70° ANNIVERSARIO della LIBERAZIONE
24 Aprile 2015 - ore 10.00
Saluto:
EZIO STEFANO Sindaco di Taranto
Introduce:
GIOVANNI BATTAFARANO Presidente ANPI-TARANTO
Interventi:
SALVATORE ROMEO Istituto Studi Storici "L'Economia"
PINO STEA Storico "La Politica"
ROBERTO NISTRI Storico "La Cultura"
Conclude:
ANTONIO URICCHIO Magnifico Rettore dell'Università
al termine della conferenza ci sarà la premiazione degli studenti partecipanti al concorso sul "70° ANNIVERSARIO della LIBERAZIONE
ANPI TARANTO
Settantesimo della Liberazione: 25 aprile 1945 -
25 aprile 2015
Roberto Nistri - Cultura e territorio a Taranto
1. L’illusione della Fiera del Mare e la “bella morte”
del Premio Taranto (1946-1953)
La città si era misurata onorevolmente
con il grande conflitto mondiale, giocando un ruolo di primo piano nella fase
finale della guerra, conseguendo riconoscimenti e apprezzamenti da parte delle
forze alleate per l’eccellenza delle maestranze, in virtù anche di un apparato
industriale conservato praticamente intatto: una eccezione fra le grandi città
italiane. Inevitabili erano le preoccupazioni per l’azzeramento della flotta e
una difficile riconversione da una economia di guerra a una di pace. Doveva da subito affacciarsi la
richiesta, un po’ peregrina, di un “risarcimento” per l’impegno
patriottico sostenuto dalla cittadinanza.
Si apriva una nuova stagione, non di entusiasmo ma certo di passione.
Ricorrendo a un titolo di Dickens ,
Il racconto delle due città, abbastanza appropriato
per la Taranto bimare, si potrebbe dire: “Era il migliore dei tempi, era il
peggiore dei tempi”. Il 14 agosto 1946 veniva inaugurata, alla presenza del
capo dello Stato Enrico De Nicola, la Fiera del Mare: una messa in valore di
attrezzature e capacità produttive concernenti la cultura del mare e la
capacità di creare un mercato marinaro, unico in Italia e in Europa. Un brand
eccellente. Purtroppo l’iniziativa doveva svilupparsi fiorente in quel di
Genova, mentre a Taranto nel ’51 la Fiera chiudeva i battenti: gli stands,
diventati luoghi di convegno per coppiette, venivano demoliti con le ruspe. Il
fallimento di una imprenditoria sui generis, incapace di schiodarsi dalla monocultura statale.
Una sorte più gloriosa ma più
sofferta doveva toccare al Premio
Taranto: il Premio del Mare, per la narrativa e le arti figurative. L’
iniziativa nasceva con l’esclusivo
sostegno di privati cittadini, per lo più ex studenti del liceo “Archita”, con una giuria di alto rispetto presieduta
da Giuseppe Ungaretti. Partecipavano protagonisti di primo piano della cultura
italiana, come Alberto Savinio,
Carlo Emilio Gadda, Gianna Manzini, Enrico Falqui, Marco Valsecchi, Pier Paolo
Pasolini… La produzione pittorica - Meloni, Casorati, Birolli, Pirandello,
Turcato, Apollonio - all’insegna dell’arte d’avanguardia, scandalizzava il basso provincialismo
meridionale, ma dalla stampa nazionale veniva paragonata alla Biennale di Venezia. Un “critico” barese
vaneggiava di una donna incinta svenuta al cospetto dell’arte astratta, ma
l’operazione, con gran concorso di pubblico, doveva fare scalpore. La manifestazione veniva ripresa
in diretta da “La Settimana Incom”, il cine giornale dell’epoca e la mostra veniva ospitata a Roma e a
Milano. “La Fiera letteraria” avrebbe dedicato all’evento un corposo numero speciale.
