lunedì 1 aprile 2013

Terra del grano, terra della vigna


TERRA DEL GRANO, TERRA DELLA VIGNA
Il circondario di Taranto dalla crisi protezionistica all’inchiesta di Errico Presutti (1887-1909)
di Roberto Nistri



© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa

1. Le zone dei granai

            Nella sua relazione del 1909 (1) il delegato tecnico Errico Presutti articolava opportunamente la sua analisi del circondario di Taranto distinguendo due zone: il Mezzogiorno del grano e il Mezzogiorno degli alberi (nei borghi rurali era presente anche una protoindustria casalinga che lavorava la materia prima del territorio: lino, canapa, lana, cotone). La prima zona, a nord-ovest di Taranto, si presentava come “granifera” ed era la continuazione di quella lunga striscia di territorio che cominciava sull’Adriatico, in Abruzzo, estendendosi su tutta la parte centrale della provincia di Foggia, sulla parte occidentale della provincia di Bari, per finire sulla costa settentrionale dello Jonio. Tale zona del circondario (la Provincia di Taranto doveva essere costituita solo nel 1923) comprendeva i comuni di Mottola, Castellaneta, Laterza, Massafra, Palagiano, Ginosa e Taranto. Ricorrevano tutti i caratteri propri della grande azienda granifera esistente nelle province di Foggia e di Bari:  centri abitati scarsi di numero ma popolosi, malaria diffusa, coltivazione prevalente di cereali.  Su un pulviscolo di piccolissime aziende provenienti dalla quotizzazione di antichi demani incombevano gigantesche concentrazioni terriere: “In questa plaga domina la grande proprietà, un solo proprietario possiede 9.500 ettari, un grande oliveto a Palagianello conta 13.000 piante, quello di proprietà della Casa Reale di Spagna a Ginosa si dice conti 35.000 alberi” (2). Era in genere modesta la coltura della vite, più ampia quella dell’ulivo.
            Per maggiore dinamicità si segnalava la produzione granaria, che già nel corso degli anni Settanta doveva misurarsi con la concorrenza dei grani americani: l’introduzione nella grande coltura delle prime macchine e di sistemi più razionali portava la conseguente crisi dei massari e dei piccoli affittuari, determinando un lento ma costante cambiamento nel sistema di gestione delle grandi aziende da una parte e dall’altra a una sensibile corrente di emigrazione transoceanica, indice della rovina progressiva e irreversibile dei piccoli fittuari e proprietari colpiti dalla concorrenza e troppo poveri per ammodernare i sistemi di coltivazione dei loro fondi: “Quelli che non hanno adottato sistemi più razionali di coltivazioni sono stati colpiti dalla crisi determinata dall’azione combinata di due fattori; la diminuita fertilità della terra spossata dalla antica rotazione; la concorrenza della grande coltura che, con l’uso delle macchine e di meno irrazionali sistemi di coltivazione, produce il grano con un costo di produzione minore”(3).
            Secondo le statistiche del Presutti, in tutti i comuni della zona in questione il prodotto lordo
delle piccole e medie aziende era in forte diminuizione come pure il prezzo dei terreni; era invece in aumento il debito fondiario che spingeva all’inurbamento o all’emigrazione. Se nell’ultimo scorcio dell’Ottocento un padronato redditiero e parassitario investiva con parsimonia nel ciclo produttivo (“molti fondi rustici rimangono incolti e quel che più conta anche inseminati per difetto di denaro liquido necessario alla coltivazione e all’acquisto delle sementi, giacchè la produzione di cereali in genere è stata pessima e manca totalmente il prodotto oleario”) (4) alla fine del primo decennio del Novecento gli agrari mostravano ancora riluttanza a un vero e proprio investimento capitalistico: “Un vero miglioramento e sfruttamento della zona granifera si avrebbe solo con un grande impiego di capitali, soprattutto di capitale fisso, ma generalmente i proprietari preferiscono attuare quei miglioramenti che si ottengono col capitale circolante”(5). Per esempio, nei comuni di Ginosa, Castellaneta e Palagiano “la profondità del terreno permetterebbe accurate coltivazioni, ma queste da molti vengono trascurate; da alcuni per mancanza di mezzi da altri per indolenza, dagli uni e gli altri per ignoranza”(6). I rapporti economici sono ormai schiettamente capitalistici, ma la mancanza di risorse e la generale ignoranza dei proprietari fa sì che il profitto sia legato esclusivamente al livello bassissimo dei salari e anche la produttività del lavoro resta ai livelli minimi: “Noi soffriamo non soltanto dello sviluppo della produzione capitalistica ma anche della deficienza del suo sviluppo”(7).


2. Le alterne fortune del vigneto


            Nella sostanza, le stesse condizioni sono riscontrabili nella seconda zona del circondario, quella che si estende a sud-est di Taranto, lungo la costa orientale dello Jonio, fiancheggiata da una linea di piccole colline che finiscono nei comuni di Avetrana e Maruggio. Mentre nella parte nord-occidentale vi sono grossi comuni, scarsa densità di popolazione e un movimento di colonizzazione relativamente recente, qui invece la colonizzazione è stata più antica, la popolazione  è molto densa e dislocata in villaggi relativamente piccoli, la proprietà è sufficientemente ripartita. I comuni di questa zona sono: Montemesola, Grottaglie, Montejasi, S.Marzano, Carosino, Monteparano, S.Giorgio, Fragagnano, Roccaforzata, Manduria, Sava, Faggiano, Pulsano e Leporano. La prima coltura è stata quella dell’ulivo, ma l’alta densità della popolazione ha reso possibile il diffondersi della viticoltura che tuttavia, impiantata su un suolo prevalentemente calcareo e roccioso, si attesta su livelli modesti di produttività. Nei comuni più vicini alla costa “dominano le grandi proprietà e le grandi aziende insieme alla malaria: la cerealicoltura, praticata nel modo più primitivo, invece del vigneto”(8). Soprattutto ad Avetrana e Maruggio domina la grande azienda granifera a coltivazione estensiva, ma si coltiva anche tabacco nel manduriano e cotone nel grottagliese. La rete dei comuni è a maglie strette: non sono soltanto dei dormitori contadini, ma centri residenziali e di servizio di una popolazione agricola che mantiene stretti rapporti con la terra: il contadino, il piccolo proprietario o affittuario o compartecipante si tengono prossimi alla terra (vite o colture intensive). Le abitazioni sono prevalentemente ad un piano, di tipo unifamiliare, per lo più di due vani, di cui uno accede alla strada e l’altro, alle spalle, dà talvolta sull’ortale, piccolo pezzo di terra in cui si coltiva un po’ di verdura e in cui spesso si trova il gabinetto. Nei centri maggiori vi sono abitazioni a più piani. Nella zona orientale prevale, nella costruzione della casa contadina, la volta a botte con terrazzo sovrastante e leggermente sporgente.
            L’introduzione della viticoltura su larga scala (grande richiesta dall’estero di un robusto vino da taglio per conferire consistenza ai vini deboli, a partire dal 1878 l’esportazione italiana superava i 500 mila ettolitri, quadruplicando in un triennio)  produsse alla fine dell’Ottocento una piccola rivoluzione, data una impiantazione fortemente diversificata da comune a comune, pur trattandosi di insediamenti vicinissimi. A Sava e Manduria la vigna è stata impiantata col sistema dell’enfiteusi nei terreni più rocciosi e difficili, in economia nei terreni più buoni. I canoni di enfiteusi erano molto alti, spesso doppi e anche tripli del reddito che la terra dava quando era adibita a pascolo: “Su questi terreni rocciosi la vigna dà al più 40 quintali di uva ad ettaro, di guisa che, tolte le spese per le materie anticrittogamiche, il lavoro che il contadino impiega per la coltivazione della sua vigna, può valutarsi sulla base di 60 o 70 centesimi giornalieri”(9). Molto poco quindi, meno di quanto si sarebbe guadagnato andando a giornata come bracciante (fino a lire 1,40 per i lavori di vigna e fino a 2,25 per la mietitura). Malgrado gli scarsi guadagni, i contadini mostrarono tuttavia grande attaccamento al loro lotto di terra, a costo di sacrifici pesantissimi. L’attività enologica richiedeva  anche una certa attrezzatura meccanica e si sviluppava un’industria delle botti, dei fusti e dei tini. La tariffa del 1887 scatenò tuttavia una guerra doganale soprattutto con la Francia che doveva pesantemente penalizzare la viticultura pugliese, rendendo difficile rimborsare le banche dei prestiti in scadenza, con conseguente cacciata dal fondo dei coloni non in grado di versare il canone pattuito. Si apriva così la prima grande stagione dell’emigrazione.
            Malgrado i “contratti capestro” i contadini conseguirono dall’enfiteusi almeno due vantaggi: poter lavorare, sia pure a tasso minimale, nei giorni di disoccupazione, e far lievitare il prezzo dei salari (raddoppiati fra il 1902 e il 1909). Negli altri comuni della zona, compreso gran parte del comune di Taranto, il vigneto venne impiantato parte in economia, parte con la mezzadria a miglioria e, in piccola parte, col fitto a miglioria di 22 o di 29 anni. Questa trasformazione non ha fatto comunque emergere un ceto seriamente imprenditoriale con l’introduzione di una tecnologia avanzata, tanto da poter determinare un significativo tasso di accumulazione. Indice esemplare di tale contesto è la quasi universalizzazione del “contratto a miglioria”, istituto definito dal liberale Tammeo “offesa al senso morale e scherno alla civiltà del nostro secolo”. Contratti “indegni di un popolo civile, perché da parte del proprietario dimostrano un vampirismo senza nome”(10).


