TARANTO E LE LEGGI RAZZIALI. UN
SAGGIO DI FRANCESCO TERZULLI
Roberto Nistri
1. “Storia Patria”: lo stato
dell’arte
Il giornalista Sandro Viola , su “la Repubblica” del
29 settembre 1985, scrisse un articolo di rilevanza storica per tutto il
dibattito culturale in terra jonica sul finire del ‘900: Un salto nell’Italsider, così Taranto si è uccisa.
L’industrializzazione sbagliata della più sporca città italiana. “L’assedio del brutto ha vinto, non ci sono teatri
né biblioteche, i legami con il passato sono perduti. E’ come se fossimo
passati direttamente dalla Magna Grecia al Siderurgico… In mezzo non è rimasto
niente”: giudizi che scatenarono una discussione più che vivace su questioni di
dettaglio e forzature polemiche dello scrittore di origini tarantine, senza
tematizzare la questione di fondo: per primo Viola aveva intonato il de
profundis per il Grande Sogno siderurgico e
gli eventi successivi hanno di gran lunga superato le sue più fosche
previsioni. Viola aveva indicato anche alcuni motivi di ottimismo, fra i quali
l’affermarsi di un lavoro storiografico attento alle problematiche
dell’industrializzazione, considerato con una certa attenzione anche dalle
istituzioni locali e addirittura dall’Italsider, nel quadro della perdurante
assenza di un polo universitario (1). In effetti, due grandi opere pubblicate
nei primi anni ’80 - La città al borgo e Taranto da una guerra all’altra - furono occasione per un (sia pure superficiale)
risanamento della Galleria degli Uffici, con l’allestimento di grandi mostre
fotografiche e pregevoli concerti-spettacoli rievocativi della storia
municipale.
A seguito del lavoro storico sugli
antifascisti tarantini e, in particolare, sulla figura di Pietro Pandiani,
comandante partigiano della brigata “Giustizia e libertà”, si giunse ad una
delibera municipale del 31 ottobre 1988 (sindaco Mario Guadagnolo) che affidava
“formale incarico - privo di ogni compenso - ai Proff. Matteo Pizzigallo,
Roberto Nistri, Piero Massafra nostri concittadini, perché affrontino in
dettaglio tutti gli aspetti connessi alla costituzione di un Istituto della
Ricerca Storica sulla Resistenza e la Costituzione, riservando a successivi
atti di questa Amministrazione la concreta attuazione dell’iniziativa” (2). Il
progetto presentato venne approvato all’unanimità, ma la “concreta attuazione”
non prese mai il via. Tamquam non fuisset…
Intanto progrediva il depauperamento del patrimonio archivistico e documentario
cittadino: prima la smobilitazione della prestigiosa Scuola Quadri della Cisl,
poi la chiusura della Biblioteca dell’Italsider, a seguire la lenta ma
implacabile morìa dei Centri Servizi Culturali della Regione Puglia (3).
Naturalmente
gli storici locali hanno continuato a livello individuale il loro lavoro:
ancora non si deve chiedere il permesso a nessuno per scrivere di storia
moderna e contemporanea ed egregie opere hanno visto la luce grazie
all’interessamento di case editrici tarantine e pugliesi: Mandese, Scorpione,
Schena, Archita, Filo… Un ruolo meritorio va riconosciuto, in questo campo, ad
alcune importanti riviste scolastiche, in particolare “Galaesus” del liceo
Archita e “l’arengo” del liceo Quinto Ennio. Per quanto riguarda il gioco di
squadra, positivamente va considerata, grazie alla collaborazione dei fratelli
Mandese con la Sezione tarantina della Società di Storia Patria, la ripresa nel
1990 della pubblicazione di “Cenacolo”, prestigiosa rivista fondata nel 1971 ma
entrata in sonno nel 1982 (4).
A livello istituzionale, si deve
ricordare l’exploit del 1999: in
occasione del bicentenario della Repubblica partenopea fiorirono mostre e
pubblicazioni: un eccellente catalogo curato dall’Archivio di Stato, un
Quaderno del Centro Studi Piero Calamandrei e un qualificatissimo convegno di
studiosi locali e nazionali i cui atti vennero pubblicati a cura del
Provveditorato agli Studi di Taranto. Si può considerare un evento eccezionale
nella storia del Provveditorato e, considerato l’ampio coinvolgimento delle
scuole, rimane la più importante operazione culturale degli ultimi tre decenni.
