santulli per gli azionisti,
D’Elia e Pierri per i democristiani. L’unico “intellettuale” del gruppo a
godere di un certo prestigio culturale era Ciro Drago, direttore del Museo, al cui interno aveva
costituito clandestinamente una prima cellula del C.L.N.
ospitando, su interessamento del comunista Voccoli, il senatore Palermo,
perseguitato politico, responsabile per il Mezzogiorno della formazione dei
Comitati. Al Drago si affiancavano i comunisti Latorre e La Sorsa, i cattolici
Mastronuzzi e Sgarrone, il Lamanna per il Partito d’Azione (la consistenza dei
socialisti e azionisti era quasi irrilevante). Da parte loro i liberali si consideravano i legittimi
rappresentanti della borghesia cittadina e gli eredi della tradizione
municipale prefascista: tale componente doveva inevitabilmente riprodurre le
vecchie fazioni rissose e personalistiche, con un prevedibile approdo al partito de “L’Uomo Qualunque”.
5 ) I cattolici in politica
La Democrazia Cristiana sorgeva presso la sede della Fuci ma faticava a
far emergere un gruppo dirigente che avesse una qualche memoria storica del
vecchio Partito Popolare. Aveva tuttavia un sicuro punto di riferimento nel
giornale “Giustizia sociale”: otto numeri fra il 28 novembre 1943 e il 16
gennaio 1944. Il direttore
responsabile era una figura abbastanza eccentrica nel panorama politico
municipale, il medico e poeta Michele Pierri. Ex marxista, uscito dal carcere fascista nel 1934, aveva elaborato una forma di
cattolicesimo di sinistra e aveva cercato di organizzare un gruppo di
“opposizione illegale cattolica”, promuovendo nel 1944 un collegamento con la
tendenza nazionale capeggiata da Franco Rodano. Le idee progressiste di Pierri costituirono la base
programmatica del primo nucleo democristiano, alquanto radicale a giudicare dal manifesto (pubblicato su “Giustizia sociale” del
28 novembre) con cui il nuovo
partito si presentava ai lavoratori:
“ La Democrazia cristiana, volendo realizzare nel campo sociale i
principi di giustizia e di amore che sono contenuti nel Vangelo, intende
restituire ad ogni lavoratore la dignità e la libertà economica calpestata dal
capitalismo, facendo partecipare tutti i lavoratori (…) al possesso
della proprietà (…) socializzando cooperativamente il
grande capitalismo (…). Con tale base d’indipendenza economica,
la Democrazia cristiana intende costruire uno Stato democratico, che dia effettiva indipendenza sociale
e politica ad ogni lavoratore e lo liberi dal timore di ritorni alla soggezione
del capitalismo sotto qualsiasi forma”.
“La moltitudine dei proletari bisognosi - si legge nell’organo della
sezione jonica della Dc - e il grandissimo esercito dei braccianti della
campagna, ridotti a un’infima condizione di vita” pongono la necessità che “in avvenire i capitali guadagnati non
si accumulino se non con equa proporzione presso i ricchi, e si distribuiscano con una certa
ampiezza fra i prestatori d’opera”.
In quel momento, principale terreno d’intervento della
propaganda democristiana era quello dell’ineguaglianza sociale, affrontata non soltanto sul piano della
redistribuzione della ricchezza, ma anche su quello dei rapporti di produzione.
Partecipazione agli utili e ai capitali nei settori aziendali, sviluppo della proprietà terriera
tramite l’organizzazione di cooperative di credito, produzione e consumo, erano i capisaldi del programma
lanciato sulle colonne del tarantino “Giustizia sociale”, che trovava riscontro nell’organo della
Dc barese, “Il Risveglio”, che nel gennaio del ’44 avvertiva gli industriali
che “da un problema di ricchezza
si passerà nel secondo dopoguerra a un problema di collaborazione nella
produzione”. Risultava robusta
l’influenza del popolarismo sulla stampa, ma emergevano forti differenziazioni
fra i gruppi dirigenti: non a caso nel ’46, con l’emarginazione della corrente
popolarista, dovevano concludersi le vicende del barese “Risveglio” e del
tarentino “Corriere jonico”.
