lunedì 22 aprile 2013

Vuoti a perdere


VUOTI A PERDERE

© Roberto Nistri 2013-04-21. Tutti i diritti sono riservati


MARINETTI: NEOCARNE NOVECENTO

Così il regista Carlo Ludovico Bragaglia ricordava il Futurista che avrebbe fatto  “innervosire” il ‘900: “Marinetti? Un ometto piccolo piccolo, dimesso, sempre con la sua bombetta dura in testa, quasi la caricatura del borghesuccio. Una pecora che, però, riuscì a ruggire come un leone”. Con
alterne fortune, fra ostracismi e rivalutazioni, la vecchia pecora continua a ruggire anche in questo inizio di millennio, così povero di avanguardie. Particolarmente felice l’omaggio riservatogli dal
pittore Pablo Echaurren: un fumetto intitolato Caffeina d’Europa, con Marinetti che si racconta in prima persona attraverso le sue parole e i suoi scritti. “Marinetti è stato il più grande tra gli intellettuali del Novecento, un ‘pre-punk” che ha tolto l’arte alla casta degli artisti e dei critici, e l’ha messa a disposizione di tutti”,  spiega Echaurren. E’ fuori di dubbio che quello Sturm und Drang abbia promosso la “libera uscita” dell’arte come uso di massa (ancora oggi quanti abiti e
t-shirt derivano dall’estro di Giacomo Balla?) promuovendo l’estetizzazione del quotidiano e un nuovo tipo di sovversione, l’insurrezione tramite i segni. Pablo, l’illustratore del ’77 bolognese e delle tribù metropolitane, assisteva al trionfi del paroliberismo: potere dromedario, più sacrifici meno dentifrici, più chiese meno case, siamo belli siamo tanti siamo covi saltellanti… Per inciso, non risulta un solo esempio di questa eredità futurista/dadaista nell’attrezzatura comunicativa
della Destra, giovanile o senile che sia.
     I fascisti amavano poco o niente Marinetti, soprattutto quando si incaponiva nel  voler integrare
anche la cucina nel progetto di trasmutazione di tutti i valori. Nemica giurata della leggerezza e dello slancio era la pasta, opaco simbolo dell’Italia passatista, madre di cubici corpi impiombati: “i difensori della pastasciutta ne portano la palla o il rudero nello stomaco, come ergastolani o archeologi”. La gastronomia diventava per Marinetti lo strumento di una volontà assoluta di cambiamento: “ si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”… trascuriamo l’esempio e il monito della tradizione per inventare ad ogni costo un nuovo giudicato da tutti pazzesco”. La dietetica futurista deve liberare l’economia da gravose importazioni e adattarsi ai “nuovi sforzi eroici e dinamici imposti alla razza”: cultore di eugenica e piuttosto razzista, il sor Filippo si trovò a scrivere su Il Meridiano di Roma, il giorno stesso della caduta del fascismo, che “i poeti prosatori pittori scultori musicisti architetti di sangue ebreo o imparentati con ebrei o ebraizzati da critici mercanti editori ebrei… non possono essere considerati né scrittori né artisti italiani”.
     Per tornare alla gastrosofia, anche in questo campo si affermava il carattere totalitario del marinettismo: il criterio del gusto non dipende più dall’individuo ma, come nota Michel Onfray, è
“una decisione nazionale che si fa carico degli interessi del gruppo, del Tutto”. E’ pur sempre una questione di Stato se la pastasciutta agisce come un elemento controrivoluzionario che intralcia l’
espansione mondiale del nuovo Impero romano. In un funzionale sistema castale, la gestione statale
della nutrizione promuove la diversità nelle modalità dell’ingestione. Il futurista mangia per ingerire
bellezza, per consumare opere d’arte, usando una ars combinatoria che attivizzi simultaneamente
tutti i sensi in un perpetuo rilancio del desiderio, grazie anche ad un corredo tecnologico d’avanguardia: ozonizzatori, lampade a raggi ultravioletti, elettrolizzatori, autoclavi centrifughe e dializzatori, per gustare al meglio le leccornie.