Promotore e impeccabile organizzatore dell’iniziativa fu il preside Franco
Terzulli (5). Di formazione filosofica (ha pubblicato una ricerca bibliografica
relativa al Nietzsche di
Heidegger in collaborazione con il prof. Gianni Vattimo e il Goethe Institut di
Torino) in seguito si è sempre più appassionato alle questioni di storiografia
pugliese.
2. Francesco Terzulli e la
questione ebraica
Collaborando con Terzulli nelle celebrazioni della
“repubblica della memoria”, mi sono ritrovato a condividere con lui un
paradigma forte della storiografia contemporanea e un criterio di valutazione
delle tormentate vicende della vita civile italiana e meridionale: nella Storia
del regno di Napoli Croce ha scritto che, nel ripensare all’opera dei
patrioti del ’99, egli si sentiva spinto a dirsi “ecco la nascita dell’Italia
moderna, della nuova Italia, dell’Italia nostra”. L’origine dell’Italia
unitaria è nell’Illuminismo (6). Sullo sfondo di quel tumultuoso processo è ben
presente una questione che costituisce il filo rosso di larga parte della
riflessione storiografica di Terzulli: gli ebrei e i diritti di cittadinanza,
gli ebrei e l’illuminismo. Con l’arrivo dei francesi a Roma, nel febbraio del
1798, vennero spalancate le porte del ghetto in nome della libertà giacobina.
Nel mese di novembre l’esercito borbonico di Ferdinando IV invase Roma e
richiuse il Ghetto. Un mese dopo tornarono i giacobini e con la Repubblica il
Ghetto venne riaperto, ma richiuso con il ritorno dei Borbone il 3 ottobre
1799. Durante il quinquennio “imperiale” vi fu nuova libertà per il Ghetto, con
un fiorire dei mestieri e dei commerci. Passati i “cento giorni” di Napoleone,
la clausura per gli 8000 ebrei che vivevano nel Ghetto romano fu definitiva. Tale altalena fra
persecuzione e liberazione ebbe naturalmente a riprodursi in tutta Italia,
cristallizzando la coniugazione fra antisemitismo e anti-illuminismo (7).
Franco
Terzulli, punta di diamante della resistente pattuglia di storiografi
tarantini, ha continuato nei decenni a lavorare su queste ed altre tematiche
senza mai cedere alla tentazione dello scoop e della pubblicistica usa e getta: troppo grande, quasi religioso, è
il suo rispetto per la materia da lui indagata con l’autorità dei fatti e la
moralità del lavoro accurato. Nei riguardi di questo storico di razza,
ubbidiente all’aurea regola di Vico che vuole la storiografia come congiunzione
fra filologia e filosofia (i fatti senza l’interpretazione sono ciechi,
l’interpretazione senza la ricognizione fattuale è solo retorica), attento
nello scrivere e nel comunicare con chiarezza e distinzione, secondo lo stile
sobrio e “scientifico” appreso dal maestro Primo Levi, ci sembra a lui calzante
una citazione del vecchio Marx: “La critica non è una passione del cervello,
bensì il cervello della passione”. Avverso alla storia romanzata, ben
pubblicizzata e ben venduta, Terzulli teme la intollerabile “scomparsa dei
fatti” e, con Vittorio Foa, è convinto che l’oblio si possa vincere solo se la
memoria dell’evento è riportata alla ragione che lo ha determinato. Questa
divisa critica è la cifra di ogni sua indagine, si tratti della scuola o di vicende militari (8).
3. Quando l’Italia diventò
razzista per legge: l’antisemitismo in una città senza ebrei
Nel
settantesimo compleanno delle leggi razziali, Francesco Terzulli ha voluto
indagare nel microcosmo della vita quotidiana di Taranto, nel tempo intercorso
tra la proclamazione dell’Impero Fascista e l’armistizio che ne decretò la
fine, sempre onorando la storia come “guerra illustre” contro la menzogna
(“Taranto razzista? Quando mai…”) e sempre usando le armi della filologia senza
le quali la storiografia si riduce a chiacchiera. Sette anni di ricerche ci son
voluti per “blindare” doverosamente la sua indagine su L’impossibile
emulsione. Una città al tempo delle leggi
razziali , un testo di storia municipale
potentemente attraversata da tutta la tragicità della storia maior, non imbrigliato dal provinciale “effetto tunnel”
che tende a focalizzare l’attenzione su alcuni elementi precostituiti dalla
“tradizione” (9). Nel testo del Manifesto sulla purezza della razza si leggeva: “Gli ebrei non appartengono alla
razza italiana… E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”.
