martedì 24 dicembre 2013

La ballata degli affumicati. Recensione di Alessandro Leogrande


La ballata degli affumicati

Taranto /Ilva Nel libro di Nistri le radici del disastro di oggi

di Alessandro Leogrande

tratto da: Corriere del Mezzogiorno, 17 dicembre 2013, p. 13

L'ultimo libro di Roberto Nistri, “La ballata degli affumicati” (appena pubblicato dalle baresi Edizioni dal Sud) è una carrellata nella storia recente della città di Taranto. Parafrasando Churchill, si potrebbe dire che Taranto è uno di quei posti che producono più storia di quanta ne possano digerire; ed è questo, forse, uno dei motivi che spiega la copiosa produzione libraria, recente e meno recente, intorno al racconto delle sue vicende. Ci sono stati libri riusciti e libri meno riusciti, libri scritti a distanza (spesso eccessiva) e libri che nascono dalle sue viscere. Nistri è uno dei maggiori interpreti dei fatti accaduti in riva allo Jonio nel Novecento: la gran parte dei suoi libri nasce da un corpo a corpo costante, complesso con la sua città. “La ballata degli affumicati” si colloca quindi su una lunga scia: appena un anno fa, ad esempio, era uscito per Scorpione “Tarentinità. Un'identità residua”. Nella “Ballata” si parla molto degli ultimi due anni di vita cittadina, dell'esplosione del caso Ilva e del nodo irrisolto salute-lavoro, del sistema Riva creatosi dentro e fuori la fabbrica. È una cronaca ragionata degli eventi che aiuta a raccogliere quanto, nella velocità del loro susseguirsi, rischia di andare smarrito. Ma la parte più interessante del libro è forse la prima, quella in cui viene ripercorsa la nascita del siderurgico, la costruzione di quella che il sociologo Domenico De Masi ha chiamato la “fabbrica più moderna del mondo più arretrato”. Molti dei mali tarantini si annidano nel cuore del Novecento, e per capire perché la vicenda appare oggi tanto intricata bisogna (anche) puntare gli occhi nel passato: non è vero, lascia intendere, Nistri che le uniche responsabilità del disastro ambientale siano quelle di “colonizzatori” venuti da fuori. Una parte di città non ha solo voluto la fabbrica: ha tratto vantaggi proprio da “quella” fabbrica, costruita in quel modo, ai bordi della città. “A distanza di mezzo secolo”, scrive Nistri, “ancora ci si chiede secondo quale logica volpina sia stato possibile posizionare un monstruum di tal fatta bocca a bocca con lo spazio abitato. Una costruzione all’incontrario: con l’area a freddo, meno inquinante, posizionata lontana dall’abitato, mentre l’area a caldo, la più tossica, veniva installata a ridosso delle case, tutte preesistenti all’insediamento, come il vecchio cimitero.” Intorno alla vendita dei suoli si scatenò una lotta feroce tra due cordate di imprenditori edili che attraversò il potere democristiano dell'epoca e le classi dirigenti della città. Nistri fa tutti i nomi, oggi in parte dimenticati, di quella storia decisiva. Altro dettaglio ben sottolineato nel libro: la percezione dell'inquinamento non è un fatto recente. Già nell'aprile del 1971 si tenne un convegno sul tema “Inquinamento ambientale e salute pubblica”, in cui l’assessore regionale Giovanni Di Lonardo proclamava: “Non accettiamo questa industrializzazione in maniera indiscriminata, senza salvaguardare la vita e la salute dei nostri concittadini”, mentre venivano presentate relazioni sulle emissioni notturne e sullo stato, già allora compromesso, del Mar Piccolo. Sempre nel 1971, Antonio Cederna scriveva un articolo, “Taranto strangolata dal Boom”, in cui stigmatizzava la cementificazione selvaggia e definiva quello tarantino “un processo barbarico d’industrializzazione. Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”. Era possibile costruire un siderurgico diverso, e soprattutto una città diversa, intorno a quel medesimo siderurgico. Ma le cose sono andate diversamente, anche perché Taranto è stata spesso laboratorio della peggior politica del Meridione. Nell’aprile del ’77 veniva diffuso sul settimanale “Dialogo” un allarmante dossier sulla nocività, curato dal dottor Luigi Colapietro dell’Ospedale SS. Annunziata. Nel 1978 Marcello Cometti pubblicava un'inchiesta sull’inquinamento su “Produttività jonica”, mentre su “Rinascita” usciva un reportage di Paolo Forcellini, il quale, recatosi al rione Tamburi, annotava: “Il fetore del gas si sente già a distanza anche in una automobile con i finestrini chiusi”. A esplodere trent'anni dopo è un viluppo sociale-economico incancrenitosi decennio dopo decennio. Nel passaggio dal pubblico al privato, poi, molti fattori del quadro complessivo si sono ulteriormente aggravati, e per certi versi la fabbrica è divenuto un luogo ancora più impenetrabile. Oggi che può aprirsi una nuova fase, qualsiasi cosa voglia farsi di Taranto e della sua fabbrica, bisognerà ricordare la storia che ha generato una delle più gravi crisi ambientali che l'Italia ricordi. Quella storia è specchio dell'Italia e del suo funzionamento, e di come molte analisi lucidamente espresse nei decenni passati siano rimaste inascoltate.

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