3. L’anomalia martinese


            Per completare il quadro del circondario di Taranto bisogna approfondire il caso di Martina Franca, uno dei più grossi centri agricoli di tutta la Puglia che solo in parte può essere assimilato ai comuni della zona viticola. Si presenta come componente della cosiddetta “zona della popolazione sparsa” che caratterizza alcuni comuni della provincia di Bari: Noci, Alberobello, Locorotondo, Cisternino e Fasano (questi due ultimi faranno parte della provincia di Brindisi, creata nel 1927). A Martina la coltura della vite prese l’avvio nel 1880, in concomitanza con la crisi della viticoltura francese distrutta dalla fillossera: una grande trasformazione derivante dalla frantumazione di parte dei latifondi con l’individualizzazione della proprietà. La natura del suolo, prevalentemente roccioso, scoraggiò l’impianto in economia per carenza di capitale, ma anche il contratto a miglioria a scadere del quale il colono non avrebbe realizzato alcun guadagno, data la gran quantità di lavoro impiegata per sistemare il suolo. Questa condizione determinò la diffusione dell’enfiteusi nella sua forma più pura : un contratto che prevedeva un pagamento dilazionato in quote e che non costringeva l’assegnatario a caricarsi di debiti per l’acquisto del fondo. All’atto della concessione i proprietari, oltre a liberarsi degli oneri fiscali, si assicuravano un’apprezzabile rendita in denaro e percepivano anche un premio tanto elevato da rappresentare spesso il valore del fondo. Da parte loro i contadini, con l’accesso alla proprietà della terra, realizzavano un sogno secolare, passando da un’economia di sussistenza a un’economia di mercato, trasformando la città agricola (agrotown) in parte integrante di una più vasta organizzazione territoriale comprendente anche “altre” campagne e “altre” città (A. Marinò). Malgrado momenti di crisi come la diffusione della peronospera nel 1895, nel giro di pochi anni si assiste ad un cambiamento radicale del paesaggio martinese: da colline rocciose e disseccate nasce uno dei più bei giardini di tutta la Puglia. La superficie delle colline viene spianata togliendo i massi più grossi e riempiendo le buche. Dove il pendio è troppo ripido si costruiscono terrazze con muri di rinforzo, indi si sparge gran quantità di terra presa dalla pianura. Ogni enfiteuta costruisce sul suo fondo la casa, il caratteristico “trullo” o le “casedde” e vi si impianta con tutta la famiglia, per cui la campagna diviene la più popolosa di Puglia.
            Nel 1909 a Martina Franca su 28.000 ettari di terreno ben 10.000 sono adibiti alla viticoltura. Questi 10.000 ettari sono frazionati fra 8.000 enfiteuti con una produzione annua di 300.000 ettolitri di vino al prezzo medio di lire 10 (11). Il comune diventa così quello con reddito medio per abitante più alto della regione. Quasi ogni contadino è diventato piccolo proprietario e non si può più imporre loro e nemmeno patteggiare il salario per il lavoro a giornata: sono infatti gli stessi contadini che la domenica, sulla piazza principale del paese, stabiliscono in base alla richiesta di lavoro la cosiddetta “ partita”, cioè il prezzo del salario per tutta la settimana (12). Si tratta di una condizione del tutto eccezionale nel generale panorama di indigenza e di sottosviluppo che determina il passaggio dalla protesta violenta del brigantaggio a quella silenziosa dell’emigrazione.  Sarà proprio questo carattere distintivo a fare di Martina un’oasi distaccata dal resto del circondario di Taranto: la lotta politica non giungerà ad esprimersi in un aperto conflitto di classe, rimanendo chiusa nei tradizionali schemi di competizione fra fazioni locali, con toni e modi di gran lunga più blandi rispetto alle gravi tensioni caratterizzanti il resto della regione. Per esempio, un’insurrezione a Ruvo nell’inverno del 1894 costò 30 anni di lavori forzati per 32 rivoltosi, mentre a Ceglie Messapica nell’aprile del 1903 si sviluppava un’ impetuosa battaglia per “pane e lavoro”, con l’occupazione di Piazza Plebiscito. Il governo rispose inviando sul posto 150 uomini armati (13).


4. Dal primato della masseria alla nuova azienda agricola


            Si tratta ora di cogliere, pur nella varietà delle situazioni precedentemente descritte, alcuni elementi generalizzanti di tipo socio-economico che possano conferire unitarietà al complesso territoriale preso in considerazione. Ponendo fra parentesi l’incidenza di alcuni fattori (emigrazione interna, permanenza di condizioni malariche, periodico imperversare della fillossera, variabili rapporti fra braccianti, fittuari e proprietari)  la masseria cede il passo alla grande azienda capitalistica e si distingue nitidamente un processo di differenziazione  tendente a semplificare la gerarchia sociale nelle due figure dell’ imprenditore e del salariato, con la progressiva scomparsa della media e piccola proprietà tradizionale (ferma restando l’eccezione di Martina Franca). Si aggiunga un tratto ricorrente nella dimensione meridionale: anche nel tarentino, all’indomani dell’unità, il grande accaparramento di terre da parte di commercianti e professionisti aveva lasciato quasi intatto il patrimonio terriero nobiliare, costituendosi quasi esclusivamente a scapito dei beni ecclesiastici e demaniali. Se la penetrazione crescente dell’economia mercantile dissolve progressivamente legami e rapporti socioeconomici di tipo precapitalistico, d’altra parte la nuova borghesia agraria tende ad omogeneizzarsi con la vecchia classe egemone di origine feudale, assumendone i valori e i costumi, persino quelli più antiborghesi come il vivere staccati dalla terra, l’ostentare disinteresse per i propri possedimenti, il rifiutare la prospettiva di investimenti produttivi, del resto scoraggiati da una cronica penuria di capitali.
             Quanto all’incidenza della proprietà nobiliare nel patrimonio terriero del circondario, abbiamo già fatto cenno alle grandi estensioni olivetate della Casa Reale di Spagna nei comuni di Castellaneta e Ginosa: la famiglia di origine feudale che possiede la maggiore estensione di terre è quella dei D’Ayala-Valva, una delle quindici famiglie nobili dotate dei più grandi patrimoni terrieri d’Italia (14). Le loro tenute si estendono nella zona granifera ma soprattutto in quella viticola (S.Giorgio, Monteparano, Carosino, Montejasi e Montemesola, arrivando sino al circondario di Lecce). Famiglia di grande prestigio, costituisce una significativa frazione del personale politico locale e anche nazionale: il conte Pietro, deputato per Taranto nel primo decennio del ‘900, è membro della sottogiunta per l’inchiesta sui contadini nelle province meridionali (membri della sottogiunta sono il conte Pietro D’Ayala-Valva, il conte Girolamo Giusso e il prof. Domenico Porri: due nobili su tre).
            Al di là del peso specifico della proprietà nobiliare, importa cogliere la sua osmosi, al livello di modello culturale e pratica amministrativa, con la nuova proprietà borghese. Questa borghesia viene  a configurarsi più come “terriera” che “agraria”, concepisce la rendita fondiaria come possibilità di condurre una vita oziosa o di svolgere attività nell’avvocatura o nella pubblica amministrazione. Ancora nel 1947 sarà facile denunciare come “nel campo delle professioni gli intellettuali salentini si dedicano con preferenza, per forza di tradizione, senza la visione della realtà contingente, agli studi letterari, agli studi legali e di medicina, risultando ancora molto pochi coloro che esercitano la professione di agronomo o altre professioni tecniche connesse all’agricoltura”(15). L’atteggiamento di estraneità verso la terra e il lavoro produttivo è consolidata: ancora nel 1936, secondo le statistiche di Vincenzo Ricchioni, si rilevano dati sbalorditivi sull’assenteismo dei proprietari (16). Certamente vanno considerati i forti condizionamenti oggettivi che sottendono tale atteggiamento “culturale”: determinanti sono la scarsezza dei capitali e il difficile accesso al credito.
            La Banca d’Italia e il Banco di Napoli concedono solo grossi crediti a cui pochi possono accedere. Nascono  Banche popolari e Società Cooperative di Credito ma, oltre ad essere del tutto insufficienti come numero, molte di esse rimangono presto inattive per scarsa liquidità . I consorzi agrari sono rari e con modesto capitale azionario (17) e un’altra strozzatura deriva dal miserando sistema di comunicazioni: le strade, poche e in pessime condizioni, sono poco più che viottoli, tanto che nei mesi invernali è un’impresa ardita avventurarsi anche sulle strade provinciali Taranto-Lecce e Taranto-Pulsano, che collegano la maggior parte dei paesi della zona viticola. Qualunque scambio risulta limitato, anche fra comuni limitrofi (18). Intanto, sullo sfondo nazionale, va sempre più divaricandosi il livello di produttività agricola del Nord rispetto al Sud: “La produttività globale cresce al Nord fra il 1900 e il 1913 del 2% l’anno, contro l’1% delle regioni dell’Italia centrale e meridionale. Ma, se fosse possibile una maggiore disaggregazione dei dati…quell’1% della produttività globale risulterebbe media di un valore più alto per il Centro e di uno ancora più basso per il Mezzogiorno” (19). Il sottolineare la deformazione specifica del capitalismo agrario meridionale non deve far dimenticare che sempre di capitalismo si tratta, di un processo che nel tarentino come altrove distrugge impietosamente le basi stesse di un vecchio mondo contadino, statico e patriarcale, che vede assottigliarsi la fascia dei medi proprietari non coltivatori, proletarizzarsi ampi settori di contadini poveri, diffondersi su larga scala il lavoro salariato (20).