Se la Dc trovava difficoltà a
inventarsi quasi dal niente un gruppo dirigente, il Partito comunista aveva
buone credenziali per porsi alla testa dello schieramento antifascista: era
l’unico partito ad aver conservato durante tutto il ventennio una opposizione
organizzata al Regime, mantenendo solide radici nella classe operaia
dell’Arsenale e dei Cantieri
(l’unica componente solida in una città allo sbando) e potendo offrire l’esperienza di tre
generazioni di dirigenti antifascisti da Voccoli a Latorre a De Falco. Malgrado
la dabbenaggine dei gerarchi, succubi del salentino Starace o del foggiano
Caradonna, il fascismo jonico non era stato un “regime da operetta”. Il suo
volto più violento si era manifestato già nel luglio del ’21 con l’assassinio
dell’operaio dei Cantieri “Tosi” Raffaele Favia e il 28 aprile del ’22 con
l’uccisione del comunista Giuseppe Migliaresi. I comunisti potevano vantare
quadri dirigenti temprati da una fiera opposizione, non scalfita dalla
persecuzione e dalla prigionia: Odoardo Voccoli era stato condannato due volte
dal Tribunale Speciale, prima a 12 e poi a 4 anni di carcere. Suo figlio
Wsevolod era morto in carcere, come Alessandro Volta, Antonio De Valeris e i
fratelli Mellone (condannati a 10 anni di carcere, Francesco moriva nel ’28 e
Federico nel ’36).
6) Le forze
social-comuniste e i sindacati
Si avviava prontamente
la riorganizzazione e la sede del Partito veniva aperta il 21 novembre del ’43,
in via Berardi n. 79: “entrando
per la prima volta, dopo dopo
vent’anni di vita clandestina e perseguitata, in una sede ufficiale nostra,
rivedendo alla luce le nostre rosse bandiere ed i nostri fatidici simboli - che
nascondemmo lungamente alle perquisizioni degli sgherri della reazione -
un’onda di commozione ci è salita al cuore”. Si formavano le cellule di partito e organismi come il
Fronte della Gioventù e l’Unione Donne Italiane. Attraverso figure come
Giuseppe Latorre, commissario provinciale dei sindacati dell’Industria, i comunisti fornivano al movimento una proposta
assai moderata e legalitaria, mirata a non esasperare le lotte
rivendicative, puntando piuttosto
sul consolidamento dell’organizzazione sindacale in fabbrica. Fra il ’43 e il ’48 l’organizzazione sindacale conosceva a
Taranto il vertice della propria rappresentatività, mentre i partiti erano
ancora impegnati in processi di omogeneizzazione interna. Nel gennaio del ’44 si costituiva in
Arsenale uno spaccio aziendale con adeguate attrezzature e mezzi di trasporto.
Si avviava anche la gestione del cinema
“Cral Arsenale”, un centro culturale che doveva assolvere ad una
funzione anche sociale e ricreativa,
e di un arenile fornito di cabine in muratura per i bagni lungo la
litoranea per S. Vito. Si moltiplicavano anche le pratiche di assistenza e previdenza.
Quando gli operai del “Tosi” scioperarono per reclamare
cospicui aumenti salariali, con fatica i dirigenti sindacali evitarono
possibili violenze. Il 30 aprile
1944 in Arsenale si registrarono momenti di nervosismo: gli operai avevano
smantellato fasci littori ed espressioni “artistiche” del regime, sostituendoli con simboli del lavoro,
simboli che diedero fastidio ad alcuni ufficiali nostalgici, che determinarono
l’intervento di marinai armati di moschetti e baionette. La mattina del 1°
Maggio del ’44 falci e martelli di
dimensioni gigantesche e slogan antifascisti istoriavano le pareti delle
officine. Malgrado le
intimidazioni di alcuni colpi di moschetto, una bandiera rossa sventolava sulla
tettoia della navata centrale, per
celebrare la giornata internazionale del lavoro. Nel mese di giugno, gli arsenalotti
attuarono il primo vero sciopero a causa del costante rincaro dei prezzi. Dopo più di venti anni si apriva una trattativa fra
l’Amministrazione e i rappresentanti dei lavoratori. Imponente fu il comizio tenuto in Arsenale da Giuseppe Di
Vittorio nel giugno del ’44, seguito da un tratto di Mar Piccolo verso i
Cantieri Navali, con l’equipaggio che cantava l’Inno dei lavoratori e l’ Internazionale. L’8
settembre del 1944 veniva ricevuta in Arsenale una delegazione sindacale
anglo-americana.