Dichiarazioni che oggi ci appaiono infami e oltraggiose nell’Italia fascista
vennero accolte con entusiasmo, in particolare dal mondo accademico e dalla
cultura: ad esempio, nelle Università, l’espulsione dei docenti ebrei fu
salutata con giubilo dai colleghi, felici che alcune cattedre si rendessero
disponibili. Anche a Taranto i Giovani Universitari Fascisti, molti presidi,
intellettuali e uomini di fede, ovvero le migliori intelligenze del territorio,
si misero al servizio dell’ideologia e della politica razzista attuata dal
governo centrale.
Giustamente
Terzulli considera la politica razziale non come un bizzarro accidente o
concessione di Realpolitik al più
potente alleato (10), ma come essenza stessa del fascismo, ideologia di Stato
e principale collante della
cultura nuova. Dopo la conquista dell’Etiopia nel ’36, il regime entrava nella
nuova fase del Fascismo Imperiale che richiedeva una vera e propria rivoluzione
antropologica. Proprio in Africa veniva elaborata una teoria razzista molto
forte, a partire dall’idea che le unioni miste fra soldati italiani e donne
indigene potessero inquinare il ceppo italiota. Di fatto venne introdotto l’apartheid con
molto anticipo rispetto al
Sudafrica e la discriminazione si esercitò prima nei confronti dei “negri”, poi
dei meticci e infine degli ebrei. Il paradigma era quello della “emulsione
impossibile”, da cui il titolo del saggio di Terzulli: l’olio delle altre razze
non può miscelarsi con l’acqua pura della stirpe italica e, derivandone un
composto torbido, è necessario un processo elettrolitico per attuare una separazione
definitiva. Si avviava così un processo di “disebraizzazione” volto a
cancellare qualunque traccia degli ebrei dal territorio italiano. In Puglia i
provvedimenti potevano colpire una donna ebrea di nazionalità greca, licenziata
da una banca di Bari come un ufficiale dell’esercito di Lecce, fascista e
decorato al valor militare, espulso dalle forze armate in quanto ebreo.
Anche
nella provincia jonica zelo antiebraico e ortodossia fascista finirono per
coincidere, avvolgendo in un’unica nuvola ideologica l’intellighenzia cittadina. A discapito della ridottissima presenza
ebraica e con eventuale risparmio di senso di colpa (secondo il censimento del
’38 gli ebrei di Taranto erano solo 26) la campagna persecutoria, facile e
redditizia, fu sviluppata a tutti i livelli, a partire dal più importante
periodico locale, “La Voce del Popolo”: “Gli Ebrei non possono appartenere alla
razza italiana” (Antonio Trotta, 20 agosto 1938); “L’Italia, più di ogni altra,
sente la necessità essenziale di sradicare questa funesta piaga” (Gennaro
Capano, 10 settembre). La “guerra santa” - un tonico a poco prezzo per il bolso
fascismo locale e un allettante viatico per l’autopromozione delle nuove leve -
fu condotta anche dal celebre liceo classico “Archita” sotto la guida del fascistissimo
preside Luca Claudio: fra i “Quaderni” di propaganda fascista spiccava anche un
opuscolo antisemita, Concetto scientifico di razza, stampato nel 1940 dalla Tipografia Arcivescovile di
Taranto, all’interno del quale si può leggere:”La razza va difesa. Noi non
vogliamo bastardi”. Come scrive Terzulli, Taranto rappresentò una “cartolina
del Regime” con l’integrale sviluppo di quei temi in agenda: qui, infatti, fu
avvertito l’ “orgoglio imperiale” di una città militarizzata, statale per
antonomasia, “porosa” e permeabile a ogni modello di sviluppo eterodiretto,
divenuta avamposto sui mari e vetrina della flotta, a partire dalla
proclamazione dell’Impero. La propaganda antisemita, un’alchimia tossica di vaghi pregiudizi e reiterate
istigazioni all’odio, con una facile mobilitazione di improvvisati specialisti
in razzismo ( storici, archeologi e folkloristi pontificanti nella Lega Navale
o nella Società “Dante Alighieri”) era anche una occasione insperata per
restituire credibilità a un Fascio locale sempre rissoso e spesso
commissariato. L’antisemitismo si rivelò subito “un mito aggregatore di tutto
quello che il fascismo condannava” con conseguente razzizzazione del nemico
politico (antifascista).