     Menù: il “Porcoeccitato”, un salame crudo e senza pelle, servito diritto in un piatto contenente del caffè espresso mescolato con acqua di Colonia; lo “Svegliastomaco”, una fetta di ananas guarnita con noci tonno e sardine; “Mammelle italiane al sole” e “Uova divorziate” vanno degustate mentre un “negretto dodicenne”, predisposto sotto la tavola, solletica le gambe e pizzica le natiche delle signore. Il pasto si concluderà con un “Solido trattato”, un torrone multicolore pieno di minuscole bombe che, esplodendo, profumeranno la sala di odor di battaglia. Tutte queste delicatessen non sono ovviamente alla portata dei ceti inferiori.
     Per gli intossicati del “quotidiano mediocrista” lo Stato deve svolgere un ruolo attivo nella distribuzione gratuita di una farmacia sostitutiva in cui pillole e polverine dovrebbero garantire un necessario equilibrio nutritivo. La rivoluzione alimentare comporterebbe: abbassamento del costo della vita, riduzione dei salari, contrazione dei tempi di produzione. Del resto, “ le macchine costituiranno presto un obbediente proletariato di ferro acciaio alluminio al servizio degli uomini”, che finalmente avranno tempo da dedicare all’invenzione estetica ( anche queste suggestioni troveranno una certa accoglienza nei convulsi movimenti giovanili degli ultimi anni ’70). Bisogna pur dire che questa Gaia Scienza alimentare non offre nulla di realmente nuovo e trasgressivo: la nouvelle cuisine francese non ha fatto altro che recuperare ancora più stupefacenti ricette medievali.
Non sappiamo in che misura Mussolini abbia tenuto in conto il progetto marinettiano di un
“nazionalestetismo xenofobo” (M.Onfray) vocazionato al dominio planetario. Anche la Prova del Cuoco probabilmente rientrava nel repertorio ludico del futurismo, sfuggendo a tutti la forma totalitaria di Sistema che Marinetti andava a costruire, quasi snobbando il pragmatismo spicciolo del Duce . Da parte sua il Mascellone, quando riceveva montagne di invendutissime opere futuriste, le faceva regolarmente recapitare “al dopolavoro o ad un manicomio” (Giampiero Mughini).
     Nelle settecento pagine dei Taccuini  del dopoguerra già emergono con chiarezza le divergenze fra i due. Marinetti aveva dichiarato il suo godimento estetico per la musica della mitraglia, ma nelle sue pagine di guerra non c’è traccia di misticismo dannunziano o di renovatio interiore  in stile Junger: niente inni patriottici ma baccanali a pagamento, stile Mash di Altman, il grottesco predomina sul tragico. Un suo libello acclarante la netta equazione Guerra = Eros  (la gioventù settantasettina preciserà  “guerra no, guerriglia sì”) rischierà il sequestro per alcune audaci direttive: “Svalutazione ed abolizione del matrimonio. Svalutazione della verginità. Ridicolizzazione della gelosia”. Per Marinetti la Grande Guerra ha rappresentato per le donne la Grande Trasgressione. Libero amore , libera droga e nudismo sono stati elementi di discussione anche nella lisergica Woodstock fiumana. Entrando in un laboratorio di sartoria militare, l’acclamatissimo poeta percepiva subito “odore di vulva”.
     Mussolini parlava di Marinetti come di un buffone, l’altro lo considerava  un reazionario “vaticanizzatore”… “Non un gran cervello”. Fino alla fine si sarebbe comunque stabilizzata una riposante concordia . Dopo aver rapidamente dissipato il patrimonio multimiliardario lasciatogli dal padre, il poeta poteva sopravvivere negli ultimi anni solo grazie ad un assegno mensile di 15 mila lire elargito dal Duce e forse, per riconoscenza, si trovava a partire per il fronte russo, a 65 anni e col  cuore malconcio. Di lui rimane una scrittura copiosissima ma piuttosto  catacombale. Unanime è il riconoscimento di aver fondato il primo movimento d’avanguardia del Novecento.