Onore e gloria per Antonio Rizzo e
il Circolo di cultura? Quando mai! L’Amministrazione Provinciale, in prima
linea l’assessore Monfredi, sollecitava una rapida sepoltura del Premio, con
strascichi giudiziari. Come si diceva, “non ci furono mai giorni così belli,
non ci furono mai giorni così brutti”.
Nel 1953 il Premio Taranto
chiudeva i battenti, con il De
Profundis di Ungaretti: “Il Premio Taranto
è tramontato per sempre. Fu il più bel premio d’Italia”. Non ci sarebbe stata
la quinta edizione: si preferiva salvarne la memoria, piuttosto che
sottometterla alle indebite appropriazioni da parte di istituzioni e politici
di basso conio. Rimane la memoria. “Favolosi quegli anni, avrebbe ricordato
Rizzo”.
2. Glorie di
Terronia
Il Premio aveva dovuto
combattere contro il “culturame”scelbiano e il “melmoso” italo-maccartismo
denunciato da Francesco Flora, con
la riduzione di opere d’arte a sagre parrocchiali (Leonida Répaci). Si metteva
di traverso anche l’ottuso stalinismo antiastrattista, sul quale in seguito lo storico Paolo Spriano
avrebbe calato un velo pietoso. Ma
le minacce più insidiose provenivano dal sottobosco dei pseudoartisti senza
arte né parte, sempre in cerca di patroni e patronesse da mungere. Valga
l’esempio della ingloriosa “Università dei Terroni” che apriva sede a Taranto in via Gorizia n.16. Come si
leggeva nello Statuto del 1946, l’Ente veniva istituito per propugnare “la
giustizia distributiva nel campo delle lettere, delle scienze e delle
arti”. Un programma assai
bizzarro: anticipando Andy Wharol, venivano promessi cinque minuti di gloria
per ogni aspirante “Sacerdote dell’arte”.
L’impegno era quello di difendere “tutti i valori dello spirito di
Terronia”, termine che acquisiva un significato di nobiltà, tanto da garantire
titoli onorifici: Libero docente, Cavaliere dello Spirito, addirittura Senatore, con tanto di
timbro del regno di Terronia. Quasi la Cacania di Musil e la Freedonia dei
fratelli Marx. Poetastri spostati
e maestri di non si sa che, si
allocavano nel sottobosco autocraticamente governato dal grafomane Franco Di
Napoli, che riusciva a pietire qualche blando conforto dal direttore del museo
archeologico e dal rettore dell’Università di Bari. Incredibilmente tale
baraccone veniva preso sul serio
da non pochi notabili locali, della Camera di Commercio e dell’Associazione
degli industriali, molti dei quali erano fieri avversari del Premio Taranto. Solito spirito di cricca e produzione accademica nulla.
3. Jonica
autarchia editoriale
La civica biblioteca
“Acclavio”continuava ad essere
frequentata da una ristretta cerchia di eruditi e cultori di storia
patria, ma lo stesso direttore Vito Forleo doveva ammettere che a Taranto non
si riusciva a pubblicare alcuna ricerca confrontabile con gli studi baresi,
come la “ Rassegna pugliese” o
i tre volumi di Terra di Bari. “Colpa
dell’incostanza e della tendenza al rinvio, il lavorare ignorandosi l’un l’altro, quel rimettersi al caso…”
(citato da Silvano Trevisani, 2015). Dal punto di vista editoriale, per
opuscoli e opuscoletti d’occasione, bastava e avanzava il buon tipografo- editore Salvatore Mazzolino; non era il
caso di spingersi oltre le mura cittadine. Forse è più interessante rilevare
come, durante il fascismo, nella borghesia “illuminata” tarantina non si era
registrato un solo abboccamento con Casa Laterza e il circolo antifascista dei crociani. Negli anni della
rinascita veniva anche sprecata l’occasione offerta dall’editore Lacaita di Manduria, che
intendeva coagulare un ampio fronte della cultura anticonformista , a partire
dal primo Convegno Pugliese per la laicità dello Stato e della scuola
Nazionale, tenutosi proprio a Taranto, nel 1948, nel teatro Fusco. Nel ’49 Piero Lacaita, in stretto
sodalizio con lo storico Gabriele Pepe e uomini come Basso, Fiore e Canfora, avviava la sua
attività editoriale. Nella città bimare
non scattava un feeling
con la nascente casa editrice, ad appena 30 km. Da Taranto. Magari i cataloghetti del Premio
Taranto, confezionati al risparmio e rapidamente esauriti, avrebbero avuto una
veste più adeguata e certi rapporti si sarebbero irrobustiti.
