lunedì 6 maggio 2013

La fatica di Sisifo: la costruzione della pace


"La fatica di Sisifo: la costruzione della pace"
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati.

Intervento tenuto a Palazzo Pantaleo, il 7 luglio 1994, in occasione dell'incontro - organizzato dal Comitato "Non c'è pace senza giustizia" - con il sindaco di Sarajevo, Muhamed Kresevljakovic

Il sogno jugoslavo di uno stato multietnico, capace di federare e far convivere in un comune progetto popoli tormentati da conflitti e rancori storici, sembra essersi definitivamente infranto. Sorprende la rapidità con  cui, nel giro di 2-3 anni, è cresciuta la diffusa persuasione dell'incompatibìlità tra popoli sino a poco fa ancora fortemente intrecciati ed assai mescolati in molte regioni del paese (oltre che nell' emigrazione). Ma ii demone nazionalista è così: si diffonde con grande rapidità, al pari del razzismo o del fanatisrno religioso distingue con nettezza tra "noi" (amici) e "loro" (nemici), fa rapidamente proseliti, emargina (e magari punisce) come traditore chi non è d'accordo e non canta nel coro, e si assiste così alla veloce distruzione del "fondo comune" che teneva insieme genti diverse.
Molto tempo fa avvertiva lo scrittore croato Krleza: la Jugoslavia è come una bettola, piena di avventori pronti a spegnere le luci per dare mano ai coltelli. Ora hanno spento la luce. E non ci sono miracoli o scorciatoie. Non c'è altra strada che la soluzione pacifica, negoziata, rispettosa delle esigenze di parti che oggi sembrano votate alla convinzione "mors tua, vita mea" e che invece dovranno re-imparare a convivere in una regione europea,in una Europa che non può convivere né con uno scenario Beirut né con uno scenario Belfast. Una Europa che non tuttavia non può pensarsi senza il Mediterraneo, perché è nata nel Mediterraneo, che non è e non può essere solo un "mare del passato".
Il nome greco del Mediterraneo era "mesogaios" ("tra le terre"), una sepa razione che era anche coniugazione, visto che un altro nome era "pontos", ponte che esprime distacco e congiunzione con l'Altro. Oggi purtroppo il Mediterraneo non sembra più ii mare della scoperta, dell'attraversamento,
non è più un grande spazio di comunicazione ma una barriera che tiene
distanti gli "intrusi", che isola e divide. Una storia sciagurata lo ha trasformato, da straordinaria opportunità di conoscenza e di scambio, in luogo chiuso fatto di ostilità e di impenetrabilità. Il mare ha mutato la sua natura, trasformandosi in muro, frontiera.
Come ha detto l'autore "Mediterraneo", Pedrag Matvejevitch, l'Europa
pretende di assumere una forma senza riferimenti al "suo" mare, il "mare primo", la "patria dei miti". Il Mediterraneo rimane come un dato di fatto residuale, non è un progetto né per la ricca sponda nord né per la povera sponda sud. E così quel sud che è stato l'inconscio del mondo, il ventre da cui sono uscite le civiltà, sembra destinato a diventare un mondo di "ex". La Jugoslavia è la tragica metafora di un fallimento: il sogno della realizzazione di una convivenza all'interno dei territorio multietnici o plurinazionali, dove s'incrociano e si mescolano culture variegate e religioni differenti, sembra rovesciarsi nell'apocalisse.
"Da Oriente a Occidente, in ogni punto è divisione". Questa citazione di Leonardo, che sembra una centuria di Nostradamus, bene si applica alla ex Jugoslavia: frontiera tra Oriente e Occidente, falla tra la cattolicità latina e l'ortodossia bizantina, tra la cristianità e l'Islam. Primo paese del Terzo mondo in Europa o primo paese europeo nel Terzo mondo, è difficile dire a quale categoria questo paese possa appartenere, fra la tradizione asburgica e quella ottomana. Mentre i giovani abitanti della sponda sud sono lacerati da un'alternativa insolubile: modernizzare l'Islam o islamizzare la modernità? In questo grande anfiteatro sembra che si reciti sempre lo stesso repertorio, con gli stessi gesti e le stesse parole, e l'incapacità della parola nuova, della liberazione verso il futuro, ha alimentato ormai una orribile corsa verso il passato.
Una parte di questa Taranto ha sempre cercato di contribuire al dialogo interetnico e rafforzare tutti gli impegni che in questo senso vengono esercitati da coraggiose minoranze controcorrente che esistono in tutti i territori della ex Jugoslavia. Un gruppo di tarantini partecipò, nel Natale del '92, alla marcia su Sarajevo organizzata da "Beati i costruttori di pace", con alla testa il non dimenticato Mons. Tonino Bello, vescovo di Molfetta. Alcuni tarantini collaborano con i campi profughi insediati fra Bari e Foggia, con il sindaco di Molfetta Guglielmo Minervini. Collaborano al progetto per la ricostruzione della Biblioteca di Sarajevo. Sarebbe ora che nel Centro storico di Taranto, che è un "testo" essenziale di questa nostra storia mediterranea, si promuovesse un centro studi sul Sud Europa. E che si promuovano strutture di accoglienza per evitare il moltiplicarsi di sempre nuove divisioni e conflittualità.
Non si tratta di arginare l'esplosione di una follia localizzata e anomala.
Con la fine dell'ordine bipolare stiamo assistendo all'esplosione di una miriade di guerre civili. Sempre più crudeli, sempre più incontrollabili: quella che, nel suo ultimo libro, Hans Magnus Enzensberger chiama la metastasi della "guerra civile molecolare". Una nuova peste, dalla quale l'Italia è tutt' altro che immune. Sarajevo può essere ovunque. Per questo dobbiamo sempre di nuovo ripartire alla ricerca della "nuova spiaggia". Sempre di nuovo, come Sisifo, dobbiamo riprendere a spingere fino alla sommità del monte un macigno, il macigno della pace, che purtroppo riprende sempre a  rotolare.

Nessun commento:

Posta un commento