     Gloria di grande poeta? Gloria di qualcos’altro: la prima grande pop star della modernità, inventore - in quel primo Manifesto - di un softwere che avrebbe messo in moto tutta la catena dei Videogame, dalla “macchina per sognare” o Dream Machine di Burroughs fino alla techno trance e all’ultima avanguardia del cyberpunk : Matrix and company. Nella rappresentazione del theatrum mundi (o teatro delle ombre) dell’avanguardia,  Marinetti prima di tutti ha compreso il
carattere destinale della Techne, la sua tendenza irrefrenabile a produrre protesi amplificatrici di
potenza per un homo tecnologicus, ormai orientato verso  una azione-progresso senza soggetto (non a caso dalla sua scrittura scompare l’ossessione umanistica dell’io e si usa il verbo all’infinito,
“rotondo e scorrevole” nel rifiuto di ogni determinazione identitaria). L’uomo nuovo deve essere currens e destructor   , perché l’accelerazione tecnologica implica l’annichilimento dell’obsoleto. La forma di “aura” per il futurista si realizza nell’istante della produzione che sovrasta il prodotto.
      Nella guerra il ritmo in/finito della mitragliatrice trasmuta esteticamente la velocità in vertigine,
si celebra il matrimonio fra biologia e tecnologia. Il corpo è funzionale alla distruzione, la tecnica provvede alla ricostruzione. Il regista James Whale ebbe l’idea del mostro di Frankenstein assistendo nel dopoguerra ad una sfilata di mutilati come un defilè di protesi. La stessa esperienza portava Marinetti ad intuire che dopo la rivoluzione dei trasporti e dopo quella della comunicazione, era alle porte la rivoluzione dei trapianti. Nasceva la Neo-Carne e la scrittura doveva esprimere questo diverso statuto del corpo, introducendo nella poesia l’infinitamente piccolo e la vita molecolare. Non occorre molta immaginazione per riconoscere nella nostra universale quotidianità, a partire da questo mouse che cambia la mia mano e il mio cervello, la presenza di quell’incerto personaggio che Nietzsche chiamava “ l’ultimo uomo” e Marinetti l’ “uomo meccanico dalle parti cambiabili” (cyborg).  Come esemplificazione filmica citiamo di Cronenberg Videodrome, in cui il protagonista inneggia alla neocarne infilandosi dritto nella pancia una videocassetta e Tetsuo di Sakamoto, che si conclude con la trasformazione di un uomo in carro armato, affine alla marinettiana “automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un’ automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia”…
En attendant Iron man.

MELLONEMARINETTI:  ACCIAIOECCITATO DUEMILA

     In un articolo pubblicato il 7 ottobre 1973, poi raccolto nel volume Descrizioni di descrizioni, Pier Paolo Pasolini attribuiva a Filippo Tommaso Marinetti una totale mancanza d’intelligenza. Si chiedeva in che modo “uno stupido aveva potuto inserirsi “nell’universo dell’intelligenza”, grazie al suo eclettismo caotico e cinico. Miracoli della stupidità, una espressione che Rinaldo Rinaldi avrebbe adoperato come titolo di un saggio su Marinetti, il “fanciullino in armi” per il quale la “mancanza di intelligenza” era stata indispensabile “ad un progetto dell’intelligenza”. Pasolini e Marinetti hanno diversamente attraversato la storia di Taranto. Pasolini ha amato vertiginosamente la città presiderurgica degli anni ’50 e del Premio Taranto. Marinetti nella primavera del 1911 partiva alla volta della Libia con la sua batteria di tumb-tumb, castagnole e mortaretti, obici e martiri: per inciso, la prima fetente guerra del Novecento tarantino. Il fantasma di Pasolini viene ricorrentemente rievocato come profeta inascoltato della fiaba nera del siderurgico.
