martedì 7 maggio 2013

Note sull'antifascismo di terra jonica

"Note sull' antifascismo di terra jonica"
di Roberto Nistri

© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati.

Il testo riproduce parte delle relazioni tenute dall'autore in una serie di dibattiti organizzati dallo SPI-CGIL, il 26-27-28 aprile 1983  negli incontri tenuti presso il Circolo Ilva con studenti degli istituti superiori, il 29 aprile nell'Assemblea dei lavoratori dell'Arsenale della Marina Militare.

Una comprensione scientifica del passato non può comportare una amnistia generalizzata, anzi se amnistie possono essere legittime da un punto di vista politico e giuridico, non lo sono affatto dal punto di vista della storia, che deve inchiodarc individui e gruppi alle loro responsabilità.
Crediamo che lo storico debba studiare gli eventi con la massima scrupolosità, comprendendo le ragioni degl uni e le ragioni degli altri, ma non per questo ci sentiamo di porre sullo stesso piano la vittima e il torturatore, la violenza dello schiavista e la violenza che lo schiavo esercita per liberarsi. Possiamo ben comprendere le ragioni del potere romano e quelle delle autorità giudaiche  ma, diciamolo francamente, una delle immagini - cardine della nostra civiltà è quella di un uomo in croce, quella croce che era la condanna degli schiavi, dei poveracci, degli ultimi. Comprendere sì, oggettivamente, la storia. Ma cosa comprendiamo, se dimentichiamo che la storia è lo sforzo dell'uomo per liberarsi dalla croce dell'oppressione, dell'intolleranza, dello sfruttamento?
Non possiamo accettare una storiografia alla Ponzio Pilato che, auspicando il superamento dell'antifascismo e l'avvento di una società deideologizzata, favorisce solo l'asservimento dell'uomo alla rivoluzione tecnologica e il culto feticistico del mercato e del più squallido consumismo. Lo studio della storia non deve pacificarci qualunquisticamente dicendo che siamo tutti della stessa pasta, ma deve anzi servire a tener fermo un criterio di giudizio, che nasce dalla storia stessa: un criterio forte scritto col sangue di 50 milioni di vite umane. Non abbiamo le idee chiare su cosa sia il bene, ma quei 50 milioni di morti nell' Apocalisse scatenata dal nazifascismo ci indicano con chiarezza cosa è il male.
Ci premeva svolgere queste considerazioni, proprio per chiarire il forte impegno civile, che ha caratterizzato la recente ricerca storiografica sulla città di Taranto, una città che particolarmente ha sofferto di amnesie, cbe ha devastato la propria memoria storica, illudendosi che si possa conquistare il nuovo soltanto perdendo l'antico. Una città che è stata attraversata dai miti del più acritico e vorace consumismo, oggi comprende che per conquistarsi un futuro sensatamente progettato, deve recuperare
e valorizzare la propria memoria e i segni del passato. Una memoria che dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni è senz'altro quella di una robusta tradizione antifascista, della quale dobbiamo essere orgogliosi. Dovremmo riscoprire tutto l'antifascismo meridionale, che è stato appannato dalla più vistosa presenza del fenomeno resistenziale e poi marginalizzato da una storiografia ruotante sull'asse Roma-Milano. Resistenza ed antifascismo finirono per coincidere ma non sono la stessa cosa: il secondo contiene il primo. L'antifascismo è un movimento più vasto politicamente e anche territorialmente più esteso. La Repubblica è nata dalla Resistenza ma è stata preparata dall' Antifascismo che, minoritario e diversificato, ha comunque avuto una presenza in tutta la penisola. 
