giovedì 8 ottobre 2015

Taranto nella Grande Guerra e il suo monumento ai caduti



Roberto Nistri

Taranto nella Grande Guerra e il suo monumento ai caduti


 © Roberto Nistri 2015. Tutti i diritti sono riservati.

Introduzione al contesto cittadino

A partire dalla fine dell’Ottocento, con la decisione presa dal Parlamento italiano, sulla installazione dell’Arsenale militare marittimo, la città jonica veniva progressivamente ed inesorabilmente militarizzata. La vistosa presenza dell’insediamento industriale modificava le coste, le altimetrie del suolo, divorando masserie, chiese e ville signorili - tra cui la sublime villa Capecelatro, modificando inesorabilmente la facies della Antiquissima Urbs. Venivano ordinate le direttrici di una impetuosa crescita demografica. Nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra, la sua struttura industriale veniva ad essere cospicuamente amplificata dalla installazione dei Cantieri Navali “Franco Tosi” sulla spiaggia a Nord del Mar Piccolo: una Società di Legnano con strutture di ben altro rilievo rispetto ai modesti cantieri Frontini (1903-1906) e Salerni (1906-1915). Nel 1898 l’Arsenale varava la sua prima unità di guerra: la nave” Puglia”, la cui prua sarebbe stata in seguito donata al poeta D’Annunzio, che l’avrebbe sistemata all’interno del suo Vittoriale.
Nel 1915 veniva portata a termine la costruzione del primo sommergibile. Il 4 giugno 1916 dallo scalo improvvisato sul quale era stata impostata cinque mesi prima, veniva inaugurata alla presenza del Duca degli Abruzzi, la prima nave interamente costruita nello stabilimento: il rimorchiatore “Villa Cortese”. Erano anni quelli in cui lo slancio e il fervore militare andavano di pari passo con quello nazionalista. A Taranto, prima che in altre città, già nel novembre 1914, si registravano scontri fra nazionalisti e socialisti. Alcuni incidenti preoccupanti si verificavano il 15 febbraio 1915, quando alcuni giovani nazionalisti protestavano contro il Consolato germanico, provocando una contromanifestazione di neutralisti, che doveva sfociare in tafferugli e arresti.
La città si preparava alla guerra. Il 30 ottobre, durante le imponenti esercitazioni navali alla presenza del sovrano, lo scoppio prematuro di una granata causava la morte di un guardiamarina e quattro uomini dell’equipaggio.
Presso le classi subalterne e soprattutto nel contado, non si registravano segnali di grande esaltazione. I socialisti organizzavano affollati comizi, come quelli tenuti nel mese di febbraio dall’on. Campanozzi a Taranto e in alcuni paesi del circondario, ma non si impegnavano più di tanto. Comprensibilmente il “blocco d’ordine” non incontrava difficoltà nel coagulare attorno a Salandra una volontà di potenza che era tutta ricchezza per una monocultura navalmeccanica che purtroppo ristagnava in periodo di pace e godeva invece di tutte le sovvenzioni possibili, quando giungeva l’eco dei tamburi di guerra. In effetti si sarebbe determinata una condizione di quasi piena occupazione, anche con non pochi lavoranti dei campi che si arrangiavano, fra città e campagna: piccoli commerci al minuto, ambulanti che recavano vettovaglie dal contado.
Dopo la dichiarazione di guerra la città era ormai “piazzaforte marittima in istato di resistenza”: la base navale più importante e al contempo il rifugio più sicuro per la flotta interalleata italiana, francese e inglese, con la Sede del 9° Reggimento Fanteria. La città che sembrava dimenticata dalla storia, stava per affacciarsi al centro del palcoscenico internazionale, crocevia della storia più grande e più folle: La guerra! Taranto era l’unico porto di grande ampiezza e l’unico cantiere completamente attrezzato in prossimità della zona dell’attività bellica. Non era teatro di guerra, di esso era però il retroscena. Il Mar Piccolo ospitava la flotta da guerra italiana e alcune unità navali inglesi di sostegno, mentre l’Arsenale provvedeva ai nuovi impianti di armi, agli adattamenti