Allontanati dalla città i pochi ebrei e
scomparso, grazie al piccone del Duce nel ’34, l’ultimo toponimo del vicoletto
Giuda, non rimaneva che dichiarare guerra alla storia, disebreizzando anche il
passato con una rivisitazione retroattiva e malevola dell’antica presenza dei
giudei in terra jonica (11). Del resto la “bonifica” doveva esercitarsi in
particolare contro l’ebreo “invisibile”,
il “circonciso dentro”, quella ebraicità nascosta che alligna come
parassita nel corpo sano della Nazione. Non si trattava comunque di un’adesione
artificiosa: nello zelo scolastico “c’era qualcosa di volontario, di spontaneo,
un’adesione intima e non indotta dall’esterno di alcuni dirigenti e docenti” e
una sorta di invasamento era riscontrabile anche fra gli universitari in
camicia nera, quei “gufini” che a Taranto potevano coniugare il loro
antiebraismo con la doppia appartenenza alla Fuci, la federazione degli
universitari cattolici, anche per una certa ambiguità caratterizzante le
posizioni della Chiesa locale. I giovani intellettuali jonici mostravano di
conoscere le diverse teorie razziste in circolazione, privilegiando come nuova
antropologia di regime la “scuola” di Nicola Pende, clinico medico di
Noicattaro, nominato nel 1937 presidente della sezione di eugenica del Comitato
medico del Cnr e firmatario del Manifesto della razza (12).
Il
2 dicembre 1938 il federale di Taranto chiamò a rapporto tutti i gerarchi per
parlare della lotta contro gli ebrei “confermando che dovrà essere combattuta
ogni forma di pietismo”. Si diffondeva intanto il pamphlet di Telesio Interlandi Contra Judaeos e il volume curato da Paolo Orano, Inchiesta
sulla razza che “divenne il testo di
riferimento per tutti i razzisti antiebraici nostrani”. Faceva la sua parte
anche l’antigiudaismo di matrice cattolica con il canonico grottagliese don Giuseppe
Petraroli, che denunciava la pericolosità di un sionismo messianico di
“carattere massonico-ebraico-bolscevico”. Secondo Terzulli è nel saggio di padre Primaldo Coco, Gli
ebrei: popolo errante, che si attua la
saldatura tra l’antisemitismo fascista e il tradizionale antigiudaismo
cattolico (13). L’ultimo capitolo del libro, dedicato all’istituzione
scolastica, è quello in cui maggiormente si dispiega il volume di fuoco della
macchina propagandistica, un dispositivo reticolare del coinvolgimento con
agenti iperattivi come il dirigente della scuola elementare “Virgilio”, Angelo
Iurlaro, e l’ispettrice scolastica Maria Luigia Quintieri. Alla caduta del
fascismo nessun operatore scolastico incappò in pesanti sanzioni epurative.
Docenti dell’ “Archita” hanno ricordato come, all’indomani dell’Armistizio, ci
volle qualche giorno per strappare materialmente le pubblicazioni
compromettenti prima che arrivasseo gli inglesi (14).
Con
un libro come questo Franco Terzulli ha piantato il piccolo paletto di cui lo
storico dispone per sabotare la fabbrica della dimenticanza organizzata, per
arginare la nostra facilità nel rimuovere, glissare, evitare di fare i conti:
cinquantamila italiani ebrei consegnati a Hitler, centinaia di migliaia di
soldati italiani mandati a morire per i campi di Europa, decine di migliaia di
sloveni, etiopi, greci ammazzati in casa loro. Una spia dell’Ovra in ogni
caseggiato e oppositori in galera, oppure braccati e uccisi, certamente non
mandati “in vacanza” come qualcuno ha dichiarato incautamente. Lo stesso orrore
per le foibe, tombe di migliaia di italiani innocenti, produce falsa coscienza
se si omette di ricordare che senza il fascismo, l’invasione della Slovenia, le
atrocità contro i civili, quella orribile rappresaglia non ci sarebbe mai
stata. Gli “italiani brava gente”, invasori con obiettivi dichiarati di
supremazia etnica, hanno sempre evitato accuratamente di guardarsi nel fondo
dello specchio nero. Per questo il “rimosso” ritorna, si risveglia quel razzismo che “giace in fondo agli animi
come un’infezione latente” (Primo Levi) e tocca allo storico riprendere
l’eterno lavoro di Sisifo.
