Piazza Giordano Bruno nel 1900 |
Giovanni Artieri, "Roghi e duelli"
di ROBERTO NISTRI
Articolo tratto da "QUOTIDIANO", del 5 aprile 1994)
Si presenta come un intenso pellegrinaggio nel passato delle
idee, nella storia di una romantica "Italietta" di cento anni, fa, il
dodicesimo volume di Giovanni Artieri: Roghi e duelli. Eretici, martiri,
provocatori (Mondadori). Viene offerta
un'esposizione documentaria e quasi giornalistica, più che un'analisi storica,
di semi-dimenticati eventi e personaggi dell'età crispina, perché spesso - dice
Artieri - il lettore ha maggior diletto nel toccare con la mente le prove, gli
scritti, le testimonianze. La storia si conclude con il colpo di sciabola nella
gola del deputato Felice Cavalletti, "il bardo della democrazia". Le
prime pagine del libro ci fanno invece girovagare per Campo dei Fiori dove oggi
riposa, nella solitudine propria dei monumenti dimenticati, la statua di
Giordano Bruno eretta nel 1889: fatidica epitome del libero pensiero, gli occhi
polemicamente rivolti verso quel Vaticano che lo spirito postrisorgimentale
vedeva come avversario della patria una e laica. Il 1888 era stato un anno
segnato da duri scontri fra clericali e anticlericali.
Dopo vani negoziati con la Santa Sede, il Crispi aveva dato
sfogo alla delusione scatenando una campagna che doveva culminare nella solenne
manifestazione romana per l'inaugurazione di un monumento al grande eretico,
nel luogo stesso ove Giordano Bruno aveva trovato la morte sul rogo. La statua
venne commissionata allo scultore Ettore Ferrari, gran maestro della
massoneria, che aveva disseminato in tutta Italia un numero incalcolabile di
Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele a cavallo e via dicendo. Il 9 giugno
l'orazione inaugurale venne tenuta dall’indiscusso specialista in laiche
predicazioni, Giovanni Bovio che aveva dettato la bella epigrafe: A BRUNO / IL
SECOLO DA LUI DIVINATO / QUI/DOVE IL ROGO ARSE.
A leggere queste prime pagine del libro sulla statua di
Bruno e l'epigrafe
di Bovio, non poteva non ritornarci alla memoria un episodio
di storia jonica, che certamente avrebbe incuriosito Giovanni Artieri.
Già un anno prima la città di Taranto si era mobilitata per
sostenere la celebrazione dei filosofo "d'ogni legge nemico e dogni
fede", inviando al Presidente del Consiglio l'ordine del giorno dettato
dall'avvocato Pietro Pupino-Carbonelli: "Taranto, commemorando oggi il martire
del libero pensiero, Giordano Bruno, fa voti che nel luogo dove la ferocia
della Curia romana arse vivo l'eroe in nome di Dio, sorga tosto il monumento
che voto di popolo gli ha decretato, qual rivendicazione dovuta alla memoria
del sommo filosofo, come protesta solenne della coscienza nazionale".
Questo ordine del giorno era stato adottato all'unanimità dai partecipanti alla
manifestazione del 19 febbraio 1988, quando venne intestata al filosofo nolano
la piazza centrale del Borgo.
Così la cronaca del periodico Taras: "Il Comitato,
composto dalla rappresentanza municipale, con a capo il nostro Sindaco, Cavalier
Vincenzo Sebastio di tutte le scuole del Ginnasio Archita, delle Tecniche e
delle elementari, e parecchie associazioni, si mosse al suono dell'inno dal
palazzo di città per recarsi allo scoprimento della lapide commemorativa ...
Mentre altri sindaci canonizzano insieme al clericalume i loro santi, il Sindaco
di Taranto, insieme alla rappresentanza comunale, battezza la gran piazza del
Borgo col nome più grande, più puro, Giordano Bruno". A questo punto
l'egregio sindaco scoprì la lapide con l'epigrafe dettata da Giovanni Bovio (non
meno bella di quella per Campo dei Fiori), su invito del Pupino Carbonelli: CHI
MUORE PER IL LIBERO PENSIERO / ONORA LA PATRIA / APPARTIENE AL MONDO / BRUNO.
Dopodiché il corteo si recò nell'atrio del ginnasio Archita,
dove il pubblico fu sfiancato dall'esimio professor Pellizzari, la cui
conferenza durò "più ore" (come annota La Sentinella e "tutto
estesamente trattò, cosa che annoiò un tantino" (come riferisce il
cronista di Taras). E così la città ebbe la sua Piazza Giordano Bruno, che
continuò per un pezzo a essere luogo di conllitti fra fazioni, come l'anno
successivo, i1 9 giugno, quando i cattolici fecero affiggere, sulla chiesa di
San Domenico una epigrafe "riconsacratoria" della città.
I cittadini presero familiarità con il combattivo nome della
piazza, ma nel contempo, a partire dal "patto Gentiloni”, presero a
smorzarsi i bui lenti spiriti laici della classe dirigente tarantina: per frate
Giordano tornavano i tempi brutti. Il Fascismo non poteva certo tollerare a
lungo questa bandiera dci "libero pensiero" infissa al centro della città:
alla prima occasione la lapide scomparve e piazza Giordano Bruno fu
"normalizzata" e ribattezzata piazza Italo Balbo.
Alla caduta del fascismo scompariva il nome del barbuto
gerarca. Per coerenza e senso
storico sarebbe stato opportuno ripristinare la vecchia intestazione della
piazza, sia perché tutti i tarantini continuavano a chiamarla "Giordano
Bruno" sia perché questo nome ben avrebbe rappresentato la volontà di
rinascita contro il dispotismo. E invece, sotto l'egida del commissario
prcfettizio cav. uff. avv. Agilulfo Cararnia, vecchio liberale e massone, si
passò da P. Giustizia e Libertà a P. della Conciliazione, per approdare, infine,
a P. Maria Immacolata (come si vede, la storia d'Italia in una pialla). L’avv.
Temistocle Scalinci della commissione per la toponomastica, tentò nel 1946 di
convincere il sindaco comunista Voccoli di ripristinare il vecchio toponimo e
ci riprovò nel 1951 e nel 1957 con altre amministrazioni. Tutto inutile: forse
anche le forze politiche della "nuova Italia" non avevano in grande
simpatia il "libero pensiero".
Comunque, per strade tortuose, il filosofo perseguitato ha
continualo a resistere. La vecchia lapide venne ritrovata da Scalinci e fatta
apporre a sud-est del Palazzo degli Uffici, ove l'epigrafe di Bovio continua ad
ammonire i ragazzetti che si accalcano attorno ai telefoni. E resiste anche
l'abitudine di qualche vecchio tarantino che ancora oggi, dopo tanti anni, continua
a chiamare la piazza centrale del Borgo: Piazza Giordano Bruno.
Grazie.
RispondiEliminaSicuramente sulla epigrafe a S. Domenico, forse non è un fatto veritiero, visto che confratelli, non lo citano, per mancanza fonti.
RispondiElimina