     Ma anche l’ombra di  Marinetti, per l’ultima volta presente a Taranto il 4 giugno 1938, a discettare su odi navali e aeropoeti, viene richiamato in terra jonica dal cuore caldo di Angelo Mellone, detto Samurai: “Figurarsi / il divino Filippo Tommaso Marinetti / arrivare quaggiù munito di monocolo / e pretendere che gli vengano apprestati i pattini da / decatreno e un costume / tricolore a fasce / resistente alle vampe e alle più folli temperature /  e pronto a urlare: ‘Suvvia, ci si prepari al tuffo!’ / già pensando a come offrire al pubblico presente / le sue bracciate nel mare di lapilli / della vasca d’altoforno / componendo versi d’orgia / al mito modernista”.
      Angelo Mellone, con i suoi bollenti cromosomi destrorsi e nazional-sudisti,  rimane l’ultimo e più potente   cantore dell’Acciaio. La sua scrittura poetica, lussuosa e lussuriosa,  si è già fatta apprezzare con il precedente Addio al sud, dalle vibrazioni più lirico-dannunziane che non marinettiane.  Il collasso epocale della grande siderurgia tarantina è certamente il primum agens (non confrontabile con altre scritture di fabbrica come quelle di Volponi e di Rea)  di questa sua  seconda prova, Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore  (Marsilio ed. 2013).  Il mare (deus absconditus)  è citato quasi solo nel titolo; in compenso un altro autore jonico, Alessandro Leogrande, ha scritto belle pagine proprio su Il mare nascosto (ed. L’Ancora del Mediterraneo).  In effetti, se nel corso dei secoli la città ebalica è stata , nell’immaginario universale, associata a quel mare Jonio ventre di tutti i miti, dobbiamo ammettere che, nella dimensione massmediale, il nome di Taranto richiama ormai esclusivamente l’icona della grande fabbrica malata. Il mare non bagna Taranto… parce sepulto. Gli scrittori dell’acciaio, tutti bravi e quasi tutti ostili all’ecologismo, in primis Angelo Mellone, non si trovano proprio a loro agio nel raccontare storie di mare. Nella fabbrica della scrittura si avverte subito, al primo assaggio la pervasività dell’immaginario macchinale indotta dal totem industrialista. E’ tuttavia maestosa la pintura di Mellone “tra le braccia del siderurgico, quando la notte / nel carnevale di luce arancione e rossastra / rendeva la colata riproduzione esatta / di un vulcano /  da cui alitavano lingue di drago (Ivi, p. 45).
     Diciamo meglio: la scrittura acciaiosa di Mellone fende le acque di un mare d’argento, inseguendo il miraggio macchinico di un’onda metallica che si riverbera sul bianco acciaio.  E andando nella luce che abbaglia, torri militari di Guerre stellari, torri-fiaccole in perenne erezione,  eccitano tutta una lucente falloforia di bramme d’acciaio,  facilmente trasmutabili nella selva di cannoni  della Potemkin:  enormi bocche di  corruschi cannoni che si alzano verso il cielo in un tripudio scopertamente fallico in onore di Sua Maestà Ejzenstejn.  “Acciaio era il companatico / di una danza di bellica eccellenza / e di tronchi lucenti ad alto fusto”. La prefazione di Aurelio Picca si chiude con un imperativo che viene diritto da Wotan: Tu sei la guerra. A questo punto, dovendo parlare di lavoro e di guerra, dobbiamo momentaneamente mettere fra parentesi fuochi d’artificio , tricche tracche e mortaretti, se non vogliamo ritrovarci sulla scalinata di Odessa, con Fantozzi in carrozzella e il ragionier Filini camuffato da vecchia.