Dopo 40 anni abbiamo potuto ricostruire una prima storia dell' antifascismo tarantino: in una città promossa dal fascismo capoluogo di provincia e che godeva economicamente, attraverso l'Arsenale, di tutta una strategia di rilancio della produzione bellica, in questa "Taranto città tre volte fascista" , "perla del regime", l'antifascismo non ha mai smobilitato un momento, profondamente radicato nel cuore della classe operaia. E parliamo di classe operaia, perché gli elenchi dei perseguitati dal Tribunale Speciale forniscono quasi tutti nomi di umili lavoratori: a Taranto, e questo è un elemento storico di grande importanza per comprendere le evoluzioni successive. Non c'è stato un antifascismo borghcse e intellettuale, ma solo un antifascismo proletario, caratterizzato da una tensione più sociale che non ideologica, attaccato a quella solida tradizione di organizzazioni operaie che era stata violentcmente smantellata dal fascismo (un fascismo che, è bene ricordare la sua peculiarità nel quadro meridionale, è nato prima in città per poi svilupparsi nelle campagne).
Dall'assassinio dell'operaio del Tosi Raffaele Favia, nel luglio del ' 21, si snocciola tutta una sequenza di attentati e di persccuzioni da parte di uno squadrismo protetto dal prefetto, armato dalle autorità militari, foraggiato dai galantuomini locali. Le camere del lavoro vengono incendiate, le avanguardie sindacali dei cantieri Tosi vengono licenziate, il 28 aprile del '22 gli squadristi uccidono il comunista Giuseppe Migliaresi, poche settimane prima della marcia su Roma viene assaltata a colpi di pistola e di bombe a mano la casa del leader Odoardo Voccoli. Il fascismo trionfante esalta il ruolo di Taranto come piazzaforte militare, lega a sé i ceti medi, ma non riesce a trovare consenso negli ambienti operai che, pur condizionati dalla struttura statal-militare della produzione, non prenderanno mai la tessera del PNF. Con gli arresti del ' 26, l'organizzazione operaia viene decapitata, ma le radici rimangono profonde e vigorose.
Il comportamento rigoroso e intransigente tenuto dagli antifascisti in carcere, trova una testimonianza esemplare nella figura del dirigente comunista Odoardo Voccoli, condannato a 12 anni di carcere, che mai conosce un momento di cedimento, malgrado lo sfascio economico della sua famiglia e la persecuzione nei confronti dei suoi figlioli uno dei quali, Todol, morirà in carcere (come in carcere muoiono i fratelli Alessandro e Federico Mellone). Dopo il verdetto, scrive alla compagna Assunta: "I deboli si accasciano, chi viene colpito per la sua fede non deve impallidire dinanzi alle conseguenze che gli derivano dall'aver troppo amata la sua idea". I diari scritti in carcere indicano come la categoria dell' antifascismo assuma veramente valenze universali: il "non mollare" come capacità di resistenza dell'indignazione, della solidarietà e della speranza, di fronte
 a tutti i tentativi dell' oppressore di spezzarti la coscienza, di ridurti a cosa fra le cose. Di fronte alle pressioni dei questurini perché venga firmata la domanda di grazia, rimane sempre la libertà di dire no, di non "dimettersi da uomini", come scrive Odoardo. La "scuola del carcere" è la grande università alla quale si sono iscritti questi organizzatori della classe operaia, temprando quelle capacità e quelle conoscenze che daranno linfa vitale alla nostra Repubblica.
Nel '32 l'amnistia libera Odoardo e gli altri carcerati, che riprendono subito il loro dovere di oppositori al regime, di nuovo arrestati nel '34. Nel '36, mentre la guerra in Etiopia è in pieno svolgimento, Taranto è pervasa dal mal d'Africa e si canta a voce spiegata " Faccetta nera", la morte del figlio di Odoardo, Todol, è occasione per una vera manifestazione antifascista, a via D'Aquino. Da un rapporto dello stesso anno dell' ispettore Calabrese - Aversini, apprendiamo che a Taranto, "dove maggiormente alligna il comunismo tra i centri pugliesi per la numerosa classe operaia ivi residente", nonostante le pene inflitte dal tribunale speciale, "coloro che hanno radicato nell'animo la fede comunista non si sono intimiditi". Anzi: "essi riescono a malapena a trattenere l'entusiasmo col quale seguono i sanguinosi rivoluzionari avvenimenti spagnoli".