5. Il contadino: una figura “ibrida”


            Tende ormai a formarsi quel pulviscolo piccolo borghese che sarà travolto dal cataclisma della guerra e del dopoguerra. Già sul finire degli anni Dieci una schiera di avvocati “paglietta”, medici, professori di lettere e burocrati, vede ridursi i margini di una indipendenza economica nel passato garantita dalla rendita fondiaria: “il ribasso dei prezzi d’affitto ha raggiunto il massimo oltre il quale il proprietario tornerebbe al pascolo naturale”(21). Nel contempo, alla base della piramide sociale, si delinea una sempre più ampia fascia di salariati agricoli: già nel periodo 1896-99 “la crisi generale del Mezzogiorno e l’accentuarsi della differenziazione capitalistica provocarono nella zona a cavallo fra le province di Lecce e di Taranto la formazione di un numeroso proletariato agricolo”(22). Tutto il circondario di Taranto, come le province di Bari e Foggia, era ormai “terra di salariati”, pur considerando che venivano qualificati come tali anche coloni e piccoli fittuari costretti ad arrotondare il loro magro bilancio ricorrendo al lavoro a giornata: ancora una combinazione di vecchio e nuovo (figure ibride fra giornalieri e terrazzieri) che non faceva emergere nitidamente la figura del “bracciante classico” in “rottura con il mondo contadino e che ha la consapevolezza di essere ormai ‘tagliato fuori’ ”(23). Al di là delle differenze, costituiva un fatto determinante la presenza di una massa imponente di contadini espulsi dalla terra, “liberi”, solo parzialmente riassorbibili nella grande azienda capitalista, il cui processo di formazione su larga scala s’inceppava periodicamente.
            La gravissima crisi che colpiva il Mezzogiorno e la provincia di Lecce nei primi anni del secolo determinava fra il 1900 e il 1904 condizioni di vita al di sotto della sussistenza: i contadini si chiudevano nelle loro stamberghe e si lasciavano morire oppure cercavano di entrare in carcere per non soffrire la fame (testimonianza del 1902 di Vito Lefemine e intervento alla Camera di Codacci Pisanelli nel 1903). In un primo tempo, l’emigrazione transoceanica si presentava come l’unico mezzo per scampare alla fame e ridurre l’intollerabile pressione della “sovrappopolazione aritificiale”. Ad essa si accompagnava una forte emigrazione interna stagionale dalla zona viticola a quella granifera, da questa spesso nel Foggiano (24). Considerando l’aumento dei prezzi e la decadenza dell’economia domestica, le condizioni di vita non conoscevano grandi miglioramenti. Nel 1908, a causa della siccità, “la situazione del proletariato pugliese - scriveva l’ ‘Avanti!’ del 13 settembre - è tale da mettere i brividi…E’ la fame che strazia e turba i cervelli”. Da un’inchiesta svolta dai carabinieri nel 1909 e riportata dal Presutti, risultava una generale malnutrizione nel circondario: la dieta consisteva in un chilo di pancotto di orzo (“frisa”) con sale e olio al mattino e la sera una minestra di legumi, condita con poco olio, certo non sufficiente per fronteggiare la malaria. Su 133 comuni della provincia di Lecce, 119 erano infestati dalla malaria con 23.000 vittime l’anno (25).
            La situazione si aggravava proprio nei centri ove, per lo sviluppo dell’azienda capitalistica, venivano attratti operai agricoli dai paesi vicini e si assisteva a vere e proprie invasioni stagionali (26). Più che la tradizione ribellistica, più che l’ostilità alle istituzioni, è la resistenza allo sfruttamento la leva di una maturazione sociale. E’ proprio in queste zone ad alta concentrazione bracciantile che la insubordinazione sociale è più elevata, radicalizzata dalla irriducibile ostilità degli agrari: “I proprietari resistono tenacemente; abituati alla lunga e tradizionale sottomissione del contadino, non sono ancora persuasi che i contadini sono uomini come loro e temono che questa massa amorfa ed oscura di proletari insorga in qualche sanguinosa jacquerie, uccidendo, depredando, saccheggiando, devastando… D’altro canto, se l’aumento dei salari e la diminuizione delle ore di lavoro danneggiano finanziariamente i proprietari, quel certo spirito d’indipendenza che i contadini hanno acquistato in seguito alle agitazioni, la tenacia, spesso un po’ brutale, con cui difendono i loro diritti e domandano il rispetto delle clausole contrattuali, irrita profondamente i proprietari”(27).


6. Protosocialismo e leghismo


            Alla preistoria dell’organizzazione delle classi subalterne appartiene la figura dell’anarchico Guglielmo Baldari, collaboratore de “la Plebe” e organizzatore nel 1873 della Federazione Operaia Tarantina, con affiliazione nelle campagne e nei paesi vicini. Legato al gruppo degli “internazionalisti” di Errico Malatesta, partecipò al progetto insurrezionale dell’estate del 1874, incentrato su Taranto, ove Malatesta fece pervenire un centinaio di carabine. I tarantini si mostrarono poco favorevoli all’iniziativa, per cui il concentramento di tutti i “sovversivi” della regione venne dirottato  presso Castel del Monte. Gli “anziani” Cafiero (28 anni) e Malatesta (21 anni) si attendevano 4.000 combattenti ma dovettero accontentarsi del Baldari (19 anni) con altri quattro compagni di ventura. I contadini si guardarono bene dall’appoggiare un’armata così meschina e il sogno di una “città del sole” nascente attorno al magico Castello di Federico si spense nelle carceri di Taranto e di Trani. Nel 1877 Baldari fondava con altri due anarchici, Pompeo Lorea e Luigi Borghetto, alcune Società di Mutuo Soccorso e nel 1881 dava vita alla Fratellanza Anarchica Comunista Rivoluzionaria Italiana. Costituì una Camera del Lavoro che chiudeva i battenti nel 1887 e si trovava a partecipare nel 1893 alla fondazione della Federazione socialista provinciale tenutasi a Galatina. In quell’occasione spiccava la figura del ginosino Eduardo Sangiorgio, avvocato di Taranto, città dove un primo sciopero si era già registrato nel 1887 e si irrobustivano associazioni come la Lega dei Ferrovieri e la Società Operaia degli arsenalotti. Nel 1902 Sangiorgio fondava cooperative di contadini e di braccianti a Taranto e a Solito. Nell’aprile del 1898, l’anno peggiore per il rincaro dei prezzi e le tasse sul bestiame, durante i tumulti per il pane che determinarono disordini a Ginosa (gennaio),  Manduria e Statte (febbraio) e Grottaglie (marzo) - a Bari veniva devastato l’ufficio della polizia municipale e l’esattoria, e bruciati il Municipio e i casotti daziari; malgrado 500 arresti, lo sciopero generale obbligava le autorità ad abolire totalmente il dazio sul pane -  a Sangiorgio si affiancava il giovane Odoardo Voccoli, che prese a gareggiare con Pompeo Lorea nell’organizzazione cooperativistica (28). All’inizio di secolo il movimento operaio tarantino era già robusto mentre il mondo rurale, pur attraversato da forti movimenti di protesta, da Maruggio (proteste bracciantili nel settembre del ’99) a Faggiano (lavori abusivi con preteso pagamento di 75 centesimi), da Sava a Manduria,  da Castellaneta a Mottola (nel gennaio 1901 a Pulsano i braccianti invadono le proprietà del medico condotto e del sindaco, pretendendo una lira, che viene pagata dal medico ma non dal sindaco Brindisino, che fa arrestare tutti) fatica ad organizzarsi sindacalmente (29).
            Nel 1908 si contano in Puglia 73 leghe con 70.042 soci. Nel circondario di Taranto si contano solo tre leghe: a Castellaneta con 100 iscritti, a Palagiano con 150 e 400 a Manduria (dove i braccianti e i piccoli coltivatori, organizzati nel Partito socialista, conquistano il Comune nel 1907, esempio unico nella provincia assieme all’appena nato comune di Palagianello). Ma l’organizzazione, gestita essenzialmente dai sindacalisti rivoluzionari, assume presto un ruolo di punta nella provincia di Lecce. Al congresso regionale di Spinazzola dell’8 marzo 1908, di tutto il Salento risultano presenti solo i rappresentanti di Castellaneta e Palagianello. Al convegno di Barletta del 9 novembre partecipano, unici rappresentanti della provincia di Lecce, Pompeo Lorea di Taranto e Paolo Lerario, segretario della Lega di Castellaneta,  che nell’anno successivo organizzerà, congiuntamente con i lavoratori di Palagianello, una manifestazione per il 1° Maggio sfociata in scontri con i carabinieri e 24 arresti. Ancora al congresso di Bari dell’11 agosto 1914, unico partecipante della provincia leccese è Davide Lange, capolega di Palagianello (30). Se altrove si diffonde il modello socialriformista padano, in Puglia le Leghe devono fronteggiare un padronato agrario che non ammette alcuna forma di compromesso tra le parti sociali: due mondi contrapposti e in mezzo non c’è nulla (31). Nelle Leghe pugliesi, non esistendo un’alternativa riformista al crudo schema della lotta ci classe, “l’identificazione dei braccianti, dei contadini, dei lavoratori precari e dequalificati con l’organizzazione è così profonda e completa da trasfondere sovente nella Lega l’insieme della cultura, dei valori, dei sentimenti di estraneità e di diversità che queste masse avevano verso i galantuomini, i signori, i padroni, le istituzioni pubbliche e i loro rappresentanti, dal delegato di polizia al carabiniere, dal magistrato al prete, dal politico all’intellettuale e al giornalista. La Lega è una realtà alternativa perché nasce e agisce in totale rottura con il sistema economico, politico e culturale dell’ambiente circostante nel quale opera”(32).