dei nuovi sistemi protettivi, alle continue riparazioni di un naviglio silurante già logorato dalla campagna in Libia. Taranto attraeva soldati da tutte le parti, ma anche tecnici e maestranze dal circondario e da tutta Italia. In Arsenale si lavorava a pieno ritmo anche di notte. Veniva riparato lo scafo del piroscafo “Orione”, squarciato da un siluro, e quello del cacciatorpediniere francese “Brory”, danneggiato dallo scoppio di una mina. Veniva ricostruita la prua del caccia francese “Boutefeu”, che era stata danneggiata da un investimento in mare, e così quella del CT. “Chinery”. Un vero e proprio boom economico, con una straordinaria espansione del tessuto urbano, pagata inevitabilmente con il totale asservimento alla militarizzazione. Anche la pesca nelle acque dello Jonio veniva vietata. Era l’altra faccia del boom, della fiorente attività economica e del prestigio internazionale. Era alto il rischio a cui la città veniva esposta, in quanto fucina, snodo e punto di partenza di gran parte della flotta italiana.
Come era accaduto per Brindisi, anche Taranto Veniva colpita. Nella notte del 2 agosto 1916 la città veniva scossa da un tremendo scoppio che sembrava sommuoverne le fondamenta. Verso le 23:00 la “Leonardo da Vinci” veniva colpita da un rombo sordo che saliva dal fondo. Lo scafo tremava ed esplosioni sempre più frequenti squassavano la nave e la squarciavano in tanti crateri, con un boato che percorreva l’aria per molte miglia. Fiamme altissime illuminavano la notte. Il professore Giacinto Peluso avrebbe in seguito rievocato “quelle ore apocalittiche: “tante grida, tanto pianto”. I marinai venivano inghiottiti dalle voragini prodotte dagli scoppi e fra di loro molti erano tarantini.
Alle 24:45 la corazzata si capovolgeva. Uno scoppio del deposito munizioni aveva fatto saltare in aria e quindi affondare in Mar Piccolo la più potente delle sei dreadnougts di cui era composta la prima “squadra da battaglia” della flotta italiana.
 Come verrà appurato negli anni seguenti, l’esplosione della “Leonardo da Vinci” si doveva ad una operazione di spionaggio tedesco-austriaco, che aveva visto il coinvolgimento anche dello scrittore tarantino Archita Valente. L’indagine degli uomini della Marina e il successivo contrattacco, il cosiddetto “Colpo di Zurigo”, alla centrale della sede del consolato austriaco in Svizzera, avrebbe permesso di acquisire una relazione completa sull’affondamento della “Leonardo” e sui piani per far saltare la “Giulio Cesare”: documenti che comprendevano una sorta di tariffario per i diversi sabotaggi e la lista completa di tutte le spie agenti in Italia, fra i quali, oltre a oscuri personaggi del Vaticano come il prelato Gerlach, veniva condannato all’ergastolo lo scombinato Valente, “suicidato” nel carcere di Avellino.
 Ricordiamo anche che Taranto aveva dato i natali al maggiore Angelo Berardi, il quale, allo scoppio del conflitto, conquistava subito una medaglia d’argento, per le sue indubbie capacità, dimostrate in numerose azioni: si poneva alla testa dei piloti di dirigibile e veniva fregiato di nuova medaglia d’argento. La fase più intensa della sua attività doveva riguardare la ritirata di Caporetto. Volava infaticabile tutte le notti per colpire con le sue bombe i ponti sul tagliamento e sulla Livenza, sulle arterie del Trentino e le balze alpine. Compiva 18 ore di volo consecutivo e batteva il record mondiale d’altezza per un dirigibile. Nell’agosto del 1918 rovesciava sul nemico, con dieci ardite azioni, una enorme quantità di esplosivi. Durante l’azione decisiva, dall’alto poteva assistere alla tremenda disfatta degli austriaci. Ironia della sorte, il grande aviatore moriva proprio sul golfo di Taranto, scomparendo in una tempesta mentre tornava a casa per ricongiungersi con la propria famiglia. La città riconoscente gli avrebbe dedicato la via Berardi nel borgo umbertino, dove Angelo era nato e aveva trascorso l’infanzia, già intestata al patriota Nicola Mignogna.