La sofferenza sociale doveva
comunque dar luogo a moti di protesta che talvolta scavalcavano con irruenza
tanto le rappresentanze politiche quanto i limiti della legalità, come nei tumulti scoppiati il 2
febbraio 1944. Un corteo di 3000
operai, in larga parte dei Cantieri, assaliva la Prefettura rompendo i cordoni
della polizia e delle forze armate, scovando ricche e ben occultate scorte di
prosciutti, formaggi, sacchi di farina e caffè. Ancora più esasperati, i manifestanti si misero alla caccia
del prefetto Soprano, un vecchio arnese del fascismo che a Napoli, il 23
settembre del ’43, aveva costretto i giovani, pena la fucilazione, ad eseguire
lavori forzati agli ordini dei tedeschi.
Il prefetto, tirato fuori da uno
sgabuzzino dove si era nascosto, venne trascinato a forza alla testa del corteo
e in piazza Carmine, vedendolo sfinito, i dimostranti lo misero su una
carriola. Solo l’intervento dei dirigenti comunisti riuscì ad evitare il peggio
ed il misero potè trovare rifugio nella chiesa del Carmine, sostenuto dalle
robuste braccia di un appuntato. Significativamente i soldati e marinai accorsi
non spararono neanche un colpo, fidando sull’autorevole intervento dei
dirigenti operai. Il prefetto si dimise e nel mese di marzo, alla presenza di
500 lavoratori dei Cantieri, venne costituita la Camera del Lavoro. I
lavoratori del “Tosi” si diedero anche un organo di stampa: “Lo Scalo”,
redattore Franco Candelli.
7) La
vischiosa transizione
Il 9 maggio 1944 Ciro Drago veniva con decreto prefettizio nominato
Sindaco, ma il C.L.N. menava vita assai grama. Un tentativo di dibattito veniva
suscitato dal giornale “Forze
Nuove”, nato il 19 ottobre del ’44 come organo del C.L.N. della
provincia, diretto da Michele Pierri, ma il tessuto della generica unità
antifascista si andava sfilacciando. Le divergenze emergevano con sempre
maggiore chiarezza e cominciavano ad evidenziarsi schieramenti ben distinti. La
tradizionale componente laica e liberale si faceva sedurre dalla sirena
qualunquista: la “Voce del Popolo”
dell’8 gennaio 1945 presentava il “nuovo grande settimanale italiano ‘ L’Uomo
qualunque’ (…) che interpreta
magistralmente il pensiero della stragrande maggioranza degli italiani” e
questo mentre nel resto del paese,
i partigiani stavano combattendo l’ultima sanguinosa battaglia per
aggiustare gli errori dei padri e conquistare all’Italia il passaporto per la
libertà.
Nel successo dell’ “Uomo Qualunque”, il giornale diretto
da Guglielmo Giannini dopo la
caduta del fascismo, umori
e veleni dell’oscuro ventennio si mescolavano a paure e diffidenze per una
democrazia ancora sconosciuta. Giannini si può considerare a buon diritto il
profeta dell’antipolitica: grande
istrione, una sera a Cagliari incantò una piazza trascinando 30mila persone a
cantare in coro Dove sta Zazà.
Mentre al nord si selezionava sul campo di battaglia la formazione di
una nuova classe dirigente,
in un contesto come quello tarantino di “altro dopoguerra”, la transizione politica
presentava caratteri sempre più vischiosi e gattopardeschi. Le misure, avviate dal Comando Alleato, di epurazione degli ex camerati che avevano commesso “azioni
delittuose” e di defascistizzazione come rimozione dalle cariche acquisite per “meriti fascisti”, non vennero applicate con mano pesante.