NOTE

1)    Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini delle province meridionali e della Sicilia. Puglia, vol.III, tomo I, relazione del delegato tecnico prof.  E. PRESUTTI, Roma 1909. Per un inquadramento complessivo: AA. VV., La provincia di Taranto, Taranto 1992; C. D. FONSECA (a cura di), La Provincia di Taranto tra l’Occidente e il Mediterraneo, Taranto 1997. La prima configurazione amministrativa della provincia di Terra d’Otranto si ha con la legge 8 agosto 1806 n.132 (promulgata da Giuseppe Napoleone) sulla divisione e amministrazione delle province del Regno di Napoli, che veniva diviso in 13 province a loro volta ripartite in distretti. La provincia di Terra d’Otranto con capoluogo Lecce comprendeva i distretti di Lecce, Taranto e Mesagne; nel 1813 veniva istituito anche il distretto di Gallipoli. Il decreto del 2 febbraio 1861 estendeva alle province napoletane la legge del 23 ottobre 1859 sulla amministrazione comunale delle province del Regno, lasciando inalterata la ripartizione borbonica e introducendo i circondari al posto dei distretti, comprendenti un certo numero di comuni. Confinante con la provincia di Bari, i mari Adriatico e Jonio e la Basilicata, la provincia di Lecce si estende, con una costa lunga 446 chilometri, su una superficie di 685.205 ettari: di essa Taranto e il suo circondario saranno parte integrante sino al 1923 (istituzione della provincia di Taranto, detta dello Ionio fino al 1951); cfr. C. DE GIORGI, La provincia di Lecce, Lecce 1919.  Sembra che proprio gli abitanti di Taranto siano, per consuetudine, i meno “educati all’agricoltura”, tanto che molte opere campestri “non si eseguono per nove decimi che da forestieri. Che se una metà sola di tante opere si eseguisse da’ Tarentini, quante migliaia di ducati, che in ogni anno si gittano fuori, non verrebbero a diminuire, anzi, a distruggere la loro povertà?” (C. NITTI, Della povertà in Taranto e de’ mezzi per mitigarla, Napoli 1857, p. 23; sul progetto nittiano di un Istituto Agrario, cfr. L. D’IPPOLITO, Le carte di Cataldo Nitti, Manduria 2005, p. 46).
2)     E. PRESUTTI, op. cit. pp. 249-250. Agli inizi degli anni ’60 del XIX secolo i ceti dominanti pugliesi avevano vissuto l’ultimo periodo di “un ciclo espansivo, che aveva avuto nello sviluppo della cerealicoltura e in parte della viticultura i suoi punti di forza. Dovunque l’ondata di dissodamenti aveva distrutto enormi estensioni di boschi, soprattutto nella fascia collinare e murgiana interna” (L. MASELLA, La Puglia contemporanea in AA. VV., Storia del Mezzogiorno, vol. XV tomo II, Foggia 1994, p. 609. Per una visione complessiva: Le trasformazioni socio-economiche nel Mezzogiorno ed in Puglia, in AA. VV. Il movimento socialista e popolare in Puglia dalle origini alla Costituzione 1874-1946, vol. I, Bari 1985, pp.11-14).
3)    E. PRESUTTI, op. cit., p. 251; cfr. anche A. L. DENITTO, La crisi agraria in Terra d’Otranto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del ‘900, in AA.VV., Mezzogiorno e crisi di fine secolo, Lecce 1978;  A. CORMIO, Note sulla crisi agraria e sulla svolta del 1887 nel Mezzogiorno in AA. VV., Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, Bari 1981. Questo peculiare modo di produzione agricola ha potuto godere, durante il quindicennio di governo della Destra, di una congiuntura sostanzialmente favorevole, con sostenuta richiesta del mercato e ascesa dei prezzi. Ma le cose sono cambiate radicalmente negli anni della Sinistra: a seguito delle importazioni di grano americano o russo la produzione granaria nazionale è entrata in crisi, ma hanno perso colpi anche la coltura dell’olivo e dei legumi e anche l’allevamento del bestiame. Si è  registrato un momentaneo sviluppo del settore viticolo, ma solo grazie alla fillossera che ha distrutto i vigneti francesi (cfr. L. DE ROSA, Tra liberismo e protezionismo, in  AA. VV., La Puglia e il mare, Milano 1984, p. 278). I produttori d’olio, vino, seta grezza, frutta e ortaggi rimangono ostili a qualsiasi dazio d’importazione, fidando nel libero mercato. Ma le pressioni dei grandi produttori di grano, meglio organizzati, determinano il varo di una politica protezionista volta ad avvantaggiare la coltura settentrionale del riso, delle barbabietole da zucchero e della canapa, nonché la cerealicoltura del nord e del centro, con una caduta secca dell’esportazione del vino. In Puglia rimangono salde le rendite derivanti dalla pigra cerealicoltura estensiva, ma la polarizzazione fra le “due Italie” si accentua irrimediabilmente ( cfr. E. CORVAGLIA, Dall’Unità alla I guerra mondiale, in AA. VV., Storia della Puglia, vol. II, Bari 1979, pp. 142-143).
4)    “ La Voce del Popolo”, 13 ottobre 1899. Le scelte di politica economica operate dalla Sinistra con la tariffa protezionistica del 1887 avevano contribuito indubbiamente ad accentuare la pressione sull’economia salentina in bilico tra arretratezza e trasformazione. Paradossalmente il settore più “moderno” rappresentato dalla viticultura, al momento della rottura doganale con la Francia, si presentava come il  più vulnerabile: venne posto un argine proprio dai settori arretrati come la granicoltura e le colture di sussistenza. Cominciava comunque a diffondersi una seria preoccupazione sullo “stato dell’arte”. Nel quadro di una valutazione pessimistica, sempre sotto il segno della “emergenza”, per la modesta competitività dei prodotti (l’olio di Massafra, molto pesante e di acidità alterna, aveva un buon mercato solo in Russia per le lampade votive) si suggeriva: “non vi ha che tre rimedi o meglio temperamenti: 1. Migliore rotazione agraria, ossia, dove è possibile, la sostituzione di piante miglioratrici; 2. Ricerca d’ingrassi che nel nostro caso è dire concimi chimici; 3. Evoluzione dall’arte rurale (vorremmo dir mestiere) alla scienza agraria” ( R. D’AYALA VALVA, Sogni e visioni, Taranto 1896, p. 24). Ma le forze democratico-borghesi (in genere avvocati che si trasformano in “politici di professione”) intendono “la loro opposizione alla politica moderata nazionale come semplice conquista dei posti pubblici e della direzione degli enti locali, come affarismo e municipalismo fusi insieme” (A. PEPE, La vita politica meridionale e i movimenti di massa, in AA. VV., Storia del Mezzogiorno, vol. XII, Foggia 1994, pp. 208-209). Ancora illuminanti le parole di Giustino Fortunato, scritte al Villari nel ’75: “Democrazia sì, ma nel significato spartano: democrazia per gli uomini e non per gli iloti: e qui gli iloti sono appunto i contadini” (ivi, p.213). Quei contadini che riprendono sempre da capo il loro travaglio di “formiche”: “La Puglia deve la sua rigenerazione economica, tutta la trasformazione agricola a questi cafoni, ai contadini, ai proletari, ai pezzenti, ai veri figli della terra, nulla o quasi ai proprietari” (G. Tammeo).
5)    E. PRESUTTI, op. cit., p.737. Nella zona occidentale resiste più a lungo il latifondo e l’unità produttiva di base rimane la classica masseria. La popolazione tende ad addensarsi in pochi grossi centri, non sempre prossimi ai luoghi di lavoro. Vi sono importanti elementi abitativi secondari: i sassi (particolarmente diffusi presso Ginosa e Laterza ma anche presenti ad oriente nella zona di Grottaglie) sono abitazioni scavate nella roccia, per lo più nell’arenaria tufacea. I lamioni (presenti in tutto il circondario) sono tuguri ad un solo vano, di forma quasi sempre quadrata. Caratteristica della fascia occidentale è anche la gravina, profondo solco del rilievo murgiano e premurgiano.
6)    Ivi, p. 250. A Mottola la distruzione degli ultimi ettari di bosco, sfuggiti fino allora all’accetta, apparve ai Duchi di Sangro la soluzione migliore per mantenere inalterati i livelli delle entrate. Il sistema usato, per giunta, quello di “capitozzare gli alberi” , ne impedì la crescita prima di trent’anni: “il danno alle condizioni ambientali del luogo fu enorme”; L. MASELLA, La difficile costruzione di una identità (1880-1980) in AA. VV., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Puglia, Torino 1989, p. 295, n. 26.
