martedì 13 novembre 2012

Taranto,"città criminale"


Taranto, “città criminale”.

          A partire dal 18 ottobre del 2006, quando il Commissario prefettizio Tommaso Blonda ebbe a dichiarare il dissesto del Comune di Taranto, la più impegnata pubblicistica jonica ha ritenuto doverosa una indagine esplicativa sullo sconcertante “urbicidio”: una città accoppata nelle finanze e nell’onore, un dissesto di 500 milioni di euro, la bancarotta come crisi di identità e di speranza (1).
La portata dello sconquasso, in termini di vergogna civile e di penalizzazione finanziaria di lunga durata, non può essere ragionevolmente riducibile a malaugurato incidente o invasione degli “ultracorpi”: alieni che, sotto mentite spoglie, occupano tutti gli spazi di potere e succhiano avidamente le risorse vitali dei buoni cittadini. La portata della crisi è ben più complessa: come è potuto accadere che una città non povera né marginale, di cultura bimillenaria e di perdurante rilevanza strategica, la Taranto siderurgica ed europea, promettente modello di sviluppo per il Mezzogiorno negli anni ’60 e ancora oggi dotata di un grande impianto industriale con 15.000 dipendenti, la nuova Taranto alla quale lo Stato unitario non ha mai fatto mancare pubblici finanziamenti, come ha fatto a diventare la più indebitata d’Italia e la più inquinata d’Europa, consegnandosi ad una sequela di sindaci uno dopo l’altro incappati più o meno pesantemente nelle maglie della Giustizia? Calzerebbe a pennello una citazione da Missione Alphaville di Jean-Luc Godard: “gli abitanti di Alphaville non sono normali, sono il prodotto di una mutazione”. La questione rimane comunque aperta.
          Un importante apporto conoscitivo è offerto dalla recente pubblicazione di Taranto, tra pistole e ciminiere. Storia di una saga criminale, di Nicolangelo Ghizzardi e Arturo Guastella (2). Il prezioso testo  affronta un altro intrigante paradosso: come è stato possibile che una città tradizionalmente priva di una consistente presenza di criminalità organizzata  (3) abbia potuto produrre, sul finire degli anni ’80, un’agguerrita e ramificata organizzazione malavitosa, competitiva con le grandi mafie operanti sulla scena nazionale? Certamente Cito e Modeo non possono essere considerati frutti di stagione senza primogeniture “ culturali”. L’accorta indagine  di Ghizzardi e Guastella prende l’avvio da una docu-fiction, Taranto - città criminale, che si è aggiudicata il primo premio nella sezione Miglior Documentario al Roma Fiction Festival. Il titolo è ovviamente uno stereotipo al pari di “città dei due mari”, “piazzaforte militare”, “capitale dell’acciaio”… I cosiddetti marcatori identitari altro non sono che una sequenza storica di finzioni/funzioni idonee al riconoscersi e al farsi riconoscere. Giustamente Calvino invitava a non confondere mai la città col discorso che la descrive: un surplus di senso rimane non riducibile alle pur inevitabili invenzioni/costruzioni, benevole o malevole che siano. Del resto Taranto sembra soffrire non di una carenza ma di un eccesso d’identità (4). E comunque lo stereotipo oraziano della molle e imbelle (gaudente e maldisposta alla guerra) Tarentum ha illuminato tutto il periodo preindustriale, mentre l’icona della Città criminale può solo fare la fortuna della folta schiera di scrittori di noir. La primogenitura tocca allo scrittore criminologo Giancarlo De Cataldo, che ha imbracato la città ebalica nella cifra identitaria di “Poisonville, provincia e metafora d’Italia, Poisoncountry” (5).
          Gli autori di Tra pistole e ciminiere volevano raccontare la storia di una singolare banda criminale, il clan dei Modeo, che ha spadroneggiato a Taranto fra gli anni ’80 e i ’90, e si sono trovati a ragionare su tutti i 150 anni della storia della nuova Taranto, i 150 anni della nuova Italia.