Non subirono alcun fastidio zelanti propagandisti della cultura di Regime come
il preside del Liceo classico Luca Claudio - come ha scritto Francesco Terzulli, aveva per tempo distrutto materiali compromettenti dell’epoca fascista - e
l’ispettrice Maria Luigia Quintieri che,
per tutto il Ventennio era stata considerata l’unico vero “uomo forte”
dello sgangherato Fascio tarantino. Come ha ricordato il vecchio fascista
Peppino Marzullo, il comportamento del presidente del Comitato di epurazione
Voccoli “non fu vendicativo”.
In un dattiloscritto datato 16
novembre 1983 (Sezione
“Mandragora” del Msi) si cita
l’esistenza, fra il 15 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, di un Fascio
clandestino sovvenzionato da una nobildonna per sostenere le famiglie dei
carcerati. Citati come aderenti: Marzullo, Giudetti, Paragona, Priore,
Blandamura, Catapano, Paddeu, Caggia, Buzzerio, Cavani, Pierri della X Mas.
Quasi tutti gli ex camerati poco compromessi riuscirono senza difficoltà a
mimetizzarsi negli ambienti conservatori e qualunquisti. Il periodico
democratico-liberale “La Rinascita” considerava addirittura l’epurazione come
la “malattia del secolo”.
8) Esaurimento del C.L.N
Il blocco delle sinistre si
riconosceva, dal giugno del ’45, nel giornale “Unità Proletaria”, con una campagna per la salvaguardia
degli impianti industriali, la riconversione degli apparati produttivi
dall’industria di guerra a quella di pace, con il relativo passaggio dall’una
all’altra delle maestranze specializzate, mentre erano in atto processi di
smantellamento e di espulsione della manodopera, soprattutto femminile, dal processo produttivo. Per la prima
volta l’8 marzo 1945, su iniziativa di una operaia di Buffoluto, Matilde
Pignatelli della direzione sindacale, si tennero assemblee in diversi reparti
femminili, illustrando il significato della Giornata Internazionale della
Donna.
Il partito cattolico tendeva a polarizzare il fronte moderato, con una
rapida mutazione nel giro di pochi mesi. Le idee generose e forse ingenue di
Michele Pierri venivano progressivamente accantonate. Quella eredità era ancora
avvertita nel “Corriere Jonico”
uscito il 13 gennaio del ’45 con un editoriale intitolato Rinnovarsi, ma
nella primavera il gruppo di Pierri, Mandrillo, Amoruso, Manganella, Di Noia,
Curci, Vinciguerra, era ormai emarginato. La leaderschip della Dc jonica veniva assunta dal “colonialista” Domenico Latanza,
proveniente da Tecazzè, che in anni successivi doveva coerentemente transitare
nelle schiere neofasciste.
Il C.L.N. concludeva la sua
storia con il comizio del 25 aprile in piazza della Vittoria. Già nascevano a Taranto e in provincia
(Martina Franca, Massafra, Palagianello…) le prime sezioni di partigiani che
ritornavano alle loro case e non mancavano di onorare i caduti. Nel 2010 Mario
Gianfrate ha rievocato sul
“Corriere” alcuni eroici tarantini, come il sottotenente Cataldo
Zingaropoli che, arruolatosi nella formazione partigiana “Garibaldi”, cadde in uno scontro
all’arma bianca a Sangiaccato il 16 novembre 1943; il capitano medico Antonio Quagliati che, al rientro dalla
Grecia, si pose in contatto con gruppi partigiani ma, catturato dalle SS ,
venne trucidato nel campo di Buchenwald;
nello stesso campo morì Cataldo Blasi, mentre a Dachau morirono Luigi
Balsamo, Pietro Di Roma e Michele
Schiavone; a Gusen Costantino Basile, Alfonso Fratini, Alessandro Massante,
Francesco Moschettini, Giuseppe Riccardi, Floriano Buccolieri. Uccisi dai
nazisti furono anche il capitano Celestino Basile e Domenico Carucci. Una
lapide posta nel 1947 ricorda gli uomini del Cantiere “Tosi” caduti durante la
Resistenza. Deportati a Mauthausen: Pericle Cima, ingegnere; Alberto Giuliani,
perito tecnico; Carlo Grassi, tubista; Francesco Orsini, tornitore; Angelo
Santambrogio, operaio; Antonio Vitali, tubista; Ernesto Venegoni, modellista.
