martedì 13 novembre 2012

I misteriosi abitanti del pianeta Ilva


I misteriosi abitanti del pianeta Ilva
di Roberto Nistri


© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Galaesus", XXXIV, 2011.
I misteriosi abitanti del pianeta Ilva

Nell’ormai affollato panorama della nuova letteratura di terra jonica, spicca un volumetto di un centinaio di pagine che ha già suscitato, meritoriamente, diverse occasioni di pubblica discussione. Si tratta non di un romanzo o saggio storico-sociologico, bensì una sorta di esplorazione di un mondo ai più sconosciuto: la Ferropolis abitata dalla razza dell’homo metallicus, quell’Ilva una e molteplice all’interno della quale i “siderurgici” si giocano il loro soldo di vita. Per la prima volta dopo anni o decenni, si torna a parlare della condizione operaia, del lavoro in fabbrica. Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto (Lecce 2011) è il titolo azzeccato di questa sorta di reportage proposto dal giornalista Fulvio Colucci e dall’operaio scrittore Giuse Alemanno. Problematico e drammatico è questo paradigma della “invisibilità” in una città , la più industrializzata del Mezzogiorno, che in oltre un secolo di industrializzazione navalmilitare e statalsiderurgica ha ostentato la vistosa presenza di una classe operaia riconosciuta come nerbo insostituibile delle condizioni materiali di vita del territorio. La ben nota foto dell’uscita degli operai dall’Arsenale è una straordinaria icona del lavoro che rinvia direttamente a L’uscita dalle fabbriche, il protofilm dei fratelli Auguste e Louis Lumière, e suggerisce la diffusione nel sociale di una cultura del lavoro come “bene comune” da tutelare come l’acqua, l’aria e il paesaggio.

Nella pubblicistica ricorrente il tema della invisibilità riguarda in genere la polverizzazione di quel “bene comune”, smantellato dalle strategie della parcellizzazione e della precarizzazione, volte a delineare il tempo non libero ma vuoto del non-lavoro. Imprese a rete e telelavoro hanno sradicato il conflitto sociale, con la sottrazione di un luogo pubblico di lavoro. Fra deregolamentazione e volatilità d’impresa, le aziende fanno il massimo per dissolvere i grandi centri produttivi in una pluralità non di agenti ma di “agiti” che non si conoscono tra loro, siedono in provincia a un computer e lavorano a progetto senza garanzie di continuità. La crisi li costringe a farsi la guerra per conquistare brandelli di lavoro nero. Il diritto al lavoro si è trasformato in “colpo di fortuna”. I “post operai” salgono sui tetti e imitano i reality per infilare la loro paura nel circuito dei media. Come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato ma sopportato come un incidente dalla vita ormai brevissima? Da classe generale gli operai sono diventati semplici comparse del racconto sociale. Per bucare il video i lavoratori sardi hanno trasformato l’Asinara nell’Isola dei cassintegrati,ma anche una storia collettiva appare sempre come un caso isolato. In una girandola di trucchi mediatici e di malevoli effetti speciali, fra colpevolizzazione del sindacato e umiliazione del lavoro manuale, siamo invitati a riconoscere la scomparsa non solo della classe operaia ma addirittura del lavoro (1).

Eppure a Taranto resta e prospera un fabbricone né liquido né volatile, l’ultimo monumento al gigantismo industriale, un’impresa semifordista ben radicata e avvinghiata al territorio, e non puoi non accorgertene. La città e l’Ilva sono un tutt’uno (2). E ancora oggi, come quando scriveva Dino Buzzati, l’acciaio liquido nell’altoforno è “un drago ruggente che ribolle esplode soffia urla” (3). C’era una volta la fabbrica e c’è ancora, a ricoprire gli umani con la sua polvere di stelle, anzi di ferro. Tutto è come prima, niente è come prima. Dismesso il mito delle ciminiere progressive, delle cosiddette industrie di base ridotte a macerie ancora da bonificare, rimane una folla solitaria (4), un ambito posto di lavoro, la cella d’isolamento detta Laf e il primo e unico comandamento: mange e citt’, mangia e taci. Questo in una fabbrica di storie che nessuno racconta.