NOTE
1) “S’affaccia
alla ribalta una piccola cerchia di storici della città, interessati
soprattutto al passaggio tra Otto e Novecento. La piccola ‘scuola’ esordisce
due o tre anni fa con un libro di Roberto Nistri, Cafoni, arsenalotti e
galantuomini, sulla formazione della classe
operaia tarantina attorno all’industria bellica del periodo post-unitario. Un
libro ben fatto, che finisce con lo stimolare una pubblicistica di memorie,
alcune interessanti, altre meno, ma in ogni caso un segno di movimento rispetto
al passato. Una buona sorpresa. Ecco per esempio i saggi di Nistri, di Piero
Massafra, di Piero Mandrillo, di Alessandro Di Stasi, riuniti in un libro
pubblicato con i contributi del Centro Siderurgico, del Comune e della Regione:
La città al Borgo - Taranto tra ‘800 e ‘900, la prima rievocazione organica di quel periodo, la
nascita dell’Arsenale, l’apertura del Canale navigabile, le scoperte
archeologiche di Luigi Viola, le prime lotte operaie”. Purtroppo, quando
venticinque anni dopo l’editore Mandese ha coraggiosamente ripreso lo sviluppo
di quella collana, proponendo un’opera monumentale in due tomi, Taranto
dagli ulivi agli altiforni, questa edizione
(un unicum nel suo genere) ha
ricevuto più attenzione a Bari, nel quadro di una giornata di studi per la
“Teca del Mediterraneo”, che non a Taranto. Come si dice, i tempi sono
cambiati.
2) La
documentazione completa del progetto è reperibile nella rivista “Astolfo”,
luglio-agosto 1990, pp. 31-35. Nello stesso fascicolo, cfr. V. JACOVINO, La
tradizione dell’antifascismo jonico e A.
ANZOINO, L’indagine storica sulla Taranto pre-italsiderina. La rivista “Astolfo”, ricca di contributi storiografici
ma priva di una qualsiasi pubblicità o altro supporto, ha vissuto nel 1990 la
sua gloriosa ma breve stagione, nel tentativo di raccogliere l’eredità della
decaduta cooperativa culturale “il Caffè”, che a partire dal 1980, con Cafoni
arsenalotti e galantuomini e L’assenteismo
operaio, aveva promosso gli studi sul
territorio. Il progetto del Centro di ricerche storiche venne nel 1989
recuperato dal Capogruppo del Pci alla Provincia, Tommaso Anzoino, ma non se ne
fece niente; cfr. La Provincia per l’istituzione d’un Centro di
ricerche storiche, in “tarantoprovincia”, maggio 1989, p.15. Il cippo
posto in memoria di “Capitan Pietro” ha intanto perso la sua epigrafe.
3) Sono
dolenti note anche per l’archivistica del sindacato, la cui storia a Taranto è
stata ben più rilevante e interessante di quella dei partiti politici: rimane
vergognosa la vicenda di una palazzina risanata a regola d’arte nella città
vecchia, destinata ad ospitare un centro studi sul lavoro nel mezzogiorno, e
mai neanche inaugurata. In occasione del centenario della Cgil, la Camera del
Lavoro di Taranto ha meritoriamente promosso non un’iniziativa propagandistica
ma un’ampia ricerca storica: Un cammino lungo cent’anni (a cura di Roberto Nistri e Massimo Di Cesare, con
prefazione di Adolfo Pepe e presentazione di Giovanni Forte, Roma, 2006).
Sull’onda del successo dell’iniziativa, per la prima volta è stato progettato
un archivio informatico ma, passati i primi entusiasmi, sembra che l’iniziativa
si sia arenata.
4) Cfr.