A differenza della vicina Bari, a Taranto gli uomini di cultura non offrono il minimo segnale di maturazione di una sensibilità antifascista: abbiamo intellettuali di regime, come Alessandro Criscuolo, che partorisce reboanti e sconclusionate epigrafi basso-dannunziane oppure, nel migliore dei casi, l'afascismo tutto cerebrale del bibliotecario Vito Forleo. Gli antifascisti tarantini, tutti semplici operai, artigiani, pescatori, privi di qualunque supporto della "intellighenzia" locale (un caso a sé, politicamente poco rilevante, è dato dal poeta Michele Pierri), si stringono attorno ai vecchi dirigenti proletari (Voccoli, Latorre, Candelli, De Falco) che si presenteranno come gli autentici punti di riferimcnto dopo la caduta del fascismo.
La persecuzione contro gli antifascisti continua fino alle condanne del febbraio '43. Al momento dell'armistizio, i 250 soldati tedeeschi si allontanano da Taranto senza alcuno scontro, mentre le prime resistenze si incontrano a Castellaneta. Le forze anti fasciste si trovano a guidare un processo di transizione la cui complessità è ancora da chiarire.
Se al Nord il dopoguerra inizierà il 25 aprile '45, il Sud vive un particolare dopoguerra fra il'43 e il '45, ed è ancora tutto da studiare quanto accadde in quattro province pugliesi (Brindisi, Lecce, Taranto e Bari) che costituirono inizialmente l'area territoriale entro la quale lo Stato italiano, nella persona del re, poteva esercitare la sua sovranità. E nelle "province del re" si sintetizza un vischioso processo di continuità e di trasformazione, una inscindibile mescolanza di vecchio e di nuovo. La Puglia diviene il ponte di passaggio tra l'Italia monarchica e fascista e l'Italia che si apre alla nuova democrazia. La disgregazione del blocco dominante trova un elemento di forte ricomposizione nella monarchia.
La separazione tra corona e littorio che in altre regioni si effettua drammaticamente perché i simboli dei Savoia restano come emblema della. continuità dell'Italia contro le armate tedesche e la Repubblica Sociale, nel Sud - in larga parte risparmiato dalla guerra civile - avviene in maniera indolore. Le conseguenze sono importanti per quanto riguarda i meccanismi di ricambio fra vecchia e nuova classc dirigente: al Nord la selezione e la legittimazione sono state determinate dal basso, sul terreno della lotta partigiana, nel fuoco dello scontro armato, mentre al Sud la transizione è nel contempo più brusca e più vischiosa, riciclando la vecchia classe dirigente all'ombra di Comitati di Li berazione che non hanno liberato niente.
Quella diversa modalità di separazione fra corona e littorio permise nel Mezzogiorno una mimetizzazione maggiore delle forze e degli uomini che avevano avuto un ruolo importante durante il fascismo, e le conseguenze si sono fatte sentire sino a tutti gli anni Cinquanta. Ma, per quello che riguarda il nostro territorio, dovremmo aggiungere altri elementi interessanti: 1) in Puglia la continuità delle istituzioni statuali ha inceppato un autentico processo di ricambio politico, ma anche ha contenuto i guasti operati altrove dall'amministrazionc alleata, come il recupero di posizioni di comando della mafia in Sicilia; 2) la Puglia ha espresso una significativa tensione sociale (a Taranto, scioperi ai cantieri navali, l' assalto alla Prefettura...) attraverso la quale ha avuto modo di