Colucci e Alemanno ci parlano di “una nuova fabbrica con un nuovo nome e nuove regole, ma soprattutto una nuova generazione. Una generazione che sogna la grossa vincita al Gratta e Vinci o al massimo la divisa da carabiniere. Per i nuovi operai dell’Ilva, divisi in normalisti e turnisti, il sindacato è lontano; al suo posto ci sono i tornei di calcetto aziendali che favoriscono la comunicazione, ma non troppo. Rimangono la paura di non tornare più a casa e i santi a cui affidarsi, una volta custoditi nei portafogli e ora immagini sui cellulari”. Tutto quello che oltrepassa i tornelli è “una città lontana e assente, dai contorni sfumati come fosse di sabbia, la stessa sabbia che si indurisce nel naso e lo fa sanguinare”. E dunque, perché Invisibili questi tredicimila lavoratori normali e rispettabili? Perché non fanno massa critica. Perché quando tornano in famiglia o al BarSport a nessuno viene voglia di parlare o di sentir parlare della fabbrica: l’Ilva deve rimanere al di là della porta di casa. Perché hanno perso il glamour degli anni Settanta, dell’epoca di Mimì metallurgico (5).

Il fatto è che ai mass-media gli operai non interessano: non fanno scena, sono figuranti noiosi che, intervistati, grugniscono o si lamentano (soprattutto gli ultimi degli ultimi, quelli dell’appalto, per non parlare degli extracomunitari mandati allo sbaraglio per smantellare l’amianto). Non fanno neanche una manifestazione dura come quelle di una volta, con caschi scontri e tutto. Chi vuole sobbarcarsi una rognosa inchiesta in fabbrica, quando la TV propina “denaro facile e puttanizio”? A che pro cercare di capire “un giorno come tanti, stretto fra la routine del normalista - ingresso in fabbrica poco prima delle sette, uscita alle sedici - e l’ottovolante dei turnisti che corre, vorticoso, lungo un arco diviso in tre spicchi di otto ore con la notte in mezzo e la paura boia di non tornare a casa?”.

Una sola carta rimane da giocare: l’evento forte, quello che fa sentire il sapore del sangue. Come ha detto Ilvo Diamanti, ci accorgiamo che gli operai ci sono solo quando muoiono sul lavoro (non c’è notizia nel morire in ospedale dopo lunga e penosa malattia). Il grande botto si registra con una telefonata come quella alla ThyssenKrupp, la “fabbrica dei tedeschi”, nella notte fra il 5 e il 6 dicembre del 2007: “Ci sono alcuni colleghi che bruciano, camminano e mi chiedono aiuto”. Ci troviamo nella lunga serie delle “fabbriche infernali”, The Mangler, prodotte dal cinema horror americano (almeno Riva non ci propina uno spot come quello della Thyssen in cui bambini sorridenti si tengono la mano). Chiedono gli autori: “come si fa a spiegare a un bambino che non rivedrà più suo padre solo perché è andato a lavorare”? L’incidente è sempre in agguato: il tubo che ti trancia in due, il martello che dal carroponte viene giù come un proiettile . Rimane l’urlo del silenzio, di fronte al compagno che giace all’obitorio. (6)

Lo scrittore mandurriano Alemanno conduce una guerra illustre contro l’oblio raccontando la sua storia operaia, da fonditore e tornitore a Brescia a siderurgico nella Megamacchina tarantina: “Da fuori è un drago dalle cento gole di fuoco, un vulcano dai cento crateri ruttanti fumi maligni, un deserto dalle cento dune di polvere nera che ovunque si infila. Da dentro l’Ilva è una fabbrica fatta soprattutto di lavoratori”. Ma anche “il Giuse” ha bisogno di un interlocutore, magari un “doppio” fantasmatico: si costruisce un compagnuccio invisibile, “un operaio male in arnese, cifotico, con spessi occhiali da vista tondi”. Si chiama Antonio e viene dalla Sardegna: è uno che pensa e che ha studiato, con lui si può dialogare a lungo, in attesa che finisca la bonaccia (7).

