VUOTI A PERDERE
© Roberto Nistri 2013-04-21. Tutti i diritti sono riservati
MARINETTI: NEOCARNE
NOVECENTO
Così il regista
Carlo Ludovico Bragaglia ricordava il Futurista che avrebbe fatto “innervosire” il ‘900: “Marinetti? Un ometto
piccolo piccolo, dimesso, sempre con la sua bombetta dura in testa, quasi la
caricatura del borghesuccio. Una pecora che, però, riuscì a ruggire come un
leone”. Con
alterne fortune, fra ostracismi e rivalutazioni, la vecchia
pecora continua a ruggire anche in questo inizio di millennio, così povero di
avanguardie. Particolarmente felice l’omaggio riservatogli dal
pittore Pablo Echaurren: un fumetto intitolato Caffeina d’Europa, con Marinetti che si
racconta in prima persona attraverso le sue parole e i suoi scritti. “Marinetti
è stato il più grande tra gli intellettuali del Novecento, un ‘pre-punk” che ha
tolto l’arte alla casta degli artisti e dei critici, e l’ha messa a
disposizione di tutti”, spiega
Echaurren. E’ fuori di dubbio che quello Sturm
und Drang abbia promosso la “libera uscita” dell’arte come uso di massa
(ancora oggi quanti abiti e
t-shirt derivano
dall’estro di Giacomo Balla?) promuovendo l’estetizzazione del quotidiano e un
nuovo tipo di sovversione, l’insurrezione tramite i segni. Pablo,
l’illustratore del ’77 bolognese e delle tribù metropolitane, assisteva al
trionfi del paroliberismo: potere dromedario, più sacrifici meno dentifrici,
più chiese meno case, siamo belli siamo tanti siamo covi saltellanti… Per
inciso, non risulta un solo esempio di questa eredità futurista/dadaista nell’attrezzatura
comunicativa
della Destra, giovanile o senile che sia.
I fascisti
amavano poco o niente Marinetti, soprattutto quando si incaponiva nel voler integrare
anche la cucina nel progetto di trasmutazione di tutti i valori. Nemica giurata della leggerezza e dello slancio era la pasta, opaco simbolo dell’Italia passatista, madre di cubici corpi impiombati: “i difensori della pastasciutta ne portano la palla o il rudero nello stomaco, come ergastolani o archeologi”. La gastronomia diventava per Marinetti lo strumento di una volontà assoluta di cambiamento: “ si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”… trascuriamo l’esempio e il monito della tradizione per inventare ad ogni costo un nuovo giudicato da tutti pazzesco”. La dietetica futurista deve liberare l’economia da gravose importazioni e adattarsi ai “nuovi sforzi eroici e dinamici imposti alla razza”: cultore di eugenica e piuttosto razzista, il sor Filippo si trovò a scrivere su Il Meridiano di Roma, il giorno stesso della caduta del fascismo, che “i poeti prosatori pittori scultori musicisti architetti di sangue ebreo o imparentati con ebrei o ebraizzati da critici mercanti editori ebrei… non possono essere considerati né scrittori né artisti italiani”.
anche la cucina nel progetto di trasmutazione di tutti i valori. Nemica giurata della leggerezza e dello slancio era la pasta, opaco simbolo dell’Italia passatista, madre di cubici corpi impiombati: “i difensori della pastasciutta ne portano la palla o il rudero nello stomaco, come ergastolani o archeologi”. La gastronomia diventava per Marinetti lo strumento di una volontà assoluta di cambiamento: “ si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”… trascuriamo l’esempio e il monito della tradizione per inventare ad ogni costo un nuovo giudicato da tutti pazzesco”. La dietetica futurista deve liberare l’economia da gravose importazioni e adattarsi ai “nuovi sforzi eroici e dinamici imposti alla razza”: cultore di eugenica e piuttosto razzista, il sor Filippo si trovò a scrivere su Il Meridiano di Roma, il giorno stesso della caduta del fascismo, che “i poeti prosatori pittori scultori musicisti architetti di sangue ebreo o imparentati con ebrei o ebraizzati da critici mercanti editori ebrei… non possono essere considerati né scrittori né artisti italiani”.