Le tribolazioni joniche per un Monumento ai Caduti


Per una città che era stata palcoscenico della Grande Guerra, con le sue importanti vittime, può essere interessante ripercorrere la tormentata vicenda ultratrentennale del colosso dominante l’attuale Piazza della Vittoria, già Piazza XX Settembre. Il vero caduto o almeno infortunato, sul bronzeo campo di battaglia, doveva essere l’onesto scultore Francesco Como, combattente sul Carso, massone, discepolo del Maestro Ettore Ferrari, angariato dai fascisti in quanto vecchio repubblicano. La cittadinanza auspicava a gran voce la messa in cantiere di un solenne monumento volto ad onorare la memoria dei valorosi caduti. Già nel 1919 il Consiglio Comunale, presieduto da Francesco Troilo, faceva nascere rapidamente un pletorico Comitato organizzativo. Non mancavano tuttavia riflessioni più ponderate. L’insegnante Anna Caggiano propugnava una istituzione umanitaria: al posto di un monumento, una opera che, nella sua utilità, esalti il ricordo di chi donò la vita alla Patria, suggerendo “un edificio scolastico, un asilo infantile, un rifugio per minorenni, un ricovero per orfani ed abbandonati, ”. Continuavano a venir fuori proposte assennate: “un ospedale che potesse dare a tanti sofferenti poveri, il modo di lenire i dolori, di sanare i mali, di conservarsi ancora alla vita, al lavoro, all’amore dei figli (articoli della “Voce del Popolo”, 1922). Qualche dubbioso forse ricordava l’amaro avvertimento del liber’uomo Ugo Foscolo: “ove dorme il furor d’inclite gesta / e fien ministri al vivere civile / l’opulenza e il tremore, /inutil pompa / e inaugurate immagini dell’Orco / surgon cippi e marmorei monumenti”…

Note a margine. Non si può sottovalutare il ruolo della funzionalità monumentale nella costruzione di un immaginario collettivo, nel quadro anche di una formazione identitaria. Quando si parla di monumenti non si deve considerare solo l’aspetto estetico, ma anche la funzionalità politica. George L. Mosse considerava la “monumentalizzazione” come uno degli aspetti caratteristici del processo di costruzione di una comunità. Naturalmente, non si può neanche trascurare un semeion fortemente significante, che intenda supportare un investimento emozionale, più o meno vocazionato alla universalità.