La storia maior e la storia minor si sono intrecciate indissolubilmente almeno in due processi di portata epocale: l’allestimento di un imponente apparato navalmilitare (cento anni fa l’Italia dichiarava guerra alla Libia) e la strategia dei “poli di sviluppo” per il riscatto del Mezzogiorno in virtù dell’acciaio. Due monoculture industriali ben diverse ma, a ben vedere, un continuum di industria di Stato, uno sviluppo “donato” calato dall’alto, indifferente alle esigenze e risorse del territorio circostante, impossibilitato a suscitare un indotto tecnologicamente diversificato e capace di misurarsi con un mercato “normale”. Considerato che una morfogenesi industriale produce non solo una peculiare organizzazione della produzione, ma anche un particolare modo di pensare e quindi un carattere sociale, perché meravigliarsi per il mancato sviluppo - in oltre cento anni di monocrazia statale - di una autentica borghesia imprenditoriale?  Per l’individuo e per il gruppo la legge dell’adattamento spinge a ricercare un beneficio possibilmente superiore a quello dei competitori; a Taranto la concorrenza è stata surdeterminata da un modello di produzione eterodiretta, in una logica subalterna di appalti e subappalti che conferisce autorità al padrinaggio politico. Come notano Ghizzardi e Guastella, è straordinario che in una realtà marinara, “nessun imprenditore ha mai avuto il coraggio di investire capitali nella creazione di un’impresa armatoriale”.
          E’ convinzione comune che la jungla siderurgica degli appalti negli anni Settanta abbia prodotto il brodo di cultura dell’economia criminale degli anni Ottanta. Ma nell’età aurea dell’Arsenale, ai tempi del “padrino” Federico Di Palma, deputato per tre legislature e sottosegretario per la guerra, l’importante cantiere Salerni e Spangher forniva all’Arsenale meno costosa manodopera esterna (avventizi esposti al licenziamento in contrapposizione agli operai stabili) trattenendo, per l’intermediazione, il 25% sui cottimi pagati dall’Arsenale. Il gioco degli specchi, in una storia sempre diversa e sempre eguale, è singolarmente suggestivo. Il grande dissesto del 2006 richiama subito alla memoria la bancarotta municipale del 1872, con la stessa modalità  di estinzione cinquantennale del debito. E ancora: uccidendosi con un colpo di pistola in fronte nel maggio del 1984, l’imprenditore tarantino Gennaro Grandinetti strozzato dall’usura, come si legge nell’acuta sentenza del Pretore Sebastio, incominciava a gettar luce sul cosiddetto “caso Taranto”. Ma anche su questo evento aleggia un’ombra del passato: il fantasma di Domenico Sebastio, il Barone di Santa Croce che, dopo aver fumato un sigaro, si sparò alla tempia nella stazione di Napoli il 2 luglio 1882, per il fallimento della sua Cassa Tarantina. Combattente contro i privatizzatori del Mar Piccolo e i tifosi della militarizzazione del territorio, era stato osteggiato dalle logge massoniche e strangolato dagli usurai. Ma altre ombre compaiono e scompaiono: il Cavaliere Oscuro che volle farsi Re, quel Cito Furioso che minacciava sfracelli a destra e a manca, non poteva non richiamare il fantasma dell’antico Filonide, un ubriacone che pensava di replicare alle richieste degli ambasciatori romani  orinando sulle loro toghe (6). E così il processo Ellesponto del 1993 rinvia alla memoria di quel lontano processo alla “associazione della mala vita tarantina” del 1893: due momenti storici fra loro incommensurabili, tuttavia con una comune aria di famiglia, di “facce di sempre”.