7)    Lettera di Engels a Turati del 26 gennaio 1984, citata in E. SERENI, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Torino 1975, p. 84. “I latifondisti numericamente sono un’infima minoranza, e per tenersi su hanno bisogno dei voti della piccola borghesia…I due alleati si distribuiscono da buoni amici il terreno da sfruttare; i latifondisti si prendono il Parlamento e la piccola borghesia lavora nei consigli comunali”; G. SALVEMINI, Movimento socialista e questione meridionale, Milano 1973, p. 82.
8)    E. PRESUTTI, op. cit., p. 260. Nelle terre di Sir James Lacaita, la viaggiatrice Janet Ross nel 1887 ha annotato : “Gli utensili agricoli sono assolutamente primitivi: la vanga è sconosciuta e tutto il lavoro viene fatto a mezzo di una corta zampa ricurva. La terra e le pietre vengono trasportate, come in Egitto, in panieri sovra una spalla, ed ogni paniere contiene sino a una quindicina di palate di terra. Invano cercai di convincere un contadino a Leucaspide della convenienza di usare piuttosto una carriola pel trasporto del materiale; egli trovava che la cosa era ‘troppo complicata’, e concluse con questa teoria conservatrice: ‘I nostri vecchi hanno sempre usato il paniere; se era buono per loro, sarà buono anche per noi’. L’aratro, pesante solo otto o dieci libbre, consiste in due stanghe ricavate da due esili tronchi di olivo o di leccio, tagliato rusticamente con una accetta, che a mala pena scalza la terra… Nessun solco per l’irrigazione delle acque; solo delle conche o fosse scavate intorno ad ogni albero di ulivo o di carrubo, per riunirvi ‘acqua benedetta’ quando piove”. La Ross rimane affascinata dalla ballata della “Pizzica-pizzica”, con accompagnamento di violino, chitarra battente, tamburello e cupa cupa. Su questa tradizione musicale nel tarantino, cfr. C. PETRONE (a cura di), La Taranta da Taranto e dintorni, Taranto 2002.
9)    Ivi, p. 261. Vedi la caratterizzazione del piccolo  proprietario  in V. ROBLES, Il movimento cattolico pugliese (1881-1904), Bari 1981, pp. 31-32. Nell’agosto del 1902 a Manduria, per eseguire lavori di scasso per l’impianto della vigna, un proprietario offriva al massimo 60 centesimi giornalieri: “Siccome coloro che si offrivano erano moltissimi, dichiarò che non avrebbe accettato se non giovani robusti con non meno di 20 e non più di 30 anni di età” (E. PRESUTTI, op. cit., p. 261). E’ in tali condizioni che scoppiarono i gravi tumulti del 6 agosto, nonostante la mediazione dei socialisti Cosimo Palumbo e Ignazio Scalinci ( il primo costituì la sezione socialista di Manduria nel 1901 organizzando nel 1902 due leghe di contadini e muratori; partecipò al congresso tenutosi a Brindisi nell’ottobre 1905 e collaborò al quindicinale “La Fiaccola” pubblicato a Manduria fra il 1906 e il 1907 mentre il secondo, unico rappresentante pugliese eletto membro della Direzione socialista nel congresso di Roma del 1906, divenne sindaco di Manduria nell’agosto 1907); cfr. A.S.L., Pref., Gab., Cat. 28, Fasc. 3530, rapporto del sottoprefetto di Taranto in data 2 gennaio 1902; A.C.S., Min.Int., D.G.P.S., Gab. 1903-1905, b. 37, fasc. 72, Lecce. Partito Socialista, Rapporto del prefetto in data 24 ottobre 1905; F. PEDONE (a cura di), Il Partito Socialista Italiano nei suoi congressi, vol. II (1902-1917), Milano, 1961, p.77. Durante un comizio le forze dell’ordine spararono sulla folla affamata provocando alcuni feriti e 51 arresti tra cui alcune donne, “le più ardite e audaci”. Il prefetto, per evitare la moltiplicazione dei tumulti, impegnò i proprietari a dar lavoro per 75 centesimi al giorno; A.S.L., cit., fasc. 3350, lettera del 9 agosto 1902; cfr. anche I fatti di Manduria, in “Corriere Meridionale”, Lecce, 14 agosto 1902 e “Il Riscatto”, 15 gennaio e 1 febbraio 1903.
10) A. TAMMEO, I contratti agrari e la crisi pugliese, Napoli 1890, p.113; cfr. E. CORVAGLIA, Dall’Unità alla I guerra mondiale … cit., pp. 138-140. Tammeo proponeva una sorta di “compartecipazione”, ancora in chiave filogiacobina, attraverso il riconoscimento del diritto al risarcimento delle migliorie apportate dal lavoro contadino( cfr. L. MASELLA, op. cit., p. 297; anche F. BUONERBA, Le condizioni economiche e sociali della provincia di Lecce, in “La provincia di Lecce”, 1 maggio 1904.  Permane la concordia discors fra l’economia viticola e quella cerealicola: coesistono mantenendo un contrasto irriducibile che “dominerà la società pugliese per quasi un trentennio, fino a dar luogo a schieramenti politico-sociali contrapposti (‘progressista’ quello vinicolo, ‘conservatore’ quello granario)”; A. CORMIO, Le campagne pugliesi nella fase di transizione (1880-1914) in La modernizzazione difficile, Bari 1983, p.149.
11) Cfr. E. PRESUTTI,  op. cit., p.138. Nel 1901 su 25.287 abitanti ben il 30, 50% vive in campagna e la proprietà, secondo i dati del Presutti, risulta così ripartita: 1. grande proprietà (in media 350 ettari a corpo) = 19%; 2. media e piccola proprietà (in media 37,9 ettari a corpo) = 17%; 3. piccolissima proprietà (in media 2,8 ettari a corpo) = 64%. Sulle costruzioni a trullo, cfr. N. SANTORO, La sua casa è la terra, in “Quotidiano”, 30 agosto 1984. Progressivamente Taranto verrà parzialmente sostituita, nella sua funzione urbana e commerciale, da Martina nel suo rapporto con Bari e da Manduria nel rapporto con Lecce.
12) Ivi, pagg.137, 138, 143. Cfr. M. PIZZIGALLO, La vita pubblica a Martina nell’età liberale, Fasano 1973 e Uomini e vicende di Martina, Fasano 1986. I lavoratori della terra si costituiscono in Associazione Agricola nel 1881 ad opera del ricco possidente Domenico Casavola ma, del tutto controllato dai proprietari, il sodalizio si esaurisce senza alcun costrutto. Fortuna non diversa hanno la Società costituita nel 1890 dai figheriani e quella costituita dai grassiani nel 1891. Tali associazioni, a partire dalla Società operaia di M.S., sono strumentalizzate da due fazioni della consorteria liberale, l’una facente capo ad Alessandro Fighera (i “crumiri”) e l’altra a Paolo Grassi ( i “pipistrelli”) : una violenta faida paesana durata mezzo secolo, nella quale si trovano coinvolti anche socialisti e cattolici; cfr. A. MARINO’, Il movimento operaio e la questione agraria in un comune del Sud (Martina Franca 1872-1930), Fasano 1978, pp. 31-40. Memorabile la zuffa nel giorno di Pasqua del 1884: il Pipistrello Colucci venne pugnalato alle spalle mentre il Krumiro Bello ebbe la giacca forata da uno dei cinque colpi di revolver che erano stati esplosi; Cfr. “Rinnovamento”, 12 giugno 1884; A.S.L., Cat. 28, tutto il Fasc. 2735 , Martina Franca 1884/85 ordine pubblico è relativo ai disordini avvenuti il 13 aprile 1884. Un tale contesto non propizia il superamento della diffidenza tra i lavoratori della città e quelli del contado, per cui allo stesso Presutti “risulta che a Martina non vi sono associazioni di mutuo soccorso cui partecipano i contadini né vi sono cooperative tra contadini”.
13) Cfr. P. MITA, Rosso Novecento, Lecce 2008, p.75. Città di tumulti era Massafra: una prima protesta avvenne nel 1873, per la mancata assegnazione di terre demaniali da parte del sindaco Scarano, ma più grave fu la rivolta del 27 luglio 1884 per la mancata esecuzione di opere pubbliche previste da un lascito testamentario; il Municipio venne incendiato da operai e artigiani che cercarono anche di liberare i carcerati dalle prigioni ( cfr. “Il Propugnatore” del 3 agosto 1884) . Un’altra sommossa avvenne il 26 marzo 1903 per lo sgravio delle imposte daziarie dato il mancato raccolto oleario: 9 soldati vennero feriti e il capo guardia campestre salvò la pelle a stento; cfr. “ La Voce del Popolo”, 2 aprile 1903 e anche il nostro Promesse elettorali, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 23 maggio 1985. Un altro tumulto per questioni di tasse: La sommossa di Laterza, in “La Voce del Popolo”, 1 gennaio 1893. A Grottaglie i contadini zappavano nei fondi senza autorizzazione, inducendo il Municipio a deliberare lavori urgenti. Anche nella borgata di Talsano i contadini si recarono nel fondo del signor Amelio, il quale chiese l’intervento dei carabinieri. Il conflitto venne sedato dal Delegato Sindaco Monaco, che fece lavorare i contadini nei suoi fondi; cfr. La fame!! , in “La Voce del Popolo”, 6-7 maggio 1893.