Un buon segnale di giustizia viene dalla sentenza della Corte d’Assise di Torino del 15 aprile 2011, che ha condannato per omicidio volontario l’amministratore delegato della Thyssen. Una sentenza storica che stabilisce con chiarezza che prima viene la vita di chi lavora e poi il profitto: viene individuata una responsabilità precisa, la volontà di risparmiare sulla sicurezza ammettendo il rischio di sacrificare delle vite (8).

… e in aggiunta: Una storia operaia.
 L’operaio Angelo Franco dal ’72 è stato un “siderurgico provetto” negli anni d’oro dell’Italsider, quando la fabbrica era “la speranza e l’orgoglio di tutta la città”. La grande impresa celebrava i suoi trionfi con un “raddoppio” che portava i suoi dipendenti a 25.000, compreso l’indotto: una delle grandi capitali europee dell’acciaio. La dignità del metalmeccanico s’identificava con il “riconoscimento del lavoro ben fatto”, ma anche con l’intransigente tutela delle condizioni di lavoro. Angelo Franco e Salvatore Musetti ricordano una fabbrica abbastanza sicura, con il puntuale intervento dei delegati di reparto che garantivano la manutenzione preventiva: “con un filamento staccato si fermava il carroponte, senza la messa in sicurezza si staccava l’impianto e al primo graffio si faceva sciopero”. Quando giunse la stagione di Riva, furono immessi in fabbrica migliaia di giovani precari, inibiti nella contestazione e nella sindacalizzazione, del tutto impreparati a fronteggiare situazioni di emergenza. Franco cercò di addestrare al meglio il figlio Paolo, assunto nel ’99, ventisette anni dopo l’ingresso del padre, fornendogli anche una mappa completa del reparto. Il 12 giugno 2003 cedette il braccio di una gru causando dodici feriti e due morti, di 24 e 27 anni. Paolo Franco, meccanico ingrassatore, era considerato un “anziano” dopo appena quattro anni di lavoro: morì colpito da due funi spezzate per l’eccessivo contrappeso della gru. Nessuno informò prontamente il padre, che dovette tribolare assai per venire a conoscenza della morte del figlio. Nessun funzionario dell’azienda, ricorda con amarezza Franco, “si premurò di far visita ai parenti, un comportamento impensabile nella vecchia Italsider. Si fecero vedere solo prima del processo, con proposte indecorose”. Al processo tenutosi il 17 ottobre 2008, funzionari e dirigenti subirono una condanna di 1° grado. Nessuna condanna per Riva (da Taranto sotto le ciminiere. Servizio di Ornella Bellucci trasmesso dalla web Radio Cgil dal 12 gennaio al 2 marzo 2009; www Radio Articolo 1.
Com).