           Le facili assonanze non devono comunque far smarrire il senso della distanza e delle proporzioni. Per esempio, Furti in Arsenale è stato un titolo-tormentone sulla stampa cittadina per tutto il Novecento: quasi sempre ruberia minuta. Nulla di comparabile al colpaccio da 40 milioni eseguito in area siderurgica, non raccolto dalla stampa ma rievocato da Ghizzardi e Guastella: “Il 28 ottobre 1989 Taranto, assediata dalla criminalità, riceve la visita pastorale di papa Wojtyla. Per l’eccezionale occasione viene allestito, nell’area dello stabilimento della Sidermontaggi s.p.a., un palco in tubolari di ferro che, a visita conclusa, previo smantellamento, è destinato ad essere trasportato nei depositi dell’Italsider. Materiale ferroso di ben 270 tonnellate che non arriverà mai nei depositi del IV Centro Siderurgico, in quanto ci penserà un compare del Modeo, tale Nicola Cippone, a farlo smontare in pieno giorno, farlo caricare sui camion e portarlo a destinazione ignota, senza che nessuno avesse qualcosa da ridire”(7).
          Mettendo da parte il gioco delle ombre, la vicenda criminale ricostruita da Ghizzardi e Guastella si distende lungo un decennio. Il 1985 è l’anno nel quale lo spettro della crisi siderurgica si manifesta in tutta la sua drammatica realtà, su “Repubblica” Luigi Viola intona il de profundis per il Mito siderurgico,  il “Sole-24 Ore” classifica Taranto all’ultimo posto per il “benessere sanitario” e al penultimo per il “benessere socioculturale”, mentre si apre il “caso Taranto” e l’ex mazziere Cito avvia le prime trasmissioni di Antenna Taranto 6. Nel 1995 l’Ilva Laminati Piani verrà acquistata dal gruppo Riva, chiudendo l’era dell’acciaio di Stato in una Taranto stordita dal crollo dello statalismo come un Land della DDR. Nel cuore della crisi, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 1993, Giancarlo Cito è diventato sindaco sconfiggendo il magistrato Minervini. L’essere stato colto la notte della vigilia di Natale dell’89, a festeggiare con ostriche e champagne in casa del boss Claudio Modeo agli arresti domiciliari, non ha inquietato i suoi elettori. “Il deficit di cultura democratica è  spaventoso”, commentava  il giornalista Raffaele Gorgoni.
         La grande mutazione genetica della malavita tarantina risale ai primi anni ’80, con l’emergere di capi “ambiziosi e spregiudicati” come i capitani dell’appalto nel precedente decennio. La guerra per bande, con la sua scia di 160 morti ammazzati,  nasceva dall’inevitabile competizione per il controllo del territorio, ma la ballata per kalashnikov non deve nascondere il lato occulto dell’Impresa: fare affari con partner “puliti”, condizionare l’elezione del referente politico. Come ha scritto Giancarlo De Cataldo, “Il boss degli anni ’80 deve essere tanto bravo a sparare quanto a stringere alleanze con gli ambienti legali che contano. E’ la capacità di penetrare negli ambulacri del potere che contraddistingue il vero capo… L’uomo del destino per la mafia tarantina si chiama Antonio Modeo, detto il ‘messicano’ per via di una vaga somiglianza con l’attore Charles Bronson” (8).
           Nei suoi anni giovani Modeo ha incontrato la politica: l’insediamento nel 1972 nel cuore della Città Vecchia, in Via Di Mezzo, del gruppo di Lotta Continua. Nasce una effervescente banda rebelde, un incredibile amalgama di funzionari calati dal Nord e di panarijdde della Marina: U’gnure, Tonino u’grattine, Pasqualone, il mitico Salvatore detto Mustakì… Nel quartiere Tamburi fanno proseliti e s’impegnano nell’occupazione delle case. Un fratello del “messicano”, Nicola, è un militante di LC e il giovane Tonino subisce il fascino della forte carica antistituzionale del movimento. Vive il clima incandescente delle lotte operaie successive all’autunno caldo, partecipa agli scontri. Davanti ai cancelli dell’Italsider attende l’entrata o l’uscita degli operai con un fascio di copie di “Lotta continua” su un braccio e le sigarette di contrabbando in mano. Qualcuno ricorda ancora il suo strillonaggio: “Lotta continua… tre pacchetti mille lire” (9). In un altro contesto Tonino sarebbe forse diventato un eroico rivoluzionario, reputò invece più conveniente fare il capitalista, come i tanti cavalieri di ventura che - come indicano Ghizzardi e Guastella - avevano trasferito la pratica del “capolarato” dalle campagne alla selva oscura delle quattrocento ditte gravitanti attorno all’acciaieria. Dal corredo ideologico di Lotta Continua Modeo distillò un programmino niente male: “vogliamo tutto”, “riprendiamo la città”, “ lotta dura senza paura”.