14) Cfr. E. SERENI, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Torino, p. 93. Le relazioni tra proprietari e contadini non esprimevano  una libera economia di mercato, ma i tratti di una società autoritaria, segnata dal dominio personale di grandi e medi possessori di terra sul resto della popolazione. Pochi attrezzi e qualche scorta di sementi bastavano a mandare avanti estesi possedimenti grazie a contratti misti di colonia e di piccolo affitto e di breve durata.
15) N. MARIANO, La potenzialità economica e finanziaria del Salento, Lecce, 1947, p.72. Più che la ricerca di nuovi capitali si incrementava lo sfruttamento del lavoro contadino mediante i vecchi contratti di miglioria. Del resto negli anni ’80 erano circa 10.000 gli avvocati e i procuratori e quasi altrettanti i laureati in legge sparsi nelle amministrazioni, mentre l’università sfornava solo 1.500 laureati all’anno e giustamente Nitti la definiva una “fabbrica di spostati e faziosi… che non hanno nulla di ciò che occorre per produrre”; in L’Italia all’alba del secolo XX, Torino-Roma 1901, pag. 192 e 200.
16) Cfr. V. RICCHIONI, L’economia dell’agricoltura pugliese, Bari, 1940, p.196. Mancava un processo di diffusione su vasta scala di più aggiornate rotazioni colturali, l’introduzione di nuove sementi, l’impiego di attrezzi meccanici e di concimi, un miglioramento dei servizi e delle infrastrutture agricole.
17)  Il consorzio più importante, fondato a Manduria nel 1901, nel 1913 conta solo 495 soci con un capitale azionario di 29.050 lire e un fondo di riserva di 52.060 lire (cfr. N. MARIANO, op. cit., p.121). Le sterili annate di fine ‘900, fra fillossera e peronospera, innalzamento dei dazi e dei trasporti, riducono a mal partito i piccoli produttori, non riuniti in Società di alcun genere (“La Voce del Popolo”, 13 ottobre 1899; F. MARZANO, Le condizioni economiche della Provincia di Lecce, Lecce 1903, p. 5 e 7). L’unica fonte di credito continua ad essere costituita dagli usurai, che impongono tassi di interesse da un minimo del 25% (i “generosi”) a un massimo del 120% (le “iene”) (cfr. “ La Voce del Popolo”, 24 giugno 1900, 29 gennaio 1909, 13 marzo 1913). A Massafra sembra più conveniente il servizio offerto dalla Cassa di  Prestanza Agraria (1879) che prestava soldi dietro un corrispettivo di pegno in oggetti d’oro, argento e rame (valutati per l’80% del loro valore) o titoli e cambiali con un interesse del 6%. La pratica dell’usura, per l’alto incremento assicurato, immobilizza comunque capitali consistenti, scoraggiando un loro possibile impiego nell’agricoltura.
18)  La “cattiva viabilità” viene indicata come un serio impedimento per l’economia mercantile dalla “Voce del Popolo” del 2 gennaio 1901, ma durante tutta l’età giolittiana non si riscontrano significative migliorie. Solo nel 1914 verrà aperta la linea ferroviaria Taranto-Bari, ma ancora nel 1948 mancherà un collegamento ferroviario con Taranto per 18 comuni su 27; cfr. N. D’AMMACCO, Il commercio in terra ionica, Taranto 1948, p.11. Una testimonianza di carrettieri palagianesi in AA.VV., Tasselli di storia palagianese, Manduria, s.d., p.109 : “Tra la fine di giugno e i primi di luglio, quando maturava il pomodoro, poiché non c’era possibilità di vendita in loco, essendoci anche molta produzione, due o tre volte la settimana, portavo carichi di pomodoro a Taranto. Di solito partivo con il mio carico di cestoni verso la mezzanotte, per essere al mercato verso le quattro del mattino. I cestoni li legavo, non solo con funi, ma anche con fili di catene…costituivano l’antifurto di oggi”. Il canto dei trainieri costituiva un autentico “paesaggio sonoro” di voci lanciate in sequenza, un “gancio acustico” che legava incitazioni agli animali e formule di saluto ai passanti; cfr. M. AGAMENNONE, Musiche tradizionali del Salento, Roma 2005, pp. 56-57.
19) V. CASTRONOVO, in Storia d’Italia, vol. IV, tomo I, Torino 1975, p.143. Questo contesto rende più comprensibile il costante processo di uniformazione della nuova borghesia pugliese al modus vivendi della vecchia classe proprietaria: “la borghesia agricola meridionale era, insomma, un ceto sociale ben diverso - per attitudini imprenditoriali, per relazioni con il mercato o per supina acquiescienza ad anacronistici contratti di locazione delle terre - dalle classi medie che nelle campagne del Nord si stavano facendo avanti negli stessi anni, grazie all’ammodernamento dei metodi produttivi e ad autentiche capacità innovatrici” (ivi, p. 57).
20)  Acuta è la diagnosi del Presutti: “in fondo è tutto un mondo che crolla, tutta un’antica concezione della vita che scompare. I medi proprietari che hanno costituito e costituiscono tutt’ora la classe dominante non hanno saputo per la maggior parte adattarsi al nuovo sistema di vita. L’intensificarsi dei bisogni, l’aumento dei salari li riducono alla rovina. In realtà le loro risorse sono sempre state molto limitate, oggi sono disperate. Essi potrebbero salvarsi ad una condizione sola, quella di scendere di un gradino la gerarchia delle classi sociali, tornando ad essere proprietari coltivatori. E’ un sacrificio di vanagloria, il più doloroso per uomini del Mezzogiorno e quindi non lo fanno. Essi saranno travolti dalla crisi”; E. PRESUTTI, op. cit., p.738.
21)  Ivi, p. 254. Già prima del conflitto questi ceti si presentano come “fossili sociali”, indeboliti anche nel tradizionale ruolo di “controllo personale” che esercitavano sui contadini all’interno del vecchio blocco agrario: tende ad alterarsi anche la tradizionale funzione “intermediaria” rispetto all’apparato statale, nei cui confronti si manifesta una crescente ostilità. Parlando proprio della zona tarantina, dove la classe dei medi proprietari “tende a sparire”, il Presutti annota come sia “diffusissima la convinzione che il Governo voglia la fine della media proprietà” (ivi, p.166) e ancora:”Moltissimi pensano che, per i proprietari contro i contadini, sia il Re, il quale sarebbe come prigioniero del suo Governo… e uno di essi, rammentando che il Re a Catania si era interessato di un tentativo di aratro automotore, interpretava questo interessamento del Re non come un interessamento per una cosa che costituirebbe un grande progresso della tecnica agricola, ma sibbene come un interessamento del Re per le sorti dei proprietari nelle lotte che costoro sostengono contro i lavoratori!”(ivi, pp. 604-605). Il blocco agrario tradizionale visse la fine dell’età giolittiana come “un tramonto rapido e malinconico ma non privo di toni violenti che costituì anche il crepuscolo di un vecchio mondo provinciale ormai in disfacimento”; F. GRASSI, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Bari 1973, p. 6.
22)  E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne, Torino 1968, p. 336. Nella parte nord-occidentale del circondario, il bracciantato era diffuso anche da più tempo e comunque, nel 1909, la percentuale dei salariati giornalieri era del 63,80% nel circondario di Taranto contro il 64, 46% nella provincia di Foggia, il 60,88% nella provincia di Bari e il 57,37% in quella di Lecce. Nel Comune di Taranto la percentuale risultava la più elevata: l’88,31%; cfr. E. PRESUTTI, op. cit., pp. 275-276. Ciò che caratterizza il bracciante è la precarietà riguardo al tempo e al luogo di lavoro e al guadagno: 80 giorni di disoccupazione, minimo, più 60 giornate festive; precaria la sua abitazione; precario il suo cibo. Sarebbe una beffa parlare di rapporti sociali del bracciante: l’unico rapporto che egli conosceva era quello del mercato delle sue braccia, dove veniva considerato alla stregua di un animale”; V. ROBLES, op. cit., pp. 33-34.
23)  G. PROCACCI, La lotta di classe in Italia all’inizio del secolo XX, Roma 1970, p. 83. Nella zona granifera, nei comuni di Mottola, Castellaneta e Palagiano dove la proprietà è molto concentrata, la figura del salariato manteneva ancora qualche vincolo tradizionale con il padronato ma la sua mentalità evolveva già verso forme di indipendenza e di distacco. Nella zona viticola invece, con proprietà abbastanza ripartita e frequenti contratti a miglioria, il salariato tendeva a somigliare al “contadino senza terra”, cioè un ex contadino che aspirava a tornare tale riconquistando il pezzo di terra con un’eredità o con alcuni anni di migrazione in America . Diverse figure sociali - piccolo proprietario, fittavolo, mezzadro, giornaliero - potevano essere “ compresenti in una singola figura di lavoratore” ; G. C. DONNO, Il P.S.I. nel Mezzogiorno: note sulla organizzazione politico-sindacale (1900-1915) in Il movimento socialista e popolare… cit., p. 31.