Solo in tempi successivi a Lacaita saranno affidate operazioni
all’altezza della editoria manduriana.
4. I cuori malinconici
Alla città non mancavano le belle
intelligenze, apprezzate ben oltre le mura cittadine: il poeta Michele Pierri,
che avrebbe sposato la poetessa Alda Merini; il bibliotecario insigne Vito
Forleo, storico ed erudito; lo scrittore Cesare Giulio Viola, che avrebbe
scritto, dal suo libro Pricò, la sceneggiatura de I bambini
ci guardano (1943) togliendo la maschera familista ad una
dolcezza soltanto apparente.
Ancora con Vittorio De Sica conquistava l’Oscar con la sceneggiatura del film Sciuscià (1946).
La poetica di Viola oscillava
fra realismo e naturalismo piccolo borghese, fra grigia banalità
esistenziale e l’eccezionalità del tragico quotidiano. Era la scrittura
dell’uomo scisso, l’intellettuale impossibilitato ad essere se stesso, il dandy attediato.
Figura archetipa era quel “Diogene Saturnino” nel quale Vito Forleo aveva rappresentato lo spleen di una lost generation, assolutamente impolitica ed estranea alle storie
delle classi subalterne, a cavallo
fra fascismo e nuova democrazia.
Per completezza si potrebbe
impostare una topografia culturale,
che veda ai piani alti la grande storia industriale, la vocazione ad uno sviluppo donato con
correlata servitù volontaria; al piano di mezzo una area minoritaria di
intellettuali provvisori, stranieri in patria e spesso sul piede di partenza.
Unica eccezione quell’Antonio Rizzo che,
con alcuni capitani
coraggiosi, sognava per
Taranto un nuovo cielo e una nuova terra, sostenendo la necessità di una
ricomposta identità cittadina che coniugasse il rispetto verso il passato con
l’apertura critica verso il nuovo, mentre al piano di sotto si sedimentava
quella che altrove abbiamo chiamato l’ideologia “cataldiana”.
Se gli
intellettuali si avvolgevano nel loro mantello di malinconia, il cataldiano “verace” (?!) aveva come
compagna fedele la nostalgia: di quello che si era perso, ma soprattutto di quello che non si è
mai avuto. Viene in mente un film cult del 1996: Trainspotting. Stare
seduti e guardar passare i treni. Molto tarantino.
5. Madre nostalgia
In realtà a Taranto non ha mai
assunto rilievo una autentica intellighenzia industrialista, né da parte operaia, né da parte imprenditoriale: una
figura fortemente esplicativa doveva affermarsi in seguito con lo stereotipo
del “metalmezzadro”.
L’intellettuale dis/organico percepiva la propria inessenzialità. Lo
spaesamento produceva la nostalgia dell’altrove, facendo scattare il
dispositivo ideologico volto a trasformare la debolezza in virtù. Nel cuore
della piazzaforte militare,
l’ininfluente uomo di cultura, professore o avvocato, s’inventava una
missione: il paladino della tarentinità. Funzionava una mitologia di matrice
municipal-popolare, pensata come argine identitario nei confronti della città
mutante. Tale ideologia è stata l’oppio degli intellettuali tarantini,
residenti o fuggiaschi, esteti o combattenti. Una idea-forza, impegnata a
delineare una mappa sentimentale, una Taranto del cuore: la vita come cerimonia rituale,
osservata come un tempo ciclico,
al riparo dalla temporalità orizzontale del progresso e del consumo. La
durezza della storia ha ormai ridotto l’identità cataldiana ad una dimensione
residuale e ormai sarebbe vano
attardarsi nell’inseguire la sua ombra. Il tarantologo del nuovo millennio rimedia qualcosa guidando in
visita nel centro storico non i turisti,
ma i suoi concittadini.