    “Acciaio e mare / è l’industria che muore /  di lagna e di ninna nanna”…
     Il nostro Bardo vuole intonare una orazione civile  techno pop, che sia un elegiaco epicedio, una funebre trenodia senza i piagnistei  delle prefiche. “Qui niente lacrime, signori e scarse signore presenti, / qui ogni goccia evapora su batterie roventi di coke / e si fa vapore denso che le polveri di carbone / rendono nell’aria un immenso cono di stracciatella”. Il Grande Artiere vuole onorare la cultura del lavoro di una città e di un sistema industriale in statu moriendi, ma involontariamente opera una reductio ad unum (la monocultura industriale) di una vicenda storica ben più ampia e variegata. Per secoli e secoli, durante una rutilante sequenza di occupazioni straniere (sempre bene accolte) la maricultura è sempre stata la cifra identitaria di una comunità protetta e nutrita dal Mar Piccolo, con terre fertili e una certa propensione al commercio, conservando la dolcezza del “pensiero meridiano”, visceralmente indisposto all’iperindustrialismo e ancor più al bellicismo, secondo la sentenza del divo Orazio, confermata dall’avanguardista massimo, quel Savinio, che si deliziava per l’infantilismo delle divise e delle corazzate tarantine.  Giustamente  annotava che sono i bambini quelli potentemente affascinati dal gioco della guerra: il campione attuale è il paffuto Kim Jong-un, piccolo “Re rosso” che, nel paese delle meraviglie, sogna col binocolo strepitosi inferni. Ma un maggiorenne non può che spazientirsi per il marinettiano motto “Guerra sola igiene del mondo”, in seguito tradotto “Shoa sola igiene della razza”. Un buon motivo per preferire al futurismo italiano quello russo, aspramente avverso alla Grande Guerra. Vale sempre il motto di Savinio: “Ho vinto la guerra, sono rimasto vivo”.
     L’invasamento industrialmilitare vela lo sguardo storico di Angelo Mellone: “Taranto prima dell’industria / e della potenza d’arsenale e naval-meccanica / era un tugurio fortificato / di pescatori poveri e muffa di pietre”. A noi risulta che, sul finire dell’Ottocento, prima di mangiare la mela avvelenata della monocultura statal-militare,  la città presentava  una forte caratterizzazione manufatturiera, specie nel comparto tessile, con grandi Magazzini Generali. Una ditta come la Cacace era ammessa alla Borsa di Napoli come Casa d’ordine: al tempo un privilegio ed il massimo della reputazione. Città in mezzo ai traffici, Taranto contendeva a Brindisi il primato di “Porta dell’Oriente”. Mellone salta diversi capitoli, perché freme di sentire l’odore della polvere da sparo e la vertigine del sangue.
     Nella Grande Guerra “Acciaio era volontà di potenza / era sperma solido grigio brillante / era il clangore del tempo di marcia / quando le nazioni ornavano / a festa la loro esuberanza e /  ‘a uerre sì tu, tu sei la guerra,  / era il complimento più vivo e maschio / che un tarantino potesse ricevere in dono”. Un tale pregio per il caballero jonico  non ricordiamo che fosse particolarmente concupito, almeno ai tempi della my generation, quando belli erano i giorni del pane e delle rose, quando motti più arrapanti erano  guerra alla guerra e nostra patria è il mondo intero. A proposito della Grande Guerra, amiamo le parole del soldato inglese Wilfred Owen: “Se tu potessi sentire, ad ogni sobbalzo, il sangue che arriva come un gargarismo dai polmoni rosi dal gas, tu non diresti con tale profondo entusiasmo, ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria, la Vecchia Bugia: Dulce et decorum est pro patria mori.” Guerra è sempre, diceva Eduardo, in trincea come in fabbrica.
      Alla larga dal sempreverde  machismo, variamente declinato dal Mascellone trebbiatore, dal bunga bunga della Mummia, dal Grillo nuotatore. Nell’era della sempiterna crisi, il modello più onesto rimane il Full monty del 1997  per gli operai  spogliarellisti, castrati dalla perdita del posto di lavoro.  Quanto al complimento “vivo e maschio”, ricordiamo come certe affettuosità  fossero simpaticamente diffuse nella benemerita associazione “Magna Frocia”,  che operava avanguardisticamente nella ruggente Taranto degli anni Settanta, in memoria degli opliti Spartani dai magnanimi lombi, poeticamente onorati da Mellone.