Per tornare alla
gastrosofia, anche in questo campo si affermava il carattere totalitario del
marinettismo: il criterio del gusto non dipende più dall’individuo ma, come
nota Michel Onfray, è
“una decisione nazionale che si fa carico degli interessi
del gruppo, del Tutto”. E’ pur sempre una questione di Stato se la pastasciutta
agisce come un elemento controrivoluzionario che intralcia l’
espansione mondiale del nuovo Impero romano. In un
funzionale sistema castale, la gestione statale
della nutrizione promuove la diversità nelle modalità
dell’ingestione. Il futurista mangia per ingerire
bellezza, per consumare opere d’arte, usando una ars combinatoria che attivizzi
simultaneamente
tutti i sensi in un perpetuo rilancio del desiderio, grazie
anche ad un corredo tecnologico d’avanguardia: ozonizzatori, lampade a raggi
ultravioletti, elettrolizzatori, autoclavi centrifughe e dializzatori, per
gustare al meglio le leccornie.
Menù: il
“Porcoeccitato”, un salame crudo e senza pelle, servito diritto in un piatto
contenente del caffè espresso mescolato con acqua di Colonia; lo
“Svegliastomaco”, una fetta di ananas guarnita con noci tonno e sardine;
“Mammelle italiane al sole” e “Uova divorziate” vanno degustate mentre un
“negretto dodicenne”, predisposto sotto la tavola, solletica le gambe e pizzica
le natiche delle signore. Il pasto si concluderà con un “Solido trattato”, un
torrone multicolore pieno di minuscole bombe che, esplodendo, profumeranno la
sala di odor di battaglia. Tutte queste delicatessen
non sono ovviamente alla portata dei ceti inferiori.
Per gli
intossicati del “quotidiano mediocrista” lo Stato deve svolgere un ruolo attivo
nella distribuzione gratuita di una farmacia sostitutiva in cui pillole e
polverine dovrebbero garantire un necessario equilibrio nutritivo. La
rivoluzione alimentare comporterebbe: abbassamento del costo della vita,
riduzione dei salari, contrazione dei tempi di produzione. Del resto, “ le
macchine costituiranno presto un obbediente proletariato di ferro acciaio
alluminio al servizio degli uomini”, che finalmente avranno tempo da dedicare
all’invenzione estetica ( anche queste suggestioni troveranno una certa
accoglienza nei convulsi movimenti giovanili degli ultimi anni ’70). Bisogna
pur dire che questa Gaia Scienza alimentare non offre nulla di realmente nuovo
e trasgressivo: la nouvelle cuisine
francese non ha fatto altro che recuperare ancora più stupefacenti ricette
medievali.
Non sappiamo in che misura Mussolini abbia tenuto in conto
il progetto marinettiano di un
“nazionalestetismo xenofobo” (M.Onfray) vocazionato al
dominio planetario. Anche la Prova del Cuoco probabilmente rientrava nel
repertorio ludico del futurismo, sfuggendo a tutti la forma totalitaria di
Sistema che Marinetti andava a costruire, quasi snobbando il pragmatismo
spicciolo del Duce . Da parte sua il Mascellone, quando riceveva montagne di
invendutissime opere futuriste, le faceva regolarmente recapitare “al
dopolavoro o ad un manicomio” (Giampiero Mughini).
Nelle settecento
pagine dei Taccuini del dopoguerra già emergono con chiarezza le
divergenze fra i due. Marinetti aveva dichiarato il suo godimento estetico per
la musica della mitraglia, ma nelle sue pagine di guerra non c’è traccia di
misticismo dannunziano o di renovatio
interiore in stile Junger: niente inni
patriottici ma baccanali a pagamento, stile Mash
di Altman, il grottesco predomina sul tragico. Un suo libello acclarante la
netta equazione Guerra = Eros (la
gioventù settantasettina preciserà
“guerra no, guerriglia sì”) rischierà il sequestro per alcune audaci
direttive: “Svalutazione ed abolizione del matrimonio. Svalutazione della
verginità. Ridicolizzazione della gelosia”. Per Marinetti la Grande Guerra ha
rappresentato per le donne la Grande Trasgressione. Libero amore , libera droga
e nudismo sono stati elementi di discussione anche nella lisergica Woodstock
fiumana. Entrando in un laboratorio di sartoria militare, l’acclamatissimo
poeta percepiva subito “odore di vulva”.
