La ballata degli affumicati
Ovvero il racconto della città mutante, nell’ultimo libro di Roberto Nistri
di Gaetano De Monte
La ballata degli affumicati, è il titolo dell’ultimo pamphlet di Roberto Nistri, - storico,
filosofo, giornalista - da pochi giorni nelle librerie, Edizioni Dal Sud. Un diario di bordo, riconosce
lo stesso autore, scritto all’ombra della grande mammella siderurgica. Ma non solo. Perché nelle
centinaia di pagine scarse che compongono il libro, gonfio di citazioni filosofiche, letterarie, di film
e di canzoni, oltre la cinquantennale storia della fabbrica di morte che la fa da sfondo, c’è, in
massima parte, il racconto antropologico del cittadino di Taranto e della sua Provincia. Certo anche
e soprattutto nel rapporto con l’Ilva, la grande madre velenosa, ora. La grande balia statale, in un
tempo che sembra non sia mai stato vissuto, ma che in realtà ancora perdura.
Più che un libretto di storia, o un saggio di filosofia, è un’opera di antropologia, dunque, l’ultima
fatica dell’ex professore dell’Archita. Almeno a voler dare a quella parola, il senso proprio datole
dai sostantivi greci dalla quale deriva. Ovvero, άνθρωπος, ànthropos = "uomo" e λόγος, lògos = nel
senso di "studio". Quindi come discorso attorno all’uomo, visto da una molteplicità di angolature:
dal punto di vista sociale, culturale, fisico e dei suoi comportamenti nella società, quella tarantina in
generale, la siderurgica, nel particolare. Due, che fino a qualche anno fa erano legate da un
matrimonio che sembrava dovesse essere indissolubile, quello tra la fabbrica e la Città di Taranto,
appunto. Un sodalizio entrato in una fase di profonda frattura, forse irreversibile; anche se, non si sa
bene se per qualche prodigio di natura materiale o deficit culturale, la storia d’amore tra i veleni e
Taranto, - ne siamo certi - continuerà.
Almeno fino a quando non si conteranno su di un palmo una mano gli autori tarantini dal pensiero
lungo come lo storico Roberto Nistri, che nella Ballata degli Affumicati non si limita, e non si
arroga, il diritto di fare il punto, ma traccia delle linee: di fortuna, di movimento, di fuga. Teorizza
una cartografia dell’esodo per cercare di venire fuori da quella che definisce, “ la città mutante”.
Perché, scrive Nistri, citando Alessandro Baricco, “non si cambia nulla se non si acquisisce la
capacità di uccidere qualcosa. Non si costruisce quello che noi sogniamo come futuro se non
riusciamo, eterni mammoni, a staccarci da qualcosa che pure è stata parte di noi”. Dalla grande
mammella a cui Taranto doveva le ragioni del suo benessere, ed ora, i motivi di un disastro.
Bisogna saper osare, lascia intendere il Nistri degli ultimi anni, seduto rigorosamente dalla parte del
torto. Ed è per questo, forse, che il Professore ama ripetere, spesso, una citazione dal film francese
“L’odio”, diretto dal regista Mathieu Kassovitz: “questa è la storia di un uomo che cade da un
palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio
si ripete: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Ma il problema non è la caduta, è l’atterraggio,
si concludeva così, la scena iniziale di quel film; metafora perfetta per la parabola di Taranto e della
sua industrializzazione malata. Che lo storico usa per ribadire che occorre una rivolta del pensiero,
capace di riaprire il tempo. Per farla finita con lo stato di eccezione permanente. Con aziende dal
governo caporalesco. Con fabbriche di morte dall’identità preistorica, senza precedenti nella storia
delle relazioni industriali, in Italia.
Quasi un grido di dolorosa colpevolezza è quello che lancia l’autore verso la fine del pamphlet: il
pessimismo del presente, qui, lascia il posto all’analisi della bellezza perduta: “perchè apparteniamo
all’ultima generazione che ha vissuto, combattuto e amato sotto un cielo di Taranto non trafitto
dalle ciminiere. Perché abbiamo visto scomparire lidi e paesaggi omerici”. E ancora, “perché
abbiamo visto, ingoiato dall’Iri, dissolversi un patrimonio di 80 anni di cantieristica, l’unica
fabbrica che realmente poteva essere convertita dal navalmilitare alla nautica da diporto”. Parole
dure come pietre quelle che usa Nistri, per raccontare le biografie di alcuni uomini che hanno
condizionato, speculando, il nostro recente passato; uno di loro, viene raccontato, attraverso la
figura, dai più poco conosciuta, di immobiliarista, anche se in realtà faceva un altro mestiere. Di lui
è stato scritto che allo stesso tempo “poteva essere il Prefetto, il Sindaco, il Presidente della Camera
di Commercio, il Presidente dell’Associazione Industriali”. Peccato che avrebbe dovuto essere un
prete, innanzitutto. L’arcivescovo Guglielmo Motolese, che certo Nistri non considera il tarantino
del secolo, come invece, anni fa, lo incoronò, al termine di un sondaggio, un giornale locale. Con
buona pace della storia e della verità, evidentemente. Di un non tarantino, precisamente un toscano,
ma decisivo nelle vicende dell’industrializzazione, lo storico ne disegna nel libro il profilo di un
personaggio positivo: Alessandro Fantoli, dirigente Iri, poco più che trentenne che aveva militato
nella Resistenza in Toscana, descritto come un funzionario con la schiena dritta, illuminato,
cresciuto alla scuola di Adriano Olivetti, che si era trovato a giocare una scabrosa partita con vari
affaristi locali, prima di lasciare la città, richiamato dai democristiani romani, a loro volta sollecitati
da quelli martinesi, capeggiati dal fratello dell’arcivescovo, deputato Dc. Sarà pur vero che la storia
non si nutre di ipotesi, ma, forse se avessimo avuto più Fantoli e meno Motolese, avremmo avuto
una cittadinanza meno affumicata, chissà, sembra essere questo, il morale della favola. Per il resto
rimane l’antico, atavico dilemma, andare o restare. Di una cosa però Nistri, appare convinto, che “la
storia sarà raccontata da quelli che ritornano e da quelli che non ritornano”. Come dire che sarà la
fuga a dominare il prossimo secolo dei tarantini, “abbronzati e salati abitanti di un posto pieno di
tutto quello che manca”. E, comunque, “anche se non rimane nulla, è sempre bello scialare fra i due
mari”, ballando la danza degli affumicati.
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