6. La guerra del mattone
Negli anni successivi, la cittadinanza doveva ancora
sbrogliare la matassa di tre piani regolatori: Tian, Bonavolta e Calzabini.
Nella fase ancora precedente l’insediamento dell’acciaieria, l’unica iniziativa
produttiva era rivolta all’edilizia
in un clima di deregulation o assoluto far west. Per quanto riguardava il negletto Centro storico,
il sindaco socialcomunista De Falco non nascondeva una certa nostalgia per lo
sventramento mussoliniano. Non veniva fuori uno straccio di Piano Regolatore
innovativo e a Taranto, sul fronte dell’urbanistica e dell’architettura (il
linguaggio attraverso il quale il territorio racconta la propria storia) la Civitas entrava in guerra contro se stessa, con pervicace autolesioniamo. Continui processi di mostrificazione,
stigmatizzati dallo storico
dell’arte Cesare Brandi e dal
primo ambientalista Antonio Cederna.
Il boom irrazionale delle costruzioni, con la lottizzazione selvaggia e
le licenze in deroga, già negli anni ’50 aveva imprigionato il territorio, precludendo ogni via di
scampo. L’amministrazione socialcomunista si impegnava a fondo (coinvolgendo
anche la Camera del lavoro e la Cgil) in battaglie di estrema
retroguardia, come il marmoreo
aquilifero della prima guerra mondiale.
Si faceva strada una vocazione per la grattacielomania
che doveva eccitare soprattutto le nuove leve democristiane. Nel 1954 si paventava
la demolizione dell’imponente Palazzo degli Uffici, da sostituirsi con un grattacielo di 30 piani. Per fortuna
la “ grande impresa nazionale” doveva scomparire insalutata ospite. Purtroppo un altro sciagurato
progetto, avviato dai comunisti e
portato a compimento dai loro successori, doveva giungere a efferato compimento. Trattasi dell’infame grattacielo del
Lungomare che, malgrado il vincolo posto dalla Soprintendenza alle Antichità,
avrebbe per primo violato
definitivamente il più maestoso affaccio al mare di tutta la Puglia,
nascosto e impedito da una
proliferazione ininterrotta di brutture più o meno residenziali, seguendo fino
a Capo S. Vito l’ennesimo muraglione,
protettivo del requisito “mare militare”. Il notevole interesse archeologico dell’insediamento non turbava
i sonni di proprietari e architetti.
La questione si risolveva nel
cantiere di notte, con dinamite e pistolettate, perché gli imprenditori edili non
potevano perdere tempo appresso alle Antichità. Il “Corriere del giorno” commentava cinicamente: tutte le
costruzioni di Taranto sono brutte e pertanto “dove ve ne sono 30, possono
esservene 31”. Il disegno del Lungomare veniva pregiudicato indefinitamente e il primo mastodonte,
secondo le parole di Antonio Rizzo, poteva lanciare verso il cielo il proprio
sinistro barrito di trionfo.