manifestarsi il protagonismo cIelle classi subalterne e la sua volontà di trasformazione sociale; 3) quella vigorosa tradizione antifascista ha avuto un ruolo nel processo di transizione esprimendo una cultura meridionale che da tempo aveva fatto del Mezzogiorno un problema nazionale, indicando delle soluzioni avanzate, che non hanno trovato le gambe per concretizzarsi adeguatamente, ma hanno posto le basi per una possibile rinascita.
Concludiamo dicendo che un discorso storico su quegli anni cruciali deve fare i conti con una realtà fortemente contraddittoria. Basti pensare alla stridente diversità con cui, al di qua e al di là della linea gotica, viene vissuto l'autunno-inverno del '44-'45. Mentre al Nord le formazioni partigiane affrontano l'ultima sanguinosissima fase della Resistenza, a Sud l'unità antifascista è già sfilacciata e incomincia a funzionare la seduzione dell"'Uomo Qualunque", la rivista che dice "Abbasso tutti!" riaggregando nostalgici e malcontenti. Il risultato è che il 25 aprile, quando secondo le generose illusioni dell'Italia partigiana dovrebbe cominciare a soffiare il "vento del nord", nell'Italia già liberata si è fatto in tempo a consumare tre crisi di governo, la rottura di fatto della unità ciellenistica, il fallimento dell' epurazione, gli effetti devastanti di una massiccia inflazione, la riorganizzazione delle forze moderate filofasciste, la repressione nelle campagne dei primi moti contadini. Parri, Longo, Pertini e gli altri capi partigiani che sfilano in testa ai cortei nelle città appena liberate, non possono rendersene pienamente conto, ma il futuro che loro immaginano di poter costruire ex novo è già in gran parte ipotecato da tutto ciò che è avvenuto nell' altra Italia, e si tratta di un futuro dove gli elementi della "continuità" saranno, se non proprio più numerosi, almeno pari a quelli della "innovazione" e della "rottura".
Ma proprio per questo è da rivalutare il ruolo di quei vecchi antifascisti meridionali che hanno continuato a funzionare come ideale baluardo democratico nei difficili anni della ricostruzione, e il cui insegnamento, già negli anni della Resistenza, ha  fruttificato sui più diversi terreni, fornendo un luminoso esempio di fermezza e rigore morale. Quella fermezza che troviamo in tanti soldati meridionali che, trovandosi al nord, si sono dati alla macchia organizzandosi nelle formazioni partigiane. Quell' esempio "di rigore, di pulizia, di modestia" che Enzo Biagi ricorda della figura di Pietro Pandiani, il tarantino "Capitan Pietro", un comandante partigiano che non volle fare carriera, che rimase sempre un uomo schivo e riservato, che non cercò onorificenze e buoni posti.
La città di Taranto ha voluto ricordare questo valoroso combattente, indicando alle giovani generazioni la virtù del suo silenzioso eroismo, del
suo disincantato ma infrangibile rigorismo morale, che può valere come sano correttivo dei guasti della società dello spettacolo e del rumore, che deve valere come esempio della parte più nobile dell' anima meridionale e tarantina.
Nel maggio del 1988, per iniziativa del sindaco Mario Guadagnalo, con la partecipazione delle Associazioni Partigiane A.N.P.I. - F.I.V.L. - F.I.A.P. ELA.P. e della 1° Brigata "Giustizia e Libertà" della Divisione Bologna,
dopo gli interventi del Professor Roberto Nistri, dell'avvocato Francesco Berti Arnoaldi Veli (Presidente Istituto Regionale Storia della Resistenza in Emilia Romagna) e di Aldo Aniasi (Presidente Nazionale F.I.A.P.), i giardini antistanti la sede dell'ex Enpas sono stati dedicati a Pietro Pandiani, capitano medaglia d'argento al valore militare. I tarantini hanno voluto onorare questo loro concittadino dedicandogli un cippo marmoreo in ricordo della lotta partigiana e dei valori a cui essa rimanda: libertà, democrazia, tolleranza, giustizia sociale.