      Certamente la corda migliore di Angelo è quella dell’Epos, volta a celebrare la memoria dei miliziani di fabbrica: “Operai santi di fatica, che mettevano e toglievano elmetti impregnati di pulviscolo”.  Ancora mi ostino a immaginare / tute blu, nuove armature con la Lambda spartana / stampata sul dorso, e argani come cavalli / e il taglio riccio nero e corto sotto il casco / che aggiorna i lunghi capelli / raccolti dall’elmo / dei triboni scarlatti prima del combattimento”.  Fra la collina delle polveri e il pentolone dell’arrostito, Mellone gestisce la sua danza degli spettri “con amore e con odio / ma sempre con violenza (Cesare Pavese) .
     Il padre di Angelo nasceva nel 1938,  “all’epoca che la mia e la sua Taranto era una città di Impero e guerra e non di analfabeti della Storia”.  Non mancano i devoti cultori di quella malaepoca: Il nostalgico sindaco di Affile ha dedicato un mausoleo a Rodolfo Graziani, con un finanziamento regionale di 180.000 euro per onorare il  massacratore di un milione di Etiopi (di cui 30mila in tre giorni di stragi ad Addis Abeba)  e di Italiani durante la Repubblica di Salò. La protesta della Comunità etiope e della unione delle comunità ebraiche è giunta davanti all’ambasciata italiana a Washington. Contemporaneo al casus belli di “Grazianilandia”, si accendeva il “Sunderland contro i fascisti”, per il vezzo del calciatore Piero Di Canio di allungare sovente il braccio nel saluto romano. Possiamo augurargli che la sua contrastata avventura sulla panchina del Sunderland gli serva a capire che,  se in Italia quel saluto è un reato, in tutta l’Europa democratica il fascismo è un tabù e non solo per gli ebrei.
     Possiamo augurare al poemetto di Mellone di  non finire sotto le grinfie della “perfida Albione”, considerando il suo spiritoso uso di una muffa velina mussoliniana: “Ricordate che Taranto fu bombardata /  nel millenovecentoequaranta / a tradimento di metà novembre / da aereosiluranti bassi e viscidi inglesi”.  Traditori?!  Churchill annotò nel suo diario che la “notte di Taranto” era l’inizio della fine del nazifascismo.  La  fascisteria italiota e la pagliaccesca berlusconeide,  fuori d’Italia riattizzano la tragica memoria di una dittatura che ha incenerito mezza Europa: lo scrivente , che ha soggiornato a lungo in Francia, più volte è stato apostrofato come Italiano Fascista, in memoria del Buce fellone che attaccò (a tradimento, questo è il caso di dirlo) un paese già invaso e occupato dai nazisti.  Caro Angelo, Tu chiedi se così tutto vanisce / in questa poca nebbia di memorie / come dice Montale. Ma per  il  nostalgico impenitente valga l’ammonizione di Papini: chi ama troppo la propria anima, la perderà.
      Il fulcro della cantica di Mellone è la sua fabbrica, sua di Mellone, sua di suo padre, sua dell’homo metallicus: croce e delizia di ogni scrittore jonico. Angelo  come Cyrano duella con molti anonimi nemici, che lordano la purezza dell’acciaio: il signor ambientalista, la dottoressa isterica dalla bella abbronzatura, il debosciato antropologo, quello che blatera di occupazione coloniale (a parlare di rapporto colonialistico è stato un autorevole colonizzatore come Giuseppe Petrilli nel 1971). Siamo consapevoli che le nostre considerazioni sono minuzzaria agli occhi del Titano. Che il suo sigillo sia titanico, Luca Telese lo ripete due volte nella stessa pagina, con seguito di Mishima  e Junger, “cantore dell’Operaio, sentite!, milite del lavoro”. 