7. Paisielliana. Storia di un famoso monumento mai
realizzato
Il sindaco De Falco era un
amministratore onesto, ma sicuramente inabilitato per le imprese culturali (da
ricordare il pasticcio del Premio Taranto) e doveva impelagarsi in una gaffe
siderale, di risonanza europea, a tutto discredito della cittadinanza. Sempre
nel 1954 Comune e Provincia stanziavano le risorse per la troppo a lungo
agognata erezione di un monumento a Paisiello. Come si dice, una erezione non
si discute. Ma per una volta si scoprivano le carte: “si faccia un regolare
bando di concorso , affidando ad Antonio Rizzo, l’unico competente sul campo,
il compito di ordinare una giuria di tutto rispetto”. Le aspettative non venivano tradite: membri della giuria
erano Cesare Brandi, Raffaele Carrieri, Pericle Fazzini, Ignazio Gardella,
Virgilio Guzzi, Marco Valsecchi, Bruno Zevi. Si trattava della prima seria
rassegna di scultura moderna ordinata in Puglia e forse in tutto il
Mezzogiorno. Partecipava il fior fiore del mondo artistico nazionale e veniva
premiata la scultura astratta di Franchina: “un oggetto splendente” secondo
Zevi, un “capolavoro” secondo Lionello Venturi. Una alleanza fra politica e
cultura finalmente coronata da successo, a tutto beneficio della Città bimare?
Troppo bello per essere vero.
Nella notte si scatenava il genius loci, il maligno demone che mandava tutto a carte
quarantotto. L’opposizione democristiana si accaniva contro una scultura troppo
moderna, incomprensibile per la gente normale. Ci si metteva anche il
responsabile del settore culturale del Pci, che telefonava a De Falco per
rimproverarlo di voler regalare a Taranto un esempio di quell’arte astratta
fortemente avversata a Botteghe Oscure. Sembrava la rimonta dell’Accademia dei
Terroni e dei vecchi “sacerdoti dell’arte”, che ancora non avevano
metabolizzato il glorioso “Premio Taranto”. Critico di punta dell’arte
degenerata era, nientedimeno il missino Telesio Interlandi, razzista di
professione e traduttore dei testi hitleriani. Per farla breve , il Sindaco
annullava il concorso da lui stesso promosso e bandito, con strascichi giudiziari e scandalo in
Europa, grazie alle cronache de “Les nouvelles littèraries”. Nel 1960 l’opera di Franchina veniva inaugurata a
Genova. A Taranto De Falco
rimpiangeva un bel “Paisiello a cavallo”, mentre il
democristiano Pignatelli riesumava un busto cimiteriale del vecchio scultore
Canonica, commissionato dal podestà Giovinazzi nel 1940! Intanto Raffaele
Carrieri dichiarava di non volere
mai più rimettere piede a Taranto.
Il Bazar del cattivo gusto
trionfava e il pervicace Monfredi promuoveva l’ancora operante legge speciale
sullo sventramento del 1934. In Pellegrino
di Puglia, Cesare Brandi scriveva: “ è
Taranto una città che, posta in un sito singolarissimo potrebbe essere stupenda
e invece è squallida”. Privati del Patrimonio, come recita il
bel titolo di Tomaso Montanari: il romanzo criminale di una bieca
privatizzazione, spacciata per valorizzazione.
8. Taranto Capitale?
Nel 1961 s’inaugurava il primo
convegno di Studi sulla Magna Grecia e,
nella fase epica dell’insediamento italsiderino, Taranto poteva far valere
un non effimero ruolo di Capitale europea. Artisti di gran valore operavano a
ridosso della grande fabbrica e vi furono spettacolari happening ecologisti che diffusero anche nel circondario le arti
visive come privilegiato strumento critico della riduzione dello spazio urbano
a città-azienda. Si aveva comunque la percezione di una estrema fragilità del
tessuto sociale. La città grande industriale era ai primi posti nella umiliante
graduatoria della mortalità infantile. Lasciava da pensare una impennata della
mortalità proprio nei primi cinque anni della “civilizzazione” siderurgica (cfr.