Caduti in combattimento: Dante Galeazzi, meccanico; Gaspare Calini, fabbro;
Luigi Ciapparelli, operaio; Elio Colombo, impiegato; Gaetano Colombo,
tornitore; Marcello Colombo, disegnatore; Adelmo Marinoni, tubista; Ernesto
Musazzi, manovale.
***
Fra i non pochi antifascisti
tarantini che parteciparono alla Resistenza , si ricordano belle figure di patrioti
esemplari. Mario Gianfrate ha
rievocato il ruolo esercitato dal giovane Franco Basile nelle file socialiste
delle “Brigate Matteotti”. Si distinse nella battaglia di Tuscania, nel
viterbese, lanciandosi arditamente in un assalto contro i reparti tedeschi,
scagliando bombe a mano contro le loro postazioni. Nello scontro cadde trafitto
dai colpi di mitragliatrice nemica. Ha scritto di lui Beno Gessi, il comandante
della Brigata, poi divenuto sindaco di Tuscania: “Con entusiasmo e coraggio
visse le ultime ore della sua giovinezza, confondendo la sua sorte con quella
dell’Italia, per cancellare l’infamia di oltre vent’anni di oppressione”.
***
Di rilievo i tre partigiani Pandiani: Bernardo, Pietro e Laura, nati a
Taranto da Enrico e Addolorata Pisani.
Venivano da una famiglia di tradizioni garibaldine: il nonno aveva
partecipato alle Cinque giornate di Milano, dove era rimasto ferito, poi alla difesa
di Roma nel 1849. Bernardo
Pandiani, professore di matematica, ferito in Libia, operò come vicecomandante
della brigata Giustizia e Libertà sul fronte dell’Appennino tosco-Emiliano. Gli
venne conferita la Medaglia d’argento per aver collocato mine anticarro su una
rotabile frequentata da colonne tedesche e per aver salvato dall’accerchiamento
un presidio partigiano, respingendo i ripetuti attacchi tedeschi e recuperando
quadrupedi , armi e materiali. Anche la sorella Laura ebbe a militare nella Brg.
“Giustizia e Libertà” - Montagna, con il riconoscimento di Partigiana dal 27
novembre 1943 alla Liberazione.
Il fratello Pietro, ufficiale d’artiglieria, inviato in Spagna nel 1936, venne poi
spedito in Libia dove restò ferito come il fratello. In cura presso l’Istituto
Rizzoli di Bologna, il professor Oscar Scaglietti, antifascista, fece loro
conoscere Mario Jacchia (medaglia
d’oro alla memoria) che li informò
sul Partito d’Azione e fece loro conoscere Mario Bastia, altro martire della Resistenza
bolognese, Pietro Foschi e
Gianguido Borghese.
Da questa piccola cerchia nacque la brigata Giustizia e Libertà che,
oltre a Gaggio Montano e Castel d’Aiano, agì a Lizzano in Belvedere, Fanano e
Ronchidos, sotto il comando di Pietro Pandiani (Captain Peter). La
formazione era ininterrottamente impegnata in quotidiani combattimenti dal
luglio all’ottobre 1944. Durante
l’assalto a Monte Belvedere, il 12
dicembre 1944 perse la vita Antonio Giuriolo, di cui scrisse Luigi Meneghello in “Piccoli maestri” . Testimonianza di Francesco Berti
Arnoaldi, Liceale al Galvani di
Bologna: “Il 24 giugno salii alla chiesetta di Ronchidoso. Lì, in una sorta di foresteria, presto mi raggiunsero una trentina di
compagni di liceo. Più tardi
giunse il capitano Pietro Pandiani, un ufficiale che aveva combattuto a
Tobruk. C’era un bel clima da
stato nascente, il capitano era deciso, determinato. Trenta ragazzi e un capitano: l’immagine stessa della
Resistenza. Formammo la brigata GL
- Montagna, l’unica nel bolognese”.
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