Mussolini parlava
di Marinetti come di un buffone, l’altro lo considerava un reazionario “vaticanizzatore”… “Non un
gran cervello”. Fino alla fine si sarebbe comunque stabilizzata una riposante
concordia . Dopo aver rapidamente dissipato il patrimonio multimiliardario
lasciatogli dal padre, il poeta poteva sopravvivere negli ultimi anni solo
grazie ad un assegno mensile di 15 mila lire elargito dal Duce e forse, per
riconoscenza, si trovava a partire per il fronte russo, a 65 anni e col cuore malconcio. Di lui rimane una scrittura
copiosissima ma piuttosto catacombale.
Unanime è il riconoscimento di aver fondato il primo movimento d’avanguardia
del Novecento.
Gloria di grande
poeta? Gloria di qualcos’altro: la prima grande pop star della modernità, inventore - in quel primo Manifesto - di
un softwere che avrebbe messo in moto
tutta la catena dei Videogame, dalla
“macchina per sognare” o Dream Machine
di Burroughs fino alla techno trance
e all’ultima avanguardia del cyberpunk
: Matrix and company. Nella
rappresentazione del theatrum mundi (o teatro delle ombre)
dell’avanguardia, Marinetti prima di
tutti ha compreso il
carattere destinale della Techne, la sua tendenza irrefrenabile a produrre protesi
amplificatrici di
potenza per un homo
tecnologicus, ormai orientato verso
una azione-progresso senza soggetto (non a caso dalla sua scrittura
scompare l’ossessione umanistica dell’io
e si usa il verbo all’infinito,
“rotondo e scorrevole” nel rifiuto di ogni determinazione
identitaria). L’uomo nuovo deve essere currens
e destructor , perché l’accelerazione tecnologica implica
l’annichilimento dell’obsoleto. La forma di “aura” per il futurista si realizza
nell’istante della produzione che sovrasta il prodotto.
Nella guerra il
ritmo in/finito della mitragliatrice trasmuta esteticamente la velocità in
vertigine,
si celebra il matrimonio fra biologia e tecnologia. Il corpo
è funzionale alla distruzione, la tecnica provvede alla ricostruzione. Il
regista James Whale ebbe l’idea del mostro di Frankenstein assistendo nel
dopoguerra ad una sfilata di mutilati come un defilè di protesi. La stessa esperienza portava Marinetti ad
intuire che dopo la rivoluzione dei trasporti e dopo quella della
comunicazione, era alle porte la rivoluzione dei trapianti. Nasceva la
Neo-Carne e la scrittura doveva esprimere questo diverso statuto del corpo,
introducendo nella poesia l’infinitamente piccolo e la vita molecolare. Non
occorre molta immaginazione per riconoscere nella nostra universale
quotidianità, a partire da questo mouse
che cambia la mia mano e il mio cervello, la presenza di quell’incerto
personaggio che Nietzsche chiamava “ l’ultimo uomo” e Marinetti l’ “uomo
meccanico dalle parti cambiabili” (cyborg). Come esemplificazione filmica citiamo di
Cronenberg Videodrome, in cui il
protagonista inneggia alla neocarne infilandosi dritto nella pancia una
videocassetta e Tetsuo di Sakamoto,
che si conclude con la trasformazione di un uomo in carro armato, affine alla
marinettiana “automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a
serpenti dall’alito esplosivo… un’ automobile ruggente, che sembra correre
sulla mitraglia”…
En attendant Iron man.