24)  Il più illustre emigrante di Castellaneta è quel Rodolfo Alfonso Raffaele Pierre Filibert Guglielmi che, prima di diventare Rudy Valentino, frequentò la scuola d’asilo delle “signorine” Maria Ausilia e Concettina Perrone; cfr. A. MICCOLI, Andare a scuola a Castellaneta, Taranto 2006, pp.17-18 e anche A. MAFFEI, Sotto il segno di Valentino, in “Quotidiano”, 7 dicembre 1983; L. PANTALEO, Rodolfo Valentino, Taranto 1995; R. NISTRI, Alla corte di Rodolfo, in “Voce del Popolo”, 1 dicembre 2008. L’emigrazione esterna contribuisce a far lievitare i salari: stazionari intorno a una lira fino al 1901, nel 1908 raggiungono le 5 lire per lavori speciali in tempo di mietitura a Laterza, Castellaneta, Ginosa, Mottola e Taranto, per una giornata lavorativa di 10 ore; da 2 a 3 lire nella zona viticola e a Martina Franca con giornata lavorativa di 9 ore (cfr. E. PRESUTTI, op. cit., p. 325). L’emigrazione interna contribuisce a formare un livello più omogeneo di mentalità e di coscienza sociale: per esempio, “diminuiscono gli obbligati ad anno poiché i contadini preferiscono non obbligarsi per poter fruire di più alti salari, piuttosto che prendere un lucro sicuro più esiguo. Questa è una tendenza sensibile soprattutto nella zona granifera” (ivi, p. 286). A Massafra, all’inizio della stagione olearia, il “caporale” reclutava in piazza (la manodopera femminile veniva reclutata a domicilio) ma giungevano anche dal leccese centinaia di operai specializzati, chiamati li puoppete. I frantoiani sgobbavano da mattina a sera, lesinando anche sul riposo domenicale; cfr. P. CATUCCI, Frantoi ieri e oggi a Massafra, in “Voce Nostra”, dicembre 1962. Su questi spostamenti  informa “La Voce del Popolo” del 28 giugno 1901: “I nostri contadini, che fa ritorno dalla Calabria e dalla Basilicata, ci assicurano che in quelle regioni la raccolta del grano è stata così abbondante che…la capienza dei magazzini, per contenerlo è insufficiente… Soltanto dai comuni di Lecce, di Francavilla Fontana, di Taranto, di Lizzano, di Fragagnano, di Manduria e di Grottaglie, se ne sono recati a Bernalda, Pisticci, Ferrandina e Rotondella ben 1800!... Molti contadini…sono rimasti, preferendo i 16 soldi e il piatto, anziché la fame e la miseria”. Cfr. anche E. PRESUTTI, op. cit., p. 543 e p.706.
25)  Cfr. F. GRASSI, op. cit., p.102. I contadini mangiavano carne quattro o cinque volte all’anno (cfr. E. PRESUTTI, op. cit., pp. 480-481) stringevano la cinghia e, quando non c’era pane, qualcuno “nascondeva nel manilone (un ampio tovagliolo) una pietra al posto di una colazione. A questi poveretti toccava, a mezzogiorno, andarsene lontano dagli altri per celare, dietro un albero, la pietra della fame e della vergogna” (F. LADIANA, La pietra della fame, Massafra 1984, p. 90). Come cinicamente descrive l’Apostolico Orsini, “decine di migliaia di uomini cadono ogni anno in sofferenza, in prostrazioni, in fiacchezza, dando un minor rendimento al lavoro. A ciò si aggiunga il perturbamento, l’onere che porta a tutta la compagine sociale il trascinare tutta questa massa di malati, quasi tutti caduti in miseria, che ingombrano ospedali e ospizi e che ingrossano le schiere di accattoni; tutta una popolazione malata, infiacchita, che pesa materialmente e moralmente sulla regione” (G. APOSTOLICO ORSINI, Relazione illustrativa del bilancio della provincia di Lecce. Esercizio 1915, Lecce 1915, p. 57). Diffuse sono le epidemie di tifo, difterite, vaiolo, tubercolosi, che allignano in case ospitanti 7-8 figli ma anche animali da cortile e da soma, che sono “tuguri angusti, umidi e spesso anche sottoposti al livello stradale, nei quali ammassati in nauseante promiscuità, vivono individui odoranti di graveolenza della miseria e del luridume” (S. RICCIARDI, La malaria nel Mezzogiorno d’Italia, Bari 1915, p. 25. Febbri “miasmatiche” si registravano nella zona Cagiuni e nelle paludi di S. Brunone e Taddeo, mentre il fiume Tara, per un raggio di dieci chilometri fra Taranto e Massafra, generava paludi con febbre terzana e quartana; cfr. C. GALASSO, Febbri miasmatiche nel tarantino, in Taranto pel varo della “Puglia”, 18 settembre 1898).
26)  “In una stanza vive di solito l’intera famiglia e talvolta in certi periodi due o tre famiglie insieme, e sono rari gli esempi di case di due camere per una famiglia e rare le stalle adibite per gli animali. Ma ciò che è addirittura inconcepibile per una regione civile è quello di vedere in gran parte di essa esservi un numero considerevolissimo di abitazioni sotterranee e semisotterranee, malsane e nocive, ove si addensano le famiglie dei contadini coi rispettivi animali. L’aria e la luce non vi penetrano che per la porta, che sta mezzo al di sotto e mezzo al di sopra della strada; dalla quale si accede alla casa per mezzo di una scala di dieci o dodici scalini” ( E. PRESUTTI, op. cit., p. 498). Preoccupanti a Massafra gli indici di mortalità infantile (da 0 a 5 anni): indicavano mediamente il 50% delle morti totali con 209 decessi nel 1907. L’ufficiale sanitario Stefano Tramonte denunciava la precarietà delle condizioni igieniche: nelle case-grotte vi era un’unica apertura per l’aria e lo stesso lavatoio serviva per le bestie e le persone. In alcuni infelici tuguri “giacevano il tifoso, il tubercoloso, fra i lamenti e i panni sudici della puerpera”. Le molteplici infezioni erano tanto diffuse da creare preoccupazioni anche nei “palagi signorili”. Per le strade girava la carrizza che era un traino-botte, dove ogni mattina si svuotavano i cantri maleodoranti, che venivano riversati come concime negli orti di campagna ; cfr. F. LADIANA, op. cit, pp.16-17; E. PRESUTTI, op. cit., pp. 603-604.
27) Giustamente il Presutti parla nel contempo di “spirito d’indipendenza” e “massa amorfa ed oscura”: si tratta di una composizione proletaria che ha già dato prova della propria combattività e radicalizzazione, partecipando allo sciopero generale nel settembre del 1904 (cfr. R. DEL CARRIA, Proletari senza rivoluzione, vol. II, Roma 1975, p. 182) ma la coscienza sindacale e politica è ancora men che modesta; cfr. S. COPPOLA, Leghe contadine nel basso Salento, Lecce 1977; A. PEPE, Il sindacalismo pugliese nel primo Novecento, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Puglia, Torino 1989, pp.788-789. Non si tratta di una stabilizzata classe di braccianti agricoli quanto di un variegato ceto di giornalieri di campagna, spesso al contempo piccoli proprietari o conduttori di particelle fondiarie: “Sono le crisi congiunturali ricorrenti ad alimentare in queste aree la spinta associazionistica, che appare pertanto prevalentemente di carattere difensivo rispetto a magri livelli salariali ed occupazionali… Allorquando, invece, la congiuntura di mercato ritornava favorevole, la compagine proletaria si disgregava in una corsa all’acquisto o al fitto di piccole quote, finalizzate molto spesso al semplice sostegno dei consumi familiari” ; G. C. DONNO, Associazionismo e lotte sociali nel Mezzogiorno in G. CINGARI e S. FEDELE ( a cura di) , Il socialismo nel mezzogiorno d’Italia 1892-1926, Bari 1992, p. 323.