G. G. CARDUCCI, Una rivista di storia municipale, in “Astolfo”, cit., p. 39. Il lavoro sul territorio presupponeva un
impegnativo dibattito, sviluppatosi a partire dall’edizione einaudiana della Storia
d’Italia (con interventi come quelli di
Romanelli e di Villani che invitavano ad un forte recupero della microstoria
come correttivo del dominante impianto storicistico, senza incappare ovviamente
nella subcultura del gossip e del
folklore identitario) e da seminari come quello di Ariccia: cfr. G. D’AGOSTINO
- N. GALLERANO - R. MONTELEONE, Riflessioni su “storia nazionale e
storia locale” , in “Italia contemporanea”,
n. 133, ottobre-dicembre 1978 e Storia nazionale e storia locale a
confronto. Il seminario degli Istituti, in
“ Italia contemporanea”, n. 136, luglio-settembre 1979. Un fondamentale punto
di riferimento per le ricerche di storia locale nel centro sud, è da
considerarsi N. GALLERANO (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, Milano 1985, al quale collaborammo con un nostro
saggio sulla crisi dell’industria navalmeccanica a Taranto. Non mancarono nel
1989 contributi nell’editoria
tarantina, volti a problematizzare l’oscillazione tra sintesi globale e
microanalisi, da R. NISTRI, Educazione civica, storia locale,
metodologia della ricerca, in “Galaesus”, n. XI a R. ANTONUCCI (a cura di), Ricerca
storica ed analisi del territorio,
Atti del primo seminario di studi sulla didattica della storia, con contributi di D. Bellarosa Graziano, G.
Esposito, P. Massafra, A. Mignogna, F. Terzulli.
5) Il
catalogo “Siam liberi in fine…” Fonti documentarie sulla nascita delle
Repubbliche democratiche del 1799
a Taranto e nel suo territorio è stato
curato, per l’Archivio di Stato di Taranto, da Maria Alfonzetti, Cosma Chirico,
Ornella Sapio e altri. Il Quaderno del Centro Calamandrei L’albero
della libertà a Taranto nella rivoluzione napoletana del 1799, con testi di Girolamo Addeo, Vittorio De Marco,
Piero Massafra, Roberto Nistri, Ornella Sapio, è stato curato per le Edizioni
Archita da Roberto Cofano e Carlo Petrone. Il Quaderno dell’Ufficio Studi e
Programmazione del Provveditorato agli studi di Taranto Più tiranno
alcun non v’ha… Le rivoluzioni
del 1799 nel territorio di Taranto è stato
curato da Francesco Terzulli (con la collaborazione della dottoressa Elisabetta
Rizzo). Sono raccolti i testi di Antonio De Francesco, Vittorio Zacchino,
Vittorio De Marco, Alfredo Anzoino, Domenico Blasi, Rosario Quaranta, Orazio
Santoro, Alberto Carducci, Roberto Nistri.
6) Cfr.
Breve guida alla Mostra documentaria La Repubblica napoletana del 1799, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici -
Biblioteca Nazionale di Napoli, Rionero in Vulture (Pz), 1992, p.10. Come è
noto, su questa come su altre
tematiche cruciali della storia nazionale, non si può ancora parlare di memoria
condivisa. Il revisionismo più fegatoso e malintenzionato, in occasione delle
celebrazioni, produsse una copiosa pubblicistica:cfr. R. GUARINI, La
rivoluzione napoletana? Non c’è
mai stata, in “Panorama”, 14 gennaio 1999
(l’autore non fa alcuna menzione della spietata reazione guidata dal cardinale
Ruffo, forse convinto che non ci sia stata neanche quella); si veda anche
l’anonimo 1799, l’anno terribile visto dalla parte degli sconfitti, in “Il Foglio”, 21 luglio 1999 (ci si accanisce
contro la “ storiografia ufficiale di stampo liberal-marxista prima e liberal-
progressista poi”). Non mancarono quanti inalberarono cartelli con la scritta
“giacobini assassini” davanti al San Carlo: una tipica forma di autolesionismo
antipartenopeo e anti-italiano, alla quale replicò A. ROVERI, Ultime
notizie dal revisionismo: era tutta colpa dei napoletani, in “L’Unità”, 21 gennaio 1999.