MELLONEMARINETTI: ACCIAIOECCITATO DUEMILA
In un articolo
pubblicato il 7 ottobre 1973, poi raccolto nel volume Descrizioni di descrizioni, Pier Paolo Pasolini attribuiva a
Filippo Tommaso Marinetti una totale mancanza d’intelligenza. Si chiedeva in
che modo “uno stupido aveva potuto inserirsi “nell’universo dell’intelligenza”,
grazie al suo eclettismo caotico e cinico. Miracoli
della stupidità, una espressione che Rinaldo Rinaldi avrebbe adoperato come
titolo di un saggio su Marinetti, il “fanciullino in armi” per il quale la
“mancanza di intelligenza” era stata indispensabile “ad un progetto
dell’intelligenza”. Pasolini e Marinetti hanno diversamente attraversato la storia
di Taranto. Pasolini ha amato vertiginosamente la città presiderurgica degli
anni ’50 e del Premio Taranto. Marinetti nella primavera del 1911 partiva alla
volta della Libia con la sua batteria di tumb-tumb,
castagnole e mortaretti, obici e martiri: per inciso, la prima fetente guerra
del Novecento tarantino. Il fantasma di Pasolini viene ricorrentemente
rievocato come profeta inascoltato della fiaba nera del siderurgico.
Ma anche l’ombra
di Marinetti, per l’ultima volta
presente a Taranto il 4 giugno 1938, a discettare su odi navali e aeropoeti,
viene richiamato in terra jonica dal cuore caldo di Angelo Mellone, detto Samurai: “Figurarsi / il divino Filippo
Tommaso Marinetti / arrivare quaggiù munito di monocolo / e pretendere che gli
vengano apprestati i pattini da / decatreno e un costume / tricolore a fasce /
resistente alle vampe e alle più folli temperature / e pronto a urlare: ‘Suvvia, ci si prepari al
tuffo!’ / già pensando a come offrire al pubblico presente / le sue bracciate
nel mare di lapilli / della vasca d’altoforno / componendo versi d’orgia / al
mito modernista”.
Angelo Mellone,
con i suoi bollenti cromosomi destrorsi e nazional-sudisti, rimane l’ultimo e più potente cantore dell’Acciaio. La sua scrittura
poetica, lussuosa e lussuriosa, si è già
fatta apprezzare con il precedente Addio
al sud, dalle vibrazioni più lirico-dannunziane che non marinettiane. Il collasso epocale della grande siderurgia
tarantina è certamente il primum agens
(non confrontabile con altre scritture di fabbrica come quelle di Volponi e di
Rea) di questa sua seconda prova, Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore (Marsilio ed. 2013). Il mare (deus
absconditus) è citato quasi solo nel
titolo; in compenso un altro autore jonico, Alessandro Leogrande, ha scritto
belle pagine proprio su Il mare nascosto
(ed. L’Ancora del Mediterraneo). In
effetti, se nel corso dei secoli la città ebalica è stata , nell’immaginario
universale, associata a quel mare Jonio ventre di tutti i miti, dobbiamo
ammettere che, nella dimensione massmediale, il nome di Taranto richiama ormai
esclusivamente l’icona della grande fabbrica malata. Il mare non bagna Taranto… parce sepulto. Gli scrittori
dell’acciaio, tutti bravi e quasi tutti ostili all’ecologismo, in primis Angelo Mellone, non si trovano
proprio a loro agio nel raccontare storie di mare. Nella fabbrica della
scrittura si avverte subito, al primo assaggio la pervasività dell’immaginario
macchinale indotta dal totem industrialista. E’ tuttavia maestosa la pintura di
Mellone “tra le braccia del siderurgico, quando la notte / nel carnevale di
luce arancione e rossastra / rendeva la colata riproduzione esatta / di un
vulcano / da cui alitavano lingue di
drago (Ivi, p. 45).
Diciamo meglio:
la scrittura acciaiosa di Mellone fende le acque di un mare d’argento,
inseguendo il miraggio macchinico di un’onda metallica che si riverbera sul
bianco acciaio. E andando nella luce che
abbaglia, torri militari di Guerre
stellari, torri-fiaccole in perenne erezione, eccitano tutta una lucente falloforia di
bramme d’acciaio, facilmente
trasmutabili nella selva di cannoni
della Potemkin: enormi bocche di corruschi cannoni che si alzano verso il
cielo in un tripudio scopertamente fallico in onore di Sua Maestà
Ejzenstejn. “Acciaio era il companatico
/ di una danza di bellica eccellenza / e di tronchi lucenti ad alto fusto”. La
prefazione di Aurelio Picca si chiude con un imperativo che viene diritto da
Wotan: Tu sei la guerra. A questo
punto, dovendo parlare di lavoro e di guerra, dobbiamo momentaneamente mettere
fra parentesi fuochi d’artificio , tricche tracche e mortaretti, se non
vogliamo ritrovarci sulla scalinata di Odessa, con Fantozzi in carrozzella e il
ragionier Filini camuffato da vecchia.