          Già il 5 gennaio 1979 a Lucera Antonio Modeo viene affiliato alla Nuova Camorra Pugliese da Raffaele Cutolo in persona. Intanto a Taranto accadono cose inquietanti: mentre operano nella centralissima Corso Umberto ben novanta agenti del Sisde, dalla città parte il 12 agosto 1981 la falsa bomba sul treno Taranto-Milano, utilizzata per depistare le indagini sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. A dirigere le operazioni è il tarantino Francesco Pazienza, capo del Super Sismi e braccio destro di Gelli nella P2. Nello stesso periodo, in una villa di  lido Gandoli , otto neofascisti di Terza Posizione si preparano per favorire la fuga del terrorista “nero” Concutelli (10)
           Intanto Modeo ha incominciato a trafficare nel Mercato Ortofrutticolo del rione Tamburi, fra i primi dieci mercati italiani per giro d’affari; entra nel giro grosso degli stupefacenti e soprattutto viene  attratto dal più grande affare del capoluogo: l’appalto italsiderino. Con la sua ditta Italferro Sud si aggiudica l’appalto per la rottamazione presso lo stabilimento siderurgico (11).  Nel 1986 il clan governa sul tarantino, in regime di monopolio sulla mitilicultura grazie alla Cooperativa Praia a Mare, ed estende la propria influenza anche fuori della Puglia.  L’attività imprenditoriale s’intreccia con quella militare volta al controllo del territorio: a partire dall’uccisione, il 23 settembre 1988, di Don Ciccio Basile (esponente di rilievo della vecchia mala tarantina, antiquario, ristoratore e usuraio) prende l’avvio una storia lunga 160 morti. Nel conflitto fra i Modeo e i De Vitis e gli Scarci e i Di Bari  e poi fra le due frazioni dei Modeo, non mancheranno le vittime innocenti, ai cui funerali non presenzieranno i pubblici amministratori.
           La Commissione Antimafia comincia a tenere d’occhio amministratori come Alfonso Sansone, ******* **** e Cosimo Monfredi. Il democristiano Amalfitano denuncia nella pubblica amministrazione un muro di gomma trasversale che definisce Interpartito; fra i socialisti si scatena una polemica furibonda ma è ormai evidente la contiguità tra potere politico e potere criminale. Arrestato e condannato nel 1986, “il Messicano” sarà latitante fino alla fine dei suoi giorni grazie ad una falsa certificazione di lombosciatalgia e alla complicità  di una suora. Nel 1987 è diventato presidente dell’Assindustria Donato Carelli che ha costruito la propria fortuna con una impresa di pulizie attiva all’interno dell’Italsider: gestore di un ippodromo e di una emittente televisiva, diventa presidente del Taranto Calcio, ma inciampa nel “caso Taranto”, una storiaccia di corruzione che vede coinvolti anche due funzionari di polizia e tre magistrati. Qualche anno dopo, Carelli inciampa anche in un proiettile, sparatogli alle gambe da un misterioso sicario (12).
           Nel 1989 il rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia fa il punto sulla forte autonomia della criminalità jonica, sulla pericolosità delle neonate 145 finanziarie, sulla disinvoltura tarantina nella trattativa privata e negli appalti non regolari. Nel 1990 viene sparato alle gambe il democristiano Roberto Della Torre. Nel 1991 si registra a Taranto un bilancio di 54 morti. Il 7 di maggio viene ucciso Salvatore De Vitis, capo indiscusso del clan rivale dei Modeo. Il 16 di agosto Salvatore Annacondia (che in seguito rivelerà la complicità fra Cito e Modeo) mentre il “messicano” ritorna dal mare pedalando  su una bicicletta, con un revolver gli esplode un colpo alla testa  e, allontanandosi in Vespa, ancora un altro colpo verso il Boss che si accascia  sotto la pioggia  (13).