7) Cfr.
il capitolo Il serraglio degli ebrei in
C. RENDINA, La vita segreta dei papi,
Roma, 2008, pp.196-202; M. PIRANI, I nuovi seguaci di “ Viva Maria”, in “la Repubblica”, 25 luglio 1999, che ricorda come
la Rivoluzione avesse liberato dai ghetti gli Ebrei, poi trucidati dalle truppe
sanfediste. Anche a Taranto un demologo ha esaltato la religiosità popolare di
bande come i “Viva Maria” aretini, massacratori di ebrei a Siena e Senigallia
(R. CAVALLO, Fu un 1799 di prodigi,
in “Corriere del Giorno”, 6 gennaio 2007. Certe antipatie sono state espresse
dal giornale anche in altre occasioni: D. ALLEGRETTI, Il Natale
dell’usuraio, in “Corriere del Giorno”, 24
dicembre 1970, è citato in A. DI NOLA, Antisemitismo in Italia, Firenze 1973, p. 94 e in G. CAPUTO, Il pregiudizio antisemitico in Italia, Roma, 1984, p. 95). Per quanto riguarda le
antinomie dell’emancipazione ebraica nella cultura europea fra ‘800 e ‘900,
cfr. il capitolo Shylock in H.
MAYER, I diversi, Milano, 1978,
pp. 295-434.
8) Si
vedano i suoi saggi presenti nell’opera collettiva Taranto dagli ulivi agli
altiforni (a cura di Roberto Nistri,
Taranto 2007): nel tomo primo Occupanti, alleati e profughi
(1943-1965) e nel tomo secondo La scuola a Taranto tra ricostruzione e
accesso di massa (1944-1965); cfr.
anche Archivi e storia locale in Ricerca storica ed analisi del
territorio (a cura di Roberto Antonucci),
Taranto 1989; Taranto 1940: La Marina Militare e lo “spirito
pubblico”, in AA.VV., Bari e la
Puglia negli anni della guerra
1940-1945, Bari, 1995; AA. VV., Don Milani, il maestro (a cura di F.T.), Grottaglie 2001; Detour
- Il circolo della scrittura.
L’omaggio a Totò Rizzo di Roberto Nistri,
in “Cenacolo”, 2007; Giuseppe Ettorre e l’ “Archita”, in “Galaesus”, XXXII, 2009; Il
Liceo-Ginnasio statale “Archita”
di Taranto negli anni di Luca Claudio: dal fascismo alla democrazia (1930-1955) in “Cultura § Innovazione”, 2007; I presidi e il
Sessantotto nelle scuole di Taranto, in
“Cultura § Innovazione”, 2009.
9) L’impossibile
emulsione. Una città al tempo delle leggi razziali, Bari, 2009.Come
sconcertante esempio di riduzionismo o di negazionismo valga la
seguente trattazione in un testo di 230 pagine: “Uno degli
aspetti del problema razziale è quello relativo agli ebrei. A Taranto, si viene
a sapere, ce n’è una quindicina, ma si tratta di persone perfettamente
integrate che non danno perciò
alcuna preoccupazione” (G.
ACQUAVIVA, Il ventennio fascista a Taranto, Taranto 1998,
pp.153-154). Innumerevoli sono
ormai gli studi di Terzulli sulle persecuzioni antiebraiche, su forme e luoghi
d’internamento fascista, nonché sulla presenza di ebrei e di slavi in Puglia
nel Novecento: Internati ebrei a Masseria Gigante, in “Riflessioni. Umanesimo della Pietra”, Martina
Franca 1990; Internati slavi ed ex fascisti, in “Riflessioni…”, 1991. Il campo di
concentramento per ebrei a Gioia
del Colle (agosto 1940 - gennaio 1941),
Fasano 1992; Le internate di Alberobello, in AA. VV., La Puglia terra di frontiera, Bari, 1998; Fascismo e leggi razziali in
Puglia (1938-43), 1999; Terra di frontiera (1943-1954), 2000; Una stella fra i trulli. Gli ebrei
in Puglia durante e dopo le Leggi
Razziali, Bari 2002; La casa
Rossa. Un campo di concentramento ad Alberobello, Milano 2003; Elisa Springer, una memoria
femminile della Shoa, in “Galaesus”, XXX, 2006; 1986-1987: Primo Levi da salvato a sommerso, in “Galaesus”, XXXI, 2007.
10) “L’Italia varò un
sistema normativo antiebraico che era il più articolato dopo quello tedesco
e
che conteneva alcune specifiche norme (ad esempio quelle di inizio
settembre decretanti l’espulsione degli stranieri ebrei dal paese) maggiormente
persecutorie di quelle vigenti in quel
momento in Germania”; M. SARFATTI, Gli ebrei nell’Italia fascista, Torino, 2007, p.156.