“Acciaio e mare /
è l’industria che muore / di lagna e di
ninna nanna”…
Il nostro Bardo
vuole intonare una orazione civile
techno pop, che sia un elegiaco epicedio, una funebre trenodia senza i
piagnistei delle prefiche. “Qui niente
lacrime, signori e scarse signore presenti, / qui ogni goccia evapora su
batterie roventi di coke / e si fa vapore denso che le polveri di carbone /
rendono nell’aria un immenso cono di stracciatella”. Il Grande Artiere vuole
onorare la cultura del lavoro di una città e di un sistema industriale in statu moriendi, ma involontariamente
opera una reductio ad unum (la
monocultura industriale) di una vicenda storica ben più ampia e variegata. Per
secoli e secoli, durante una rutilante sequenza di occupazioni straniere
(sempre bene accolte) la maricultura è sempre stata la cifra identitaria di una
comunità protetta e nutrita dal Mar Piccolo, con terre fertili e una certa
propensione al commercio, conservando la dolcezza del “pensiero meridiano”,
visceralmente indisposto all’iperindustrialismo e ancor più al bellicismo,
secondo la sentenza del divo Orazio, confermata dall’avanguardista massimo,
quel Savinio, che si deliziava per l’infantilismo delle divise e delle
corazzate tarantine. Giustamente annotava che sono i bambini quelli
potentemente affascinati dal gioco della guerra: il campione attuale è il
paffuto Kim Jong-un, piccolo “Re rosso” che, nel paese delle meraviglie, sogna
col binocolo strepitosi inferni. Ma un maggiorenne non può che spazientirsi per
il marinettiano motto “Guerra sola igiene del mondo”, in seguito tradotto “Shoa sola igiene della razza”. Un buon
motivo per preferire al futurismo italiano quello russo, aspramente avverso
alla Grande Guerra. Vale sempre il motto di Savinio: “Ho vinto la guerra, sono
rimasto vivo”.
L’invasamento
industrialmilitare vela lo sguardo storico di Angelo Mellone: “Taranto prima
dell’industria / e della potenza d’arsenale e naval-meccanica / era un tugurio
fortificato / di pescatori poveri e muffa di pietre”. A noi risulta che, sul
finire dell’Ottocento, prima di mangiare la mela avvelenata della monocultura
statal-militare, la città
presentava una forte caratterizzazione
manufatturiera, specie nel comparto tessile, con grandi Magazzini Generali. Una
ditta come la Cacace era ammessa alla Borsa di Napoli come Casa d’ordine: al
tempo un privilegio ed il massimo della reputazione. Città in mezzo ai
traffici, Taranto contendeva a Brindisi il primato di “Porta dell’Oriente”.
Mellone salta diversi capitoli, perché freme di sentire l’odore della polvere da
sparo e la vertigine del sangue.
Nella Grande
Guerra “Acciaio era volontà di potenza / era sperma solido grigio brillante /
era il clangore del tempo di marcia / quando le nazioni ornavano / a festa la
loro esuberanza e / ‘a uerre sì tu, tu sei la
guerra, / era il complimento più vivo e
maschio / che un tarantino potesse ricevere in dono”. Un tale pregio per il
caballero jonico non ricordiamo che
fosse particolarmente concupito, almeno ai tempi della my generation, quando belli erano i giorni del pane e delle rose,
quando motti più arrapanti erano guerra alla guerra e nostra patria è il mondo intero. A
proposito della Grande Guerra, amiamo le parole del soldato inglese Wilfred
Owen: “Se tu potessi sentire, ad ogni sobbalzo, il sangue che arriva come un
gargarismo dai polmoni rosi dal gas, tu non diresti con tale profondo
entusiasmo, ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria, la Vecchia
Bugia: Dulce et decorum est pro patria mori.” Guerra è sempre, diceva Eduardo, in
trincea come in fabbrica.