F. De Benedetto in “Dialogo”, 27 novembre 1965).
Purtroppo le istituzioni
civili che stavano rilasciando licenze in bianco, in seguito licenze in
precario, all’arciabusivo
stabilimento siderurgico, in quel fatidico luglio del ’60, erano impegnate in
una tipica discussione tarantina: annientare o meno la fontanella di
Piazza Giordano Bruno con annessi
palmizi. Tarde non furono grazie
divine, ma intanto le ruspe
sterminavano un popolo di ulivi. Secondo Antonio Cederna Taranto si presentava
come la smentita di ogni decenza urbanistica. Avrebbe scritto nel 1972: “Un
ventaglio casuale e approssimativo di strade a raggiera, veri canyons e
crepacci, tra case di 9, 12, 22 piani, che si intersecano a casaccio e
finiscono in vicoli ciechi, senza un filo d’erba, senza una piazza, un’area
pedonale… Caos, congestione, sovraffollamento: è una città che si è
autostrangolata, che ha annientato le occasioni offerte dalla topografia e
dall’ambiente naturale, a solo vantaggio dei cultori della rendita fondiaria”.
Su Corso ai due mari si era avverata la profezia di Rizzo. Non un solo
mastodonte, ma una folla di colossi che ormai lanciavano
i loro trionfanti barriti, squadrando dall’alto in basso un Castello Aragonese
che pareva sempre più piccolo.
9. Il teatro dell’assurdo: Ionesco e la rinocerontite
Come è potuto accadere? Un testimone
autorevole come Giovanni Acquaviva, il direttore del “Corriere del
giorno”, nel 1982 rievocava
in una intervista gli anni del saccheggio: “ Si costruiva ovunque, comunque,
qualunque cosa. Iniziava un’orgia edilizia senza precedenti, uno scempio che
ancora grida vendetta , senza preoccuparsi degli oneri derivati al Comune in
fatto di organizzazione dei servizi. Si calpestava il piano regolatore della
città senza che nessuno fiatasse, anzi con il beneplacito dei partiti della
maggioranza… Era proprio l’amministrazione comunale a favorire questo
oltraggio, a incentivarlo. E nasceva la Taranto di oggi, con edifici di undici
piani sul mare, da una parte e dall’altra. La città diveniva un solo, mostruoso
cantiere edile e nessuno mosse un dito. In quel frangente che ruolo aveva il
“Corriere”? Che poteva fare?
Niente di niente. Un giornale aveva il dovere di suonare l’allarme, ma non
poteva farlo e non lo fece. Il “Corriere” era della DC, la giunta DC era
appoggiata dai missini. Il sindaco DC Monfredi e tutti gli uomini che avevano
portato Taranto all’oltraggio urbanistico venivano premiati dagli elettori… Il
giornalista è una signora per tutte le stagioni, non l’ho inventato io questo
mestiere né le sue regole (intervista di Adolfo Maffei a Giovanni Acquaviva in
“Quotidiano”, 4 novembre 1982).
Sempre rimosso il minaccioso apologo della rigogliosa isola di Pasqua,
scoperta nel 1722 con migliaia di abitanti e rivisitata nel 1864 con appena
110 superstiti malconci: dissennato exemplum di autodistruzione del proprio futuro, per gigantismo e imprevidenza. Un
collasso determinato dalla deforestazione che riduceva progressivamente la dieta, da polli e
molluschi, a topi e sterpaglia, fino all’antropofagia. Una demoniaca dissipazione delle risorse ambientali,
determinata da una folle guerra tra i clan, per l’edificazione di pietrosi mammoni sempre più imponenti,
simboli di potenza tecnologica da ostentare per la supremazia politica. Per
questo si distruggevano alberi e fibre legnose, e quando i sopravvissuti
cercavano di sfuggire all’inferno da essi stessi creato, si accorgevano che non
erano più rimaste risorse per costruire una barca. Una parabola semplice e
tragica: per soddisfare manie di potenza e di grandezza, si era perso il senso
del domani. Contro la religione della crescita per la crescita, rimangono ad
ammonirci i pietrosi signori di
una terra desolata.