     Junger è stato l’Aedo di una figura del Lavoro come Mobilitazione totale in vista di una  Produzione illimitata, nell’orizzonte del dispiegamento  planetario della Tecnica. Heidegger è stato colpito dalla corrente di fuoco e sangue, di morte e lavoro, di silenzio e tuono della battaglia di materiali, come manifestazioni della volontà di potenza.  Ma più intriganti sono gli ultimi scritti di Junger, intenti a costruire oasi di libertà nel “deserto che cresce”, baluardi a riparo dalle minacce del Leviatano e dagli appelli delle chiese. Ricordiamo di Junger  una bella metafora per il golfo di Napoli,  calzante a pennello anche per la città jonica: una padella in cui frigge la vita, una frittura che a un certo punto brucia e annerisce.
     Angelo   entra nell’arena  poetica,  un “capannone in cui si ritorcevano lamiere / domate e piegate / alle forme desiderate / dalle mani di ciclopi tarantini”, ricordando che la fabbrica è guerra, ludo sadomasochista,  e l’uomo meccanico dalle parti intercambiabili  non può che essere un eroe fallico. Nell’estasi dell’erezione fra torri e cannoni (la volata è la parte del cannone più immediatamente fallica, che trova riscontro nell’onomatopea dello sparare tumbtumb) il suo rapporto con la macchina è rapporto di amanti. “Femmina” è la macchina desiderante chiusa nel circolo di desiderio-terrore. La macchina è femmina castratrice che si accanisce sui vinti, fino a mutilarli. Questo strano eroe di Mellone oscilla tra la figura dei cupi  marmittoni della fabbrica espressionista di Metropolis e la ottusa felicità del sovietico eroe del lavoro Stakanov. “Il lavoro umano! E’ l’esplosione che di tanto in tanto illumina il mio abisso”, scriveva Rimbaud.
      E’ vero che la storia industriale ha conosciuto grandi momenti di epicità. Una simile passione è stata esperita almeno in una certa fase anche nel grande Siderurgico: lo stato aurorale è sempre una fase di innamoramento e quindi un deposito di miti, che magari si immalinconiscono nel passaggio dalla gloriosa Annunciazione alla trista Manutenzione. La classe operaia va in paradiso e il misero eroe cottimista,  con il volto di Gian Maria Volontè, tiene fermo il primo e ultimo comandamento: “Non dare il culo al padrone”. Lo stesso  programma futurista è l’ipotesi di realizzazione di un “sistema totale” (Adorno), che potrebbe virtualmente fare a meno dei suoi membri. Marinetti: “noi futuristi ascendiamo verso le vette più radiose e ci proclamiamo Signori della Luce”. Inevitabile è l’identificazione dell’uomo col motore, rapporto tra uomini meccanici che, per essere costruiti da “parti cambiabili” sono scambiabili a loro volta. A Taranto l’obsolescenza ha steso il vecchio dinosauro di ferro e siamo in molti ad augurarci che anche la sua ombra venga sepolta. Per il suo eterno rientro, lo scrittore ha diritto di imbattersi ancora una volta in una città irredenta, una “Città di Vita”, in cui una continua lotta sia  anche una festa continua, in cui si possa finalmente poetare del controdolore e dell’allegria.
       Intanto Mellone rimane il solo ad aver cantato la Leggenda Aurea della Fabbrica: “quella schiatta di Archelao, fosse viva/di cinquecento metri innalzerebbe/alberi d’acciaio, canne di un organo/che Tirteo suona in liriche metalliche/a onore degli dèi”. Siamo sicuri che Angelo terrà in non cale queste nostre  pauperistiche  Zazarèddere, e farà bene. Anticipiamo per conto nostro un meritato sarcasmo e ci rimproveriamo da soli. Tanto noi/siamo sempre della razza/di chi rimane a terra.

                                                      “Ringollatevi tutti / il vostro sconcio pettegolezzo / e che vi si
strozzi nella gola! / Largo! Sono il poeta!” (in memoria di Palazzeschi)

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