Note

1) Cfr. U. ECO, Al diavolo la classe operaia, in “ L’Espresso”, 16 luglio 2009.
2) “Te ne accorgi la notte, quando cammini a piedi per via D’Aquino, al Borgo, e non ci sono auto, non ci sono voci, solo quel muggito profondo che fa vibrare l’aria e incide il silenzio… La fabbrica che è tutto, a Taranto. Anche il tempo, anche quello, s’è abituato ormai a seguire il ritmo delle sirene, i turni di lavoro, il lento esodo dei pullman, all’alba, verso i cancelli dell’Ilva” (C. FAVA, Sud, Milano, 1995, p. 17).
3) “Se l’inferno esiste, rassomiglia a questo pozzo nero, a questo fiume di fuoco che scorre sotto i nostri occhi, al ruggito della ghisa che bolle. Se esiste, l’inferno inghiotte tutti i suoni, tutti i lamenti, proprio come accade adesso che quest’uomo mi parla, mi dice qualcosa che io non riesco a sentire: solo questo brivido cupo che percorre l’aria e la riempie. Se l’inferno esiste rassomiglia all’altoforno numero cinque dell’Ilva. Una torre di cemento alta trenta metri con il fuoco nelle viscere. Lì dentro l’acciaio brucia a tremila gradi, una combustione che non conosce soste, che prosegue giorno e notte. Quando il forno si spegne, non lo riaccendi mai più” (ivi, p. 30).
4) “Se l’inferno esiste è un luogo di perfetta solitudine, come questa caverna nera di fuliggine, senza alcuna traccia di vita. La fornace arde, la ghisa s’infiamma ma tutto sembra accadere per imperscrutabili destini, senza il lavoro degli uomini” (ibidem).
5) Qualche buontempone studia strategie di cosmesi per rendere più attraente o telegenico il lavoro industriale. Si noti che il “management delle emozioni” è consigliato alle prostitute europee di fronte al calo dei prezzi conseguente all’arrivo di lavoratrici immigrate del sesso. “Il mercato crudele le ha spinte nell’angolo: o tirano fuori le emozioni e, oltre al sesso, mettono al lavoro anche quelle, o finiscono appunto tra i siderurgici” (R. TATAFIORE, Sesso al lavoro, Milano, 1994, p. 48).
6) “Quest’operaio che m’è venuto incontro dal buio continua a gridarmi qualcosa. Ha il volto nero e sudato, tumefatto per il calore. Smette di urlare, si leva l’elmetto dalla testa e me lo porge. Non ho il casco, questo cercava di dirmi. Basta una scheggia di fuoco, quaggiù” (C. FAVA, ibidem. Una testimonianza in Invisibili, p. 26: “Quando c’è un incidente si discute, ma sul momento. Il giorno dopo, sciopero o no, la cosa è passata. Quella cosa, quella che gronda sangue e disperazione. L’ho visto un morto sì. La tuta insanguinata. Un rosso che non dimentichi. L’incidente lo senti come un respiro rotto”.
7) Il testo in questione, ma anche i romanzi, i film, i documentari, le fiction, le operazioni teatrali che hanno efficacemente rappresentato questo “osservatorio privilegiato, paradigma sociale e antropologico utile a capire anche ciò che accade nel resto della penisola (C. RAIMO, Il corpo e il sangue d’Italia, Roma, 2007, p. 8) registrano oggettivamente una condizione di assenza: della politica, della pratica sindacale, dello stesso conflitto sociale. Una situazione d’impasse che ricorda la sempreverde allegoria politica di Calvino, La gran bonaccia delle Antille del 1957: una gagliarda nave corsara bloccata dalla bonaccia davanti a un massiccio galeone. Calma piatta, qualcuno spera in un aiuto dal cielo. Ma nel nostro caso la metafora ci può nascondere il luogo perduto del conflitto: c’è una guerra in atto, ma solo una delle parti è armata.
8) Condannando la massima autorità dell’impresa a 16 anni e cinque dirigenti a pene che vanno da dieci a 13 anni e mezzo, la sentenza conferma che di lavoro non si può, non si deve morire: “ogni dirigente o imprenditore che non si occupa e preoccupa a sufficienza della sicurezza dei dipendenti sui luoghi di lavoro incorre in una colpa grave. Anche quando non abbia contribuito direttamente all’incidente che ha ucciso qualcuno, ma in qualche modo abbia accettato che esso succedesse come effetto eventuale del suo comportamento. Come decidere di non predisporre adeguate misure di sicurezza” (L. GALLINO, Non ci sono più morti bianche, in “la Repubblica”, 16 aprile 2011).

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