28)  Sul filone mitteleuropeo del socialismo pugliese, cfr. N. WRONA, Il socialismo made in Puglia, in “Quotidiano”, 18 maggio 1986. Su anarchici e socialisti: A. LUCARELLI, Guglielmo Baldari, in “Umanità Nova”, 14 marzo 1948; su Pompeo Lorea, R. NISTRI, Quell’impeccabile piemontese che “salvò” il Mar Piccolo, in “Quotidiano di Taranto”, 5 novembre 1982 e A.C.S., Casellario politico centrale, Fasc. 2836. Sia Baldari che Lorea furono iscritti alla Massoneria; cfr. A. MOLA, Massoneria e socialismo nel Mezzogiorno in G. CINGARI e S. FEDELE … cit. ;  A. LUCARELLI, Carlo Cafiero, Trani 1947, p. 46;  P.C. MASINI, Storia degli anarchici da Bakunin a Malatesta, Milano 1970, pp. 204-205; E. SANTARELLI, Il socialismo anarchico in Italia, Milano 1973; N. CIMAGLIA - M. SPAGNOLETTI, Dall’insurrezionismo anarchico alla crisi di fine secolo (1874-1900) in AA. VV., Il movimento socialista e popolare in Puglia dalle origini alla Costituzione 1874-1946, vol. II, Bari 1985; M. CANCOGNI, Gli angeli neri. Storia degli anarchici italiani, Firenze 1994, p. 39; Gli albori del socialismo nel Meridione  secondo i documenti dell’Archivio provinciale di Trani, in “Movimento operaio”, a. III, n.17-18, giugno-settembre 1951; G. TREVISANI, Il processo di Trani contro gli internazionalisti, in “Movimento Operaio”, a. VIII, n. 5, settembre-ottobre 1956; Archivio di Stato di Lecce, Prefettura Gabinetto, Cat.28, Fasc. 3480 e 3481. Sul partito socialista: C. PASIMENI, Sangiorgio Edoardo, in F. ANDREUCCI - T. DETTI, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, vol. IV, ad nomen e “Taranto oggi/domani”, 15 aprile 1978; C. G. DONNO, Classe operaia, sindacato e Partito socialista in Terra d’Otranto 1901-1915, Lecce 1981; C. G. DONNO (a cura di), Socialisti nel Mezzogiorno - Vito Mario Stampacchia e le lotte politico-sociali in Puglia nell’età giolittiana, Lecce, 1982, p. 64;  M. MAGNO, Galantuomini e proletari in Puglia, Foggia 1984; R. NISTRI - F. VOCCOLI, Sovversivi di Taranto. La vita e le battaglie di Odoardo Voccoli, Taranto 1987. Sull’associazionismo operaio e contadino: C. G. DONNO, Mutualità e cooperazione in Terra d’Otranto (1870-1915), Lecce 1982, p. 51; D. IVONE, Le società operaie di mutuo soccorso nella città meridionale nella seconda metà dell’Ottocento, in “Clio”, a. XVIII, 1982, n.2.
29)  Sui moti di Grottaglie, con 23 arresti; cfr. “La Voce del Popolo”, 17 marzo e 1 giugno 1898. Torpore a Taranto: “Troppa calma abbiamo noi altri del tarentino, che tutto sopportiamo in santa pace e che a tutti e a tutto ci rassegnamo. Qui la fame era ed è pur minacciosa e spaventevole, eppure non un lamento, non un clamore, non una protesta; tutto è silenzio, silenzio profondo e gelido” (“La Voce del Popolo”, 30 gennaio 1898).   Su Maruggio, A.S.L., Pref., Gab., Cat. 28, Fasc. 2762, 1899-1900, Maruggio. Ordine pubblico; su Faggiano, A.S.L. , cit., Fasc. 2758,1899, Faggiano, Ordine pubblico; su Pulsano, A.S.L., cit., Fasc. 3349, rapporto del sottoprefetto in data 25 gennaio 1901. Il sottoprefetto, segnalando l’attivissima propaganda” svolta dai socialisti tra gli operai tarantini, sottolinea il fatto che “ora si tenta di correre le frazioni ed i comuni agricoli per allargare le loro file fra i disoccupati ed affamati contadini… L’avvocato Sangiorgio spera in questo periodo di generale sconforto per mancanza di lavoro e per miseria di fare molti proseliti specie nei contadini ed a ciò tendono i suoi sforzi sia in Ginosa che a Massafra e Martina Franca” (A.S.L. Pref., Gab., Cat. 28, Fasc. 3530, rapporto del sottoprefetto in data 2 gennaio 1902). Il prefetto di Lecce esprime le sue preoccupazioni per i disordini derivanti dalla crisi agraria (A.S.L., Prefettura, Gab., Cat. 28, Fasc. 3347, telespresso al Ministero dell’Interno) e il sottoprefetto si era già attivato invocando sussidi governativi alle cucine economiche dei comuni e sollecitando i lavori di costruzione dell’ospedale militare e della caserma di artiglieria, per risollevare le condizioni “disagiatissime anzi addirittura pietose del circondario”; A. S.L., Pref., Gab., Cat. 28, Fasc. 3349, Circondario di Taranto: provvedimenti per sovvenire le classi bisognose.
30)  Cfr. M. PISTILLO, Giuseppe Di Vittorio 1907-1924, Roma 1973, pag. 65, 69, 136. Il 13 ottobre 1908 il sottoprefetto di Taranto esprime al prefetto di Lecce la preoccupazione per il crescente successo della propaganda socialista fra i contadini di Castellaneta, Palagianello, Manduria, Massafra e Mottola. A Manduria, la cui economia viticola permette al massimo una mercede giornaliera di 60 centesimi, si registra l’unico esempio di Ufficio municipale del Lavoro. I proprietari vedono le leghe come il fumo negli occhi e “si lagnano del contegno del Governo, dal quale pretenderebbero lo scioglimento delle Leghe e l’arresto dei capi. E nei primi tempi delle agitazioni, quando da Roma venivano ordini per una politica di libertà, viceversa in alcuni luoghi si praticava una politica diametralmente opposta. I funzionari di P.S., legati da vincoli di parentela e di amicizia con i proprietari, molto spesso, contrariamente alle istruzioni del Governo centrale, esercitavano un’azione diretta a soffocare il movimento proletario” ( E. PRESUTTI, op. cit., p. 606; sulla contrapposizione irriducibile, senza la possibilità di ricorrere a circuiti compensativi, cfr. A. LUCCI, Organizzazione dei contadini e resistenza dei proprietari con riguardo specialmente alla Puglia, Milano 1902; G. C. DONNO, Socialismo e modernizzazione, Manduria-Bari1988).
31) “Oggi sussiste tuttavia e sussisterà ancora per molto tempo questo stato di periodiche agitazioni proletarie, che vanamente i proprietari sperano di far cessare con i mezzi di lotta da essi adoperati e che invece si intensificheranno sempre più con l’accentuarsi della emigrazione transoceanica. Con l’estendersi di questa si avrà invero un ulteriore rialzo dei salari. E questa tendenza naturale…creerà una condizione di cose favorevole al prosperare delle leghe. I successi che queste riporteranno, più che per la loro forza intrinseca, per le cambiate condizioni del mercato locale della manodopera, rinsalderanno la loro compagine. I proprietari…diminuiranno i lavori e nei paesi viticoli giungeranno magari a far spiantare un filare di viti su due per poter arare le vigne invece che zapparle. E’ nel carattere pugliese di ricorrere ai mezzi estremi” (E. PRESUTTI, ibidem). Sulla positiva ricaduta  dell’emigrazione transoceanica in termini di “ rimesse” economiche , miglioramenti salariali e crescita dell’alfabetizzazione, vedi P. BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia  meridionale, Roma 1993, pp. 60-62. Sulla connessione analfabetismo e criminalità minorile, cfr. V. ROBLES, op. cit., pp. 38-39. Interessante il caso di Manduria, dove già nel 1872 si era formata una Società operaia di mutuo soccorso educativa ed agricola: i contadini frequentavano quasi niente la scuola pubblica ma, in seguito all’emigrazione transoceanica e a quella interna, e dopo aver compreso “l’utilità di diventare elettori”, pagarono per tre anni un maestro che faceva loro scuola ed appresero a leggere ed a scrivere”. Ma la scuola pubblica è “trascurata in genere dalle Amministrazioni comunali, che vedono in essa formarsi i futuri elettori loro avversi” ( E. PRESUTTI, op. cit., p. 551). In genere “il servizio dell’istruzione popolare è pura apparenza, adempimento formale degli obblighi che la legge fa al Comune di pagare maestri e di procurare aule per le scuole… da una parte il contadino non sente i vantaggi dell’istruzione e dall’altra le classi medie subiscono riluttanti le leggi relative all’istruzione popolare” (ivi, p. 544). Il caso di Manduria rimane isolato. Sulla battaglia socialista per l’istruzione, cfr. G. DONNO, Avanti popolo, tutti a lezione, in “Quotidiano”, 25 gennaio 1983. Sulla riluttanza delle amministrazioni locali nei confronti dell’istruzione popolare si può leggere Programma amministrativo dei Partiti popolari di Molfetta. Con le conferenze di G. Salvemini, Molfetta 1902.
32) A. PEPE, op. cit., pp. 803-804. Nonostante un certo sviluppo, l’agricoltura rimane il luogo       sociale in cui, appena erosi, si conservano i vecchi rapporti di un tempo: fitti brevi, contratti       agrari a netto favore della rendita fondiaria, monopolio della proprietà, soggezione personale       dei ceti popolari ai padroni della terra. Rimane sempre nei proprietari la “convinzione che i       contadini non sono uomini come loro. Il comm. Dalmazzo, ispettore generale del Ministero       dell’Interno, mandato a Cerignola a comporre lo sciopero del maggio scorso, ebbe a dirmi di       aver letto sul viso dei proprietari la meraviglia per la uguaglianza di trattamento formale che       esso faceva ai proprietari e ai contadini, facendo sedere gli uni e gli altri accanto a sé” (citato       in P. BEVILACQUA, op. cit., p.72).


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