Note
1)    Cfr. P. STEA, Taranto da Cito a Di Bello, ovvero come “gioiosamente” si dissesta un Comune, Taranto, 2007; R. NISTRI, Taranto a vita bassa. Polveri e debiti di fine Novecento, Taranto, 2010.
2)     Nicolangelo Ghizzardi è attualmente magistrato di Cassazione con funzione di Procuratore della Repubblica. Per diversi anni ha svolto le funzioni di sostituto procuratore presso il tribunale di Taranto, sostenendo l’accusa nei più importanti processi alla criminalità tarantina. Arturo Guastella, giornalista dal 1971, ha diretto per 14 anni Videolevante ed è stato corrispondente dall’Italia e dall’estero per varie testate.
3)    “La malavita tarantina, fino ai primi anni ’80, ha avuto connotati assolutamente tradizionali, coerentemente con una economia rurale o proiettata verso la mitilicultura e la pesca” (N. GHIZZARDI-A.GUASTELLA, Tra pistole e ciminiere, Lecce, 2010, p.37). Si può solo ricordare il processo alla mala vita del 1893, riguardante 103 povericristi: il giornalista Antonio Rizzo finì con l’osservare che  quella popolazione di mezze calzette imprigionate nelle navate di S. Giovanni di Dio non meritava sì grandi clamori (R. AQUARO, Camorra a Taranto, Taranto, 1986).
4)    “Taranto non sembra disporre di una fondata immagine di sé che si sia in qualche modo storicamente determinata… assorbe le istanze altrui e non impone le proprie. La formazione storica dell’identità tarantina pare essere di tipo tettonico, dove uno strato si sussegue all’altro…senza mai fondersi in una struttura unitaria”; P. RESTA, Identità a confronto, Taranto, 1990, pag.143 e 145.
5)    G. DE CATALDO, Terroni, Milano, 1995, p.57. Il logo della “città avvelenata” viene dalla prima pagina di Piombo e sangue, un classico dell’hard-boiled-school: “le ciminiere svettavano alte, avevano ricoperto tutto di fumo giallo, conferendo ad ogni cosa un aspetto di uniforme mestizia (I grandi romanzi gialli di Dashiell Hammett, Milano, 1976, p.183). Con Hammett ci troviamo di fronte alla presa d’atto di un sistema sociale in fase pre-agonica, una dissoluzione senza speranza. E’ il passaggio epocala dal “giallo” al “nero” nell’evoluzione del romanzo poliziesco, correlato dello sviluppo, nel “capitalismo maturo”, dalla criminalità organizzata alla criminalità di Stato. La correlazione è massimamente esplicitata nel nuovo noir francese, per cui “l’assassino è il sistema”; cfr. E. MANDEL, Delitti per diletto, Milano, 1997. Per un verso la malamministrazione jonica sembra ulteriormente avvalorare la tesi di Manchette: il noir è la migliore chiave interpretativa di una società a sua volta anneritasi, in cui crimine e potere si sono fusi. Per altro verso, dopo aver imputato ad altri agenti (la Marina militare oppure l’Ilva) le responsabilità per l’irresistibile bruttificazione del territorio, bisogna ancora fare i conti con una patologia tutta tarantina: una classe non-dirigente che in 150 anni ha prodotto un solo leader politico ben noto su scala nazionale: Ciancarlo Cito, l’abominevole uomo dell’etere, populista e carcerato.