11) Il 10 settembre 1938,
nell’editoriale I giudei a Taranto, il
gufino Giovanni Acquaviva diede corpo per primo all’antiebraismo “a ritroso”,
seguito a ruota da padre Francesco Ruggieri, mussoliniano di ferro, con il
saggio Gli ebrei a Taranto nell’epoca pagana e in quella cristiana e da Giuseppina Summo, che presentava l’espulsione
degli ebrei dall’Italia meridionale come “l’affermazione dei valori morali e
storici della razza ariana che…aveva dato prove non dubbie della sua avversione
contro i rappresentanti del popolo deicida”.
12) Nicola Pende tenne a
Taranto, il 22 aprile 1939, una conferenza sulla Politica fascista della razza
agli ufficiali dell’Ammiragliato. Nel maggio del 1940, in un altro discorso
tenuto a Taranto, egli dichiarò: “è lo spirito ebraico che può nuocere allo
spirito della nostra razza; anche pochi semiti possono inquinare la vita di
tutta una nazione”. Al firmatario del Manifesto della razza vennero risparmiati
i rigori dell’epurazione, anzi “acute” indagini appurarono che quel truce
Manifesto non lo aveva firmato nessuno! Pende tornò ad insegnare all’Università
grazie anche all’appoggio di alti prelati, come quelli che nel 1950
certificarono la miracolosa “trasudazione” del “Cristo”, cioè una macchia su
una parete di casa Pende, “ritoccata” come ammise lo stesso dottore. Un altro
scienziato ben accolto nei salotti e nelle parrocchie tarantine (grande
organizzatore nel ’48 dei Comitati Civici) era il “genetista” Luigi Gedda, fattosi conoscere a Taranto nella
seconda metà degli anni ’30, quando sosteneva la legislazione fascista contro
il meticciato. Nel dopoguerra si legò agli ambienti dell’antropologia
“razziale” nord-americana e a campioni della medicina ex nazista come Otmar von
Verschuer, il “maestro” di Mengele.
13) “…il Duce, facendo eco
al sentimento unanime dei popoli civili, ha voluto epurare l’Italia nostra
dalle influenze malefiche di questa gente, su cui pesa ancora, dopo millenni,
la riprovazione del Cristo” , in “Voce del Popolo”, 8 ottobre 1938. Il 26
novembre il gufino Acquaviva, in Internazionale ebraica sulla “Voce del Popolo”, illustrava il falso
documento Protocolli dei “savi anziani” di Sion per giustificare i provvedimenti “opportunamente
presi nei riguardi dei Giudei”. In fondo le leggi razziali si presentavano con
uno strano alone di familiarità, di poco differenti da quelle che la Chiesa
stessa aveva applicato: il gerarca Farinacci aveva buon gioco nell’evidenziare
tali affinità e, del resto, la Chiesa non propose mai l’abrogazione di tali
leggi, neanche dopo la caduta di Mussolini; cfr. D.I. KERTZER, I papi contro gli ebrei. Il ruolo del Vaticano
nell’ascesa dell’antisemitismo moderno,
Milano 2002, pp. 279-307. Cfr. anche il capitolo Santa sede e
opinione pubblica cattolica di fronte all’antisemitismo
e alle legislazioni razziali in G. MICCOLI,
I dilemmi e i silenzi di Pio XII,
Milano 2000, nonché il capitolo Gli atteggiamenti cattolici verso gli
ebrei prima dell’Olocausto in M. PHAYER, Il
papa e il diavolo, Roma 2008. Il
cattolicesimo esoterico di Erich Peterson portava addirittura ad imputare il
mancato avvento del Regno al cocciuto rifiuto degli Ebrei di convertirsi in
Cristo.
14) Cfr. F. TERZULLI, La
scuola a Taranto tra ricostruzione e accesso di massa, cit., pp. 55-56. Nella sua ricerca Terzulli, in
linea con la critica di Emilio Gentile al banalizzante modello interpretativo
della “dittatura da operetta” (“partito della pagnotta”, secondo la definizione
dell’Arcivescovo di Taranto Guglielmo Motolese) funzionale alla rimozione del
totalitarismo e all’autoassoluzione delle ex camicie nere, ha posto in evidenza
la serietà tremenda di una strategia di invenzione-costruzione del “nemico”
inquinatore. L’agente impuro risulta minaccioso per una comunità idealizzata
come pura, che conseguentemente
ricorre a dispositivi di bonifica e disinfestazione. Il
fascista si presenta sempre come “ uomo delle pulizie”: parafrasando Marinetti,
“Shoa, sola igiene del mondo”.
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