Si avanzavano proposte umanitarie, ma non condivise dalla Marina M.M. e dal fronte dei reduci, che avevano visto perire i propri compagni, e dai famigliari delle giovani vittime. La Marina e le associazioni combattentistiche non demordevano. L’erezione di un cippo era da considerarsi non discutibile, obbligatoria, tassativa, malgrado la magniloquenza di un preventivo che doveva raggiungere le 300.000mila lire, in una situazione postbellica bisognosa di molti risanamenti. E monumento doveva essere! Sia pure con risorse contingentate.
Nel 1919 il Consiglio Comunale, presieduto da Francesco Troilo, faceva nascere rapidamente un pletorico Comitato organizzativo. La prima questione doveva riguardare il sito, con incertezze nei riguardi di piazza Archita. Sorgeva all’orizzonte un progetto dell’illustre architetto Cesare Bazzani prospettato per i giardini Garibaldi, ma veniva lasciato in sospeso. La discussione riprendeva senza fretta nel 1921, con l’amministrazione Delli Ponti. Nelle more, si era messa in opera la strategia del “fai da te”: le lapidi fiorivano a piacere. Nel frattempo la presidenza del Liceo Classico “Archita”, con grande smacco per il Municipio, provvedeva a ricordare il sangue dei suoi 52 studenti caduti, con una lapide apposta sulla facciata dell’Istituto. Si pensava ad un periodico “cambio della guardia” al monumento, fra gli studenti. Rimaneva da sciogliere il nodo del sito: posizionare il manufatto in Piazza Giordano Bruno, avrebbe diminuito la visibilità della facciata dell’Arsenale e l’imbottigliamento della stessa Piazza, punto nodale della rete tranviaria. Per fortuna veniva scartata la proposta di insediare il monumentone al centro del gran piazzale della Villa Peripato, con cassarmonica per la banda (Peluso p. 67).
Tutti concordavano sulla necessità di una ampia superficie di sfondo: ci si orientava verso il centro di Piazza XX Settembre, progressivamente annientando i palmizi che la circondavano. Nel 1922, a ridosso della marcia su Roma, il clima diventava più battagliero. Vi furono maltrattamenti nei confronti nei confronti dello scultore Como e dei suoi fratelli, abbandonati dallo squadrista motorizzato Parabita in una zona malarica. Si diffondevano anche manifestini malevoli.
Nel 1923 era partito il concorso nazionale. La commissione esaminatrice, formata per lo più da massoni, proclamava vincitore l’autore del bozzetto a cui era stato dato il titolo “Si spiritus pro nobis quis contra nos?”: trattavasi di Francesco Como, premiato con lire 5000. Gli esclusi dalla mangiatoia addirittura avrebbero preteso che Como dovesse starsene contento del suo premio e lasciare ad altri l’esecuzione del progetto. Questo prevedeva quattro gruppi bronzei raffigurati dallo scultore tarantino intorno ad un grande basamento marmoreo: “La Vittoria e i suoi eroi”, “Taranto e i suoi Artefici “, “L’Apoteosi del Fante” e L’ Aquilifero”. La cifra preventivata dal bozzetto, 300mila lire, appariva enorme per una città appena uscita dai travagli della guerra. Deciso il sito (Piazza XX Settembre) si prospettava la cerimonia della posa della prima pietra per il 21 aprile del 1924, ma si era ancora a zero, per festeggiare il “Natale di Roma”. Si cominciava a lavorare sul basamento, ma dei pregiati gruppi bronzei nessuna traccia! Soprattutto bisognava rastrellare i soldi. La fantasia dei tarantini si sbizzarriva con le “Kermesse” in Villa Peripato, con le marche “pro monumento” da applicare su tutti i documenti, pedaggi al ponte e salvadanai nei pubblici uffici, fino ad una raccolta porta a porta, con la città divisa in sette zone strategiche. In quattro anni si raccoglievano 76mila lire, ma si era molto lontani dalla meta e i costi lievitavano. Il basamento era sempre lì, ma tutto procedeva con moto uniformemente ritardato e la cifra di 500mila lire rimaneva ben lontana.
Nel 1926 il Podestà Spartera sembrava voler usare il pugno duro, magari a colpi di francobolli e lotterie. In previsione della inaugurazione veniva soppresso il chiosco orinatoio di Piazza XX Settembre. Ma l’erigendo monumento ai Caduti attendeva sempre di essere inaugurato. Le cose dovevano peggiorare con l’intervento di diversi commissari prefettizi: 1924-1925. Il podestà Giovanni Spartera si prodigava come cercasoldi, fra ricchi premi e cotillons, sempre a pro dell’erigendo monumento. Nel 1928 si arrivava alla rottura con l’artista.
 Come se non bastasse, nel 1930 bisognava ingaggiar battaglia con il signor Francesco Rizzo, gestore di un chiosco in legno per la vendita di “gratta gratte… sumend’e zuccre, orzata, granatina, menta, anice ghiacciata… Il contenzioso sarebbe durato dal 1924 al 1930, con prorogatio di mese in mese. Alla fine Rizzo la spuntava, ottenendo la concessione di un altro chiosco più bello che pria. Si era fatto spazio al monumento e la concessione si sarebbe rinnovata ogni tre anni, purtroppo interrotta dalla deflagrazione del secondo conflitto.
 Intanto Il podestà “protempore” Giovanni Spartera si sentiva sempre più sotto tiro e, su spinta del governo, nel 1928, si decideva a convocare l’egregio scultore Guastalla di Roma (anch’egli onesto massone) con l’incarico di esaminare lo stato dei lavori. Ma un anno dopo il Guastalla rinunciava all’incarico per comprensibili incompatibilità fra l’autore e il controllore, ma anche per lo stato confusionale delle procedure. Nel 1934 veniva addirittura chiamato in giudizio per una poco edificante ricompensa, richiesta per tre anni di lavoro. Alla fine veniva pagato irregolarmente e a rate. Qualche frutto il Guastalla doveva comunque averlo prodotto, se nel settembre 1929 il primo altorilievo “La vittoria tarantina e gli eroi” era quasi pronto. Doveva seguire la “glorificazione del fante”, ma la cifra preventivata passava a 750mila!
Nel 1930 si arrivava all’inaugurazione del monumento non-finito, alla presenza del Sovrano e del ministro Di Crollalanza. La folla era strabocchevole, Como si ritrovava quasi nascosto. Il gentiluomo aveva lasciato Taranto nel 1928, con un assegno mensile ad personam per tutta la durata dei lavori, ma dopo due anni il suo compito non era stato ancora ultimato. Nel giugno 1930, per inadempienza, veniva troncato qualsiasi invio di denaro allo scultore, compromettendo così il modello di argilla dello Aquilifero, che prima si essiccava e poi finiva in frantumi. Con i fondi del tutto esauriti, Como avrebbe dovuto concludere i lavori pagando di tasca propria: una soluzione del tutto improponibile. Il povero artista si ritrovava in condizioni miserrime, tanto da sognare l’interessamento del Sovrano. Durante le celebrazioni del IV novembre non era stato neanche invitato e intanto si allargava sempre più il solco fra l’Artista e il Regime. Si arrivava comunque all’inaugurazione del 1930, con il monumento incompleto. Si poteva leggere l’epigrafe dettata da Alessandro Criscuolo in chiara contaminazione fascista
Forti nella vita, epici nella morte
Nella storia eterni
Taranto Madre
La ricostruzione dettagliata della operazione scultorea è perfettamente esposta nel prezioso testo di Giacinto Peluso, al quale si rinvia doverosamente, evitando inutili commenti.
L’operazione avrebbe comportato la spesa globale di circa 800mila lire (cfr. Peluso e “Voce del Popolo”).