6)    Gli autori, a voler sottolineare l’immemore trascuratezza tarantina per la propria storia, hanno raccontato di una gaffe degli amministratori  (invero non una delle peggiori) nei confronti di una delegazione francese, guidata da un funzionario del comune di Parigi, che il 18 novembre 1972 si presentò al sindaco, per chiedere notizie sulla sepoltura del generale napoleonico Pierre Ambroise Chaderlos de Laclos, che risultava essere morto a Taranto. Smarrimento per il sindaco e i funzionari: si sapeva di una via detta dai tarantini Làclos ma nessuno sapeva nulla sul generale Laclòs. Bisogna sapere che nella commissione per la Toponomastica del 1951, alcuni “giacobini” operarono astutamente per onorare non tanto il  generale quanto il massimo romanziere illuminista e libertino del settecento, la cui opera, Les liaisons dangereuses, doveva ispirare i due grandi film di Forman e Frears. Bisognava muoversi con cautela, profittando delle scarse letture dei democristiani e aggirando l’opposizione di monsignor Ruggeri, sospettoso di un certo libro messo all’Indice. La soluzione venne trovata, onorando sulla targa non il sommo scrittore ma il generale inventore della granata. E così venne consacrata via Laclos ( cfr. A. RIZZO, Tastiere tarantine, 1992, p.33 e T. SCALINCI, Come negare a Laclos una tomba e una via?, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 17 settembre 1982). Al Sindaco rimaneva il problema della immemore sepoltura: vanamente il cimitero venne perlustrato da cima a fondo . Eravamo in  casa del giornalista Antonio Rizzo quando il disperato Direttore gli telefonò per chiedergli  soccorso : ridacchiando Rizzo esortò a sospendere ogni ricerca a S.Brunone, fra l’altro entrato in funzione un sessantennio dopo la morte del grande Artigliere, avvenuta il 9 agosto 1803. Sepolto non in terra consacrata, nel Forte sull’isola di San Paolo, la sua tomba - come hanno ricordato Speziale e Forleo - venne violata al ritorno dei Borbone e le sue spoglie disperse: “Forse per questo una pietosa leggenda vuole che nelle notti di tempesta il fantasma inquieto di Laclos unisca la propria voce a quella del vento” (M. GIRELLI RENZULLI, Il fantasma di Laclos sull’isola di San Paolo, in “Voce del Popolo”, 15 aprile 2007).
7)    N. GHIZZARDI - A. GUASTELLA, op. cit., pp. 160-161.
8)    G. DE CATALDO, op. cit., Roma, 1995, pp.45-46. Il capolavoro di De Cataldo, sconosciuto ai più, è una “operetta criminale” messa in scena nel 2003 dai Cantieri Teatrali Koreja con l’apporto musicale dei Sud Sound System: Acido Fenico. Ballata per Mimmo Carunchio Camorrista. Un’opera da tre soldi che racconta l’irresistibile ascesa e il declino di un “doppio” di Modeo, dalla umiliazione sui banchi di scuola alla “contestazione” nella città vecchia al “tutto e subito” garantito dalla onorata società. I Sud Sound cantano “i pesci grandi si fecero piccoli e i pesci piccoli si fecero grandi” e la grande mattanza e la lussuosa reggia protetta dal muraglione di Statte. E infine le onoranze a colpi di mitraglia per il Boss defunto: “Charles Bronson , non ti dimenticheremo mai !” Segue il disfacimento finale. Sulla saga dei Modeo, cfr. anche R. GORGONI, Periferia infinita. Storie d’altra mafia, Lecce, 1995, pp.160-226; S. M. BIANCHI, Geometra Cito, sindaco di Taranto, pp. 55-58, 75-76.
9)    La politica però dura poco: l’infatuazione frana sulla complessità degli equilibri interni al movimento, è difficile conciliare la propria vocazione di capo con i passaggi ideologici e le elaborazioni più o meno teoriche che segnano la vita interna della sinistra extraparlamentare di quegli anni” (R. GORGONI, op. cit., p.172).