Alla larga dal
sempreverde machismo, variamente
declinato dal Mascellone trebbiatore, dal bunga bunga della Mummia, dal Grillo
nuotatore. Nell’era della sempiterna crisi, il modello più onesto rimane il Full monty del 1997 per gli operai spogliarellisti, castrati dalla perdita del
posto di lavoro. Quanto al complimento
“vivo e maschio”, ricordiamo come certe affettuosità fossero simpaticamente diffuse nella benemerita
associazione “Magna Frocia”, che operava
avanguardisticamente nella ruggente Taranto degli anni Settanta, in memoria
degli opliti Spartani dai magnanimi lombi, poeticamente onorati da Mellone.
Certamente la
corda migliore di Angelo è quella dell’Epos, volta a celebrare la memoria dei
miliziani di fabbrica: “Operai santi di fatica, che mettevano e toglievano
elmetti impregnati di pulviscolo”.
Ancora mi ostino a immaginare / tute blu, nuove armature con la Lambda
spartana / stampata sul dorso, e argani come cavalli / e il taglio riccio nero
e corto sotto il casco / che aggiorna i lunghi capelli / raccolti dall’elmo /
dei triboni scarlatti prima del combattimento”.
Fra la collina delle polveri e il pentolone dell’arrostito, Mellone
gestisce la sua danza degli spettri “con amore e con odio / ma sempre con
violenza (Cesare Pavese) .
Il padre di
Angelo nasceva nel 1938, “all’epoca che
la mia e la sua Taranto era una città di Impero e guerra e non di analfabeti
della Storia”. Non mancano i devoti
cultori di quella malaepoca: Il nostalgico sindaco di Affile ha dedicato un
mausoleo a Rodolfo Graziani, con un finanziamento regionale di 180.000 euro per
onorare il massacratore di un milione di
Etiopi (di cui 30mila in tre giorni di stragi ad Addis Abeba) e di Italiani durante la Repubblica di Salò.
La protesta della Comunità etiope e della unione delle comunità ebraiche è
giunta davanti all’ambasciata italiana a Washington. Contemporaneo al casus belli di “Grazianilandia”, si
accendeva il “Sunderland contro i fascisti”, per il vezzo del calciatore Piero
Di Canio di allungare sovente il braccio nel saluto romano. Possiamo augurargli
che la sua contrastata avventura sulla panchina del Sunderland gli serva a
capire che, se in Italia quel saluto è
un reato, in tutta l’Europa democratica il fascismo è un tabù e non solo per
gli ebrei.
Possiamo augurare
al poemetto di Mellone di non finire
sotto le grinfie della “perfida Albione”, considerando il suo spiritoso uso di
una muffa velina mussoliniana: “Ricordate che Taranto fu bombardata / nel millenovecentoequaranta / a tradimento di
metà novembre / da aereosiluranti bassi e viscidi inglesi”. Traditori?!
Churchill annotò nel suo diario che la “notte di Taranto” era l’inizio
della fine del nazifascismo. La fascisteria italiota e la pagliaccesca
berlusconeide, fuori d’Italia
riattizzano la tragica memoria di una dittatura che ha incenerito mezza Europa:
lo scrivente , che ha soggiornato a lungo in Francia, più volte è stato
apostrofato come Italiano Fascista, in memoria del Buce fellone che attaccò (a
tradimento, questo è il caso di dirlo) un paese già invaso e occupato dai
nazisti. Caro Angelo, Tu chiedi se così
tutto vanisce / in questa poca nebbia di memorie / come dice Montale. Ma
per il
nostalgico impenitente valga l’ammonizione di Papini: chi ama troppo la
propria anima, la perderà.
Il fulcro della
cantica di Mellone è la sua fabbrica, sua di Mellone, sua di suo padre, sua dell’homo metallicus: croce e delizia di
ogni scrittore jonico. Angelo come
Cyrano duella con molti anonimi nemici, che lordano la purezza dell’acciaio: il
signor ambientalista, la dottoressa isterica dalla bella abbronzatura, il
debosciato antropologo, quello che blatera di occupazione coloniale (a parlare
di rapporto colonialistico è stato un autorevole colonizzatore come Giuseppe
Petrilli nel 1971). Siamo consapevoli che le nostre considerazioni sono
minuzzaria agli occhi del Titano. Che il suo sigillo sia titanico, Luca Telese
lo ripete due volte nella stessa pagina, con seguito di Mishima e Junger, “cantore dell’Operaio, sentite!, milite del lavoro”.