Lo scultore si trovava a sbarcare il lunario con l’insegnamento e, dopo crisi profonde, decideva di chiedere l’iscrizione al Fascio, cosa non facilissima, per le idee antifasciste sbandierate in più occasioni. Come ottenne la “tessera”, Como si stabilizzò nella Scuola, continuando a lavorare nel suo studio tarantino, prima del trasferimento definitivo a Roma. Un ricordo di Raffaele Carrieri sullo scultore meditabondo e solitario: “Non saprei parlare di questo semplice e pensieroso Artista senza mettere in primissimo piano la sua bella fibra di uomo: moralmente e artisticamente parlando. La ricostruzione dettagliata della operazione scultorea è compiutamente esposta nel testo di Giacinto Peluso, al quale si rinvia doverosamente.

Nel marzo 1950 si riapriva la discussione sul completamento dell’opera monumentale, con interessamento delle Associazioni Industriali e (strano a dirsi) dei segretari della Camera del Lavoro della C.G.I.L. Il Monumento fatturato a rate, trovava alla fine il suo completamento con il gruppo detto “l’Aquilifero”, con il fiero sostegno della amministrazione comunista. L’occhio esperto poteva leggere nell’opera i simboli massonici del triangolo, delle due colonne, del sancta sanctorum del tempio, con la Nike che raffigurava il fatidico numero tre. Il 18 ottobre 1953 si concludeva la trentennale vicenda: era trascorsa anche la seconda guerra mondiale e un monumento poteva ormai bastare per i due grandi conflitti. Quella volta, alla celebrazione, Francesco Como era ben presente, per ricevere quell’omaggio che gli era stato negato nel 1930.