10) Cfr. M. GABANELLI, “Io, Gelli e la strage di Bologna”, in “la Repubblica”, 30 gennaio 2009; Una base di “neri” a Taranto,  in”Quotidiano”, 10 gennaio 1982.
11) Il rapido incremento di potenza del clan Modeo va di pari passo con l’accentuarsi dei conflitti fra Tonino e i tre fratellastri Gianfranco, Riccardo e Claudio (tutti latitanti).  Il ruolo dirigente della madre Cosima Ceci (una sorta di “mamma Barker” famosa nel gangsterismo americano) non riuscirà a lungo ad evitare il tragico finale, finendo essa stessa uccisa, con l’onore dei funerali in diretta televisiva, grazie all’emittente AT6 di Giancarlo Cito; S. M. BIANCHI, op. cit., p. 57.
12) Il “caso Taranto” (già la titolazione brilla per vaghezza)  rimane una situazione di malaffare non molto chiara nella sua evoluzione e conclusione: “Qualcuno è giunto a parlare di una vera e propria organizzazione composta da politici, imprenditori, magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine che, approfittando soprattutto della crisi economica, si prefiggevano di mettere le mani sulla città riuscendo anche ad influenzare la composizione di una giunta comunale (N. GHIZZARDI e A. GUASTELLA, op. cit., p.71). Se la stampa cittadina è alquanto silente, quella nazionale mena gran scandalo a partire da un rapporto del Viminale in data 26 gennaio 1985: “… un agente in carcere per omicidio, un brigatiere arrestato per rapina, un altro agente ricoverato in clinica per aver minacciato alcuni colleghi… Il  responsabile della Sezione volanti sembra essere più alle dipendenze dell’imprenditore tarantino Carelli che del ministero dell’Interno… ha ricevuto in dono da Carelli una potente BMW come titolo di ringraziamento per l’attività di protezione che svolge a tutela dell’imprenditore, con scorte e vigilanza personale attraverso auto e uomini della polizia; ha costruito una villa impiegando anche personale della polizia; ha acquistato materiale da costruzione per alcune decine di milioni senza mai pagare e il commerciante non ha mai protestato per timore di eventuali fastidi da parte della polizia. Anche il capo della Squadra mobile  riceve utili dall’imprenditore Donato Carelli… ha ottenuto attraverso un prestanome la gestione del ristorante dell’ippodromo e ha acquistato un appartamento di 140 milioni, ma ottenuto per 90 grazie all’intervento di Carelli” (in “Panorama”, 2 giugno 1985). La Procura della Repubblica viene privata del suo Capo e di due sostituti procuratori. Le inchieste sui funzionari di Polizia verranno dimostrate prive di fondamento e altre inchieste finirono in prescrizione, eppure tutti considerano il “paradigma del ‘caso Taranto’ come incipit dell’esplosione malavitosa nella città dei due mari” (N. GHIZZARDI e A. GUASTELLA, op. cit., p. 72. Cfr. R. AQUARO, op. cit., pp. 49-50; “la Repubblica”, 29 maggio 1985; “Nuovo Dialogo”, 7 giugno 1985; “Gazzetta del Mezzogiorno”, 26 novembre e 5 dicembre 1985;  “Quotidiano”, 3, 12 e 13 dicembre 1985; “Corriere del Giorno”, 15 maggio 1987.
13) Il necrologio del “Quotidiano” (16 agosto 1990) su un uomo intelligente e spregiudicato, capace di “intessere rapporti anche con settori dell’imprenditoria e della politica” sembra l’agiografia di un imprenditore d’assalto (cfr. G. DE CATALDO, op. cit., p.51.  La morte di Modeo scatena ai massimi livelli la guerra per la successione, nei mercati si moltiplicano i raids armati. Non sostenuti dal sindaco Armentani, i commercianti tarantini prendono coraggio e, spronati da Maria Ruta presidente dell’Associazione, indicono una serrata. Durante l’imponente manifestazione, nel quartiere Paolo VI vengono sparati quaranta colpi di pistola: ormai si fanno avanti “giovani sanguinari guerrieri”.


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