Junger è stato
l’Aedo di una figura del Lavoro come Mobilitazione totale in vista di una Produzione illimitata, nell’orizzonte del
dispiegamento planetario della Tecnica.
Heidegger è stato colpito dalla corrente di fuoco e sangue, di morte e lavoro,
di silenzio e tuono della battaglia di materiali, come manifestazioni della
volontà di potenza. Ma più intriganti
sono gli ultimi scritti di Junger, intenti a costruire oasi di libertà nel
“deserto che cresce”, baluardi a riparo dalle minacce del Leviatano e dagli
appelli delle chiese. Ricordiamo di Junger
una bella metafora per il golfo di Napoli, calzante a pennello anche per la città
jonica: una padella in cui frigge la vita, una frittura che a un certo punto
brucia e annerisce.
Angelo entra nell’arena poetica,
un “capannone in cui si ritorcevano lamiere / domate e piegate / alle
forme desiderate / dalle mani di ciclopi tarantini”, ricordando che la
fabbrica è guerra, ludo sadomasochista,
e l’uomo meccanico dalle parti intercambiabili non può che essere un eroe fallico.
Nell’estasi dell’erezione fra torri e cannoni (la volata è la parte del cannone
più immediatamente fallica, che trova riscontro nell’onomatopea dello sparare tumbtumb) il suo rapporto con la
macchina è rapporto di amanti. “Femmina” è la macchina desiderante chiusa nel
circolo di desiderio-terrore. La macchina è femmina castratrice che si
accanisce sui vinti, fino a mutilarli. Questo strano eroe di Mellone oscilla
tra la figura dei cupi marmittoni della
fabbrica espressionista di Metropolis
e la ottusa felicità del sovietico eroe del lavoro Stakanov. “Il lavoro umano!
E’ l’esplosione che di tanto in tanto illumina il mio abisso”, scriveva
Rimbaud.
E’ vero che la
storia industriale ha conosciuto grandi momenti di epicità. Una simile passione
è stata esperita almeno in una certa fase anche nel grande Siderurgico: lo
stato aurorale è sempre una fase di innamoramento e quindi un deposito di miti,
che magari si immalinconiscono nel passaggio dalla gloriosa Annunciazione alla
trista Manutenzione. La classe operaia va
in paradiso e il misero eroe cottimista,
con il volto di Gian Maria Volontè, tiene fermo il primo e ultimo
comandamento: “Non dare il culo al padrone”. Lo stesso programma futurista è l’ipotesi di
realizzazione di un “sistema totale” (Adorno), che potrebbe virtualmente fare a
meno dei suoi membri. Marinetti: “noi futuristi ascendiamo verso le vette più
radiose e ci proclamiamo Signori della Luce”. Inevitabile è l’identificazione
dell’uomo col motore, rapporto tra uomini meccanici che, per essere costruiti
da “parti cambiabili” sono scambiabili a loro volta. A Taranto l’obsolescenza
ha steso il vecchio dinosauro di ferro e siamo in molti ad augurarci che anche
la sua ombra venga sepolta. Per il suo eterno rientro, lo scrittore ha diritto
di imbattersi ancora una volta in una città irredenta, una “Città di Vita”, in
cui una continua lotta sia anche una
festa continua, in cui si possa finalmente poetare del controdolore e
dell’allegria.
Intanto Mellone
rimane il solo ad aver cantato la Leggenda Aurea della Fabbrica: “quella
schiatta di Archelao, fosse viva/di
cinquecento metri innalzerebbe/alberi d’acciaio, canne di un organo/che
Tirteo suona in liriche metalliche/a onore degli dèi”. Siamo sicuri che
Angelo terrà in non cale queste nostre
pauperistiche Zazarèddere, e farà bene. Anticipiamo
per conto nostro un meritato sarcasmo e ci rimproveriamo da soli. Tanto noi/siamo sempre della razza/di chi rimane a terra.
“Ringollatevi tutti / il vostro sconcio pettegolezzo / e che vi si
strozzi nella gola! / Largo! Sono il poeta!” (in memoria di
Palazzeschi)
Nessun commento:
Posta un commento