In occasione della manifestazione venne pubblicato un opuscolo celebrativo, del quale riportiamo una scheda biografica sul capitano Pietro ed un ricordo del giornalista Enzo Biagi.
 

Pietro Pandiani nasce l' 11 febbraio 1915 a Taranto, da una famiglia di tradizioni garibaldine: il nonno, Pietro anch'egli, aveva partecipato alle Cinque Giornate di Milano rimanendovi ferito, poi alla difesa di Roma nel 1849, con le truppe garibaldine. Aveva poi seguito Garibaldi nelle sue campagne di guerra. Di questo comasco (di Sueglio sopra Dervio), sposatosi con una tarantina, Francesca Pepe, e stabilitosi a Taranto, Pietro e suo fratello Bernardo conservano l'amore per la libertà che li guiderà nella resistenza.
Pietro sceglie la carriera militare in artiglieria; poco dopo essere uscito dall'Accademia viene inviato in Spagna, coi reparti dell' esercito italiano. Vede, dall'altra parte, le prime esperienze di guerriglia che più tardi si troverà egli stesso a vivere. Allo scoppio della guerra, Pietro è in Africa settentrionale col fratello: entrambi vengono feriti in Marmarica. Pietro ottiene il trasferimento a Bologna, dove Bernardo è ricoverato presso l'Istituto Rizzoli, sotto le cure del professor Oscar Scaglietti che asseconda i primi collegamenti con il movimento antifascista. I fratelli Pandiani conoscono così l'avvocato Mario Jacchia (poi Medaglia d'oro alla memoria) che li introduce nel Partito d'Azione. Si legano con Mario Bastia, altro martire della resistenza bolognese, con Pietro Foschi e con Gianguido Borghese.
Infine, nel giugno 1944, i fratelli Pandiani vengono inviati a Gaggio Montano sull' Appennino bolognese dove s'è appena costituito un gruppo partigiano, "GL Montagna" del quale il ventinovenne Pietro assume il comando. Il gruppo diventa la 1° brigata "Giustizia e Libertà" della divisione Bologna, che il "Capitano Pietro" - il nome di battaglia che i partigiani subito danno al loro comandante - guiderà con mano sicura fino alla liberazione di Bologna. Biagi lo ha ricordato come un uomo schivo, alto e robusto che "parlava poco e adagio con accento meridionale". Nella sua formazione dei cento ragazzi che non avevano caserma nè rancio, nè armi nè scarpe, che dormivano fra gli abeti e i fucili andavano a cercarseli, militavano anche il fratello professore  (nome di battaglia "Nando") vice comandante della brigata che sarà decorato con la Medaglia d'Argento e la sorella Laura, appena ventenne.
Il Capitan Pietro ("captain Peter", dicevano gli americani, "mon capitain", lo chiamava Napoleone-Jacques Lapeyrie, un partigiano francese aggregato alla brigata, in seguito fucilato dai tedeschi a Castelluccio) insegnò come adoperare il mitra e il mortaio, come andare all'attacco e non aver paura.
La "Giustizia e Libertà" agisce nella zona di Gaggio Montano, Lizzano in Belvedere, e di Fanano nel modenese, sistematicamente impegnata negli scontri con i nazi-fascisti; rientra a Ronchidòs dove s'è costituita, e dove negli ultimi giorni di settembre le S.S. seminano la morte nella sanguinosa catena di eccidii indiscriminati che vanno da Cà di Berna sopra Lizzano in Belvedere sino a Marzabotto. La brigata il 12 ottobre 1944 libera Gaggio Montano insediandovi il C.L.N., e restando unita in armi; partecipa all'azione del 28 ottobre 1944 sul crinale di Monte Belvedere assieme alla "Matteotti" di Toni Giuriolo e alla "Garibaldi" di Mario Ricci ("Armando"). Combatte poi sul fronte di Grizzana e di Livergnano, aggregata al gruppo italiano di combattimento "Legnano", col quale entra in Bologna il 21 aprile 1945, il giorno stesso della liberazione della città. Anche a lui sarà conferita una Medaglia d'Argento al valor militare.
Pietro conserverà intatti gli ideali della lotta antifascista; lasciato l' esercito, vive con pulizia e riservatezza.  Muore il 6 novembre 1972. Riposa a Merano, nel sepolcro di famiglia. La sua brigata viene premiata con la Medaglia d'Oro concessa alla memoria di uno dei suoi ragazzi più giovani, Rossano Marchioni ("Binda"). Per Pietro Pandiani, il migliore riconoscimento è nella gratitudine e nell'affetto dei suoi uomini, nel rispctto e nell'ammirazione di tutti coloro che non dimenticano da quali radici e per quali speranze sia nata la libertà della nostra Repubblica.

Come lo ricordo

Nella storia di ognuno di noi c'è, davvcro, almeno una persona che non si può dimenticarc: io penso anzi che gli incontri che contano sono di più.
Tra quelli che hanno segnato la mia vita, tra i più indelebili, c'è il Capitano Pietro; per noi giovani uomini di "Giustizia e Libertà" è stato non solo uno straordinario comandante, era anche un esempio di rigore, di pulizia, di modestia.
Voleva proteggerci, e non solo dai pericoli della guerra, ma anche dagli equivoci della politica, dalle furbizie delle piccole strategie, dai compromessi disinvolti.
Ha vissuto con una rara coerenza: quando tutti, o quasi, potevano avere lui non ha chiesto nulla. Non è stato un reduce. Non ha fatto carriera. Non ha cercato, né gli han dato, un buon posto. Lo ha conservato, però, nel cuore dei suoi vecchi ragazzi, e il tempo, e i fatti che ci assalgono, rendono più acuto il rimpianto.

Enzo Biagi

Nessun commento:

Posta un commento