I monumenti sono la storia in piedi (Ugo Ojetti)


Al momento della inaugurazione finale, l’opera era certamente un anacronismo. In quegli anni nessuno studente si sarebbe prestato al “cambio della guardia”, secondo i desiderata dell’ex preside del Liceo: I Beatles erano in arrivo. Gli omoni nudi con l’elmetto facevano impressione. E invece, negli anni Settanta, nella festa giovanile della contestazione, per i giovani tarantini e non solo, quel monumento si trovava a rappresentare l’ombelico del mondo. Quel bronzo era letteralmente avvolto da una folla di ragazzi vocianti e musicanti. I figli dei fiori rendevano quel cenotafio un rendez-vous giovane, cordiale, capellone, greco, nemico della guerra: uno spazio liberato di felice coabitazione fra i presenti e gli scomparsi. Il giornalista Antonio Rizzo, assieme ad un suo estimatore, veniva dalle forze dell’ordine allontanato in malo modo da quella festa dei presenti e degli assenti. Ma gli spiriti cupi non trovavano pace: denunce pseudopatriottiche e farisaiche. Rizzo scriveva: “A me il monumento animato da quelle presenze giovanili, piaceva. Mi appariva come un fatto vivo, vitale, cordiale, popolare. Non un fatto artistico, ma esistenziale. Un happening che umanizzava una struttura fredda e retorica”. Rimane il dolce ricordo di una festa libertaria nello spazio della antica Agorà. Rimane anche l’onesta testimonianza del repubblicano Franco Como, un artista figlio di un capomastro e di una sarta, volto sempre alla speranza che mai più si abbia a versare sangue innocente.


 Patriottismo peloso


Sarebbe ingiusto sottovalutare il ruolo della funzionalità monumentale nella costruzione di un immaginario collettivo, nel quadro anche di una formazione identitaria. Un’opera, per forza delle cose, può rimanere anacronistica, démodé, ma può anche essere una sincera e onesta espressione di un datato contesto culturale. Altra cosa è il subdolo” monumento donato” (Timeo Danaos et dona ferentes…). Ci riferiamo all’altro colosso: quel Monumento al marinaio, regalato dall’Ammiraglio Angelo Jachino a un Consiglio comunale che accettava tutto a scatola chiusa, senza preoccupazioni di permessi e licenze. Gli antifascisti dell’epoca non si accorgevano nemmeno che sul basamento s’inneggiava alla guerra 1940-43: la guerra di Mussolini. Era facile invece decifrarne il codice segreto: Il monumento visto dall’avanti e dal di dietro, con le due grandi W e M, era un vistoso “Onore al Duce”!


Bibliografia : Taranto in guerra

Saverio Lasorsa, La Puglia e la guerra mondiale, Ed. Caini, Bari-Roma 1928
Enzo Panareo, Archita Valente: dalla letteratura allo spionaggio, in “Sallentum”, anno IV, n. 3
La più audace impresa del controspionaggio italiano nella prima guerra mondiale, in “Storia illustrata”, Settembre 1969, n. 142
E.C. Protto, Vita, morte e risorgimento della dreadnought “Leonard da Vinci”, Edita@, Taranto
Ferdinando Ladiana e Espedito Jacovelli, Massafra e la Grande Guerra, Cspcr, 1984
Nino Bixio Lomartire, I cantieri navali di Taranto, Coop. 19 luglio, Taranto 1990
Roberto Nistri, Civiltà dell’industria, Scorpione ed., Taranto 1988
Roberto Nistri, Una Loggia “Martinista a Taranto, in “Cenacolo”, Mandese ed., 1994
Rosa Alba Petrelli, L’Arsenale militare marittimo di Taranto, Perugia 2005
David Alvarez, I servizi segreti del Vaticano, Newton Compton Editori, Roma 2008
Eric Frattini, L’Entità, Fazi Editore, Roma, 2009
AA.VV., I Cantieri Tosi, Fondazione Michelagnoli, Taranto 2013
Annibale Paloscia, Benedetto fra le spie, Mursia ed., 2013


Bibliografia: Taranto e il suo monumento ai caduti

Giacinto Peluso, Una città, un monumento, Mandese Ed., Taranto 1984
Francesco Guida, La Massoneria tarantina dal dopoguerra al 1960 in Taranto dagli ulivi agli altiforni, Mandese ed., Taranto 2007.

Nessun commento:

Posta un commento