10. Un simposio di sapienti
Insediatosi trionfalmente il
“Siderurgico”, un gruppetto di “resistenti” cercava di attrezzare culturalmente
una serie di robuste casematte, in senso gramsciano, per evitare che il
territorio potesse ridursi a mera residualità identitaria. Il Circolo di Rizzo,
con il suo work in progress organizzava
nel ’66 un ciclo di conferenze sulle più cogenti problematiche dell’epoca, con
gli interventi di Bruno Zevi sull’architettura, Arrigo Benedetti per il
giornalismo, Pietro Bianchi per il cinema, Carlo Bo per la poesia, Cesare
Brandi per la televisione, Gillo Dorfles per le avanguardie artistiche, Umberto
Eco per lo strutturalismo, Guglielmo Righini per l’astrofisica, Marco Valsecchi
per la scultura, Eduardo Sanguineti per
per il Gruppo 63… Naturalmente si registrava l’insorgenza di un preside
(l’eterno ritorno dei “sacerdoti dell’arte”) che dichiarava candidamente la sua
incapacità nel venire a capo della letteratura sperimentale, tanto da dover
leggere, per rilassarsi, qualche
pagina del Manzoni. Il bravuomo
non intendeva offendere nessuno e Sanguineti replicava che solo il Manzoni avrebbe
potuto adontarsi, sentendosi ridotto alla stregua di un
ansiolitico. Quegli interventi suscitavano un salutare scalpore, ma purtroppo la Provincia mancava nel
curare la pubblicazione dei testi, dispersi come lacrime nella pioggia. Sempre
nel ’66 Rizzo produceva un autentico capolavoro: la rivisitazione di tre sommi
tarantini: Giorgio Vigolo per Paisiello (1966, non pubblicato), Ettore Paratore per Niccolò D’Aquino
(1967, pubblicato) e il premio Nobel Quasimodo per Leonida (1967,) alfine pubblicato in pregevole
edizione da Lacaita e poi Mondadori.
.
11. L’Università in fumo e la battaglia per il risanamento del
Centro storico
Il più acculturato sindaco di
Taranto , Vincenzo Curci, sosteneva in maniera convinta tali interventi e un
paio d’anni dopo lanciava l’idea
di una facoltà tarantina di urbanistica e sociologia, in linea con
alcune riflessioni dell’epoca: l’esigenza di una produzione non-solo-acciaio,
volta ad attrezzare il territorio nei confronti di una prevedibile invasività
dello strapotere industriale.
L’organizzazione del territorio è il linguaggio attraverso il quale la
città racconta la propria storia. Parole sante, si diceva. Ma i padroni del
vapore, i cantori dell’edilizia selvaggia, non volevano assolutamente trovarsi fra i piedi sociologi e
urbanisti. Il progetto universitario finiva in cavalleria. Per fortuna, a
ridosso del fatidico ’68 si poneva mano all’eccellente Piano Blandino, che
purtroppo doveva nascere sotto l’ala di un uccello di malaugurio. Illecitamente
veniva demolito il settecentesco Palazzo Bellando Randone. Bisognava
ricominciare a battagliare, con Giorgio Bassani e Italia Nostra, con il soccorso della migliore cultura
del tempo, da Argan a Brandi, per
salvare la città vecchia di
Taranto. Nel ’72 veniva presentata
al pubblico la raccolta etnografica Majorano con testi pubblicati da Lacaita e
poi Einaudi.
Il patrimonio etnografico di
Maiorano doveva essere seriamente valorizzato negli anni ’90, con una strategia
di reconquista da parte di un gruppo di
studiosi coordinati dall’avv. Petrone, che hanno ricondotto alle origini tarantine le tradizioni
popolari legate ai rituali della Taranta: un brand autentico, purtroppo poco sostenuto a livello
istituzionale. Quei capitani coraggiosi del “Circolo di cultura” non hanno combattuto invano: con lunga
pazienza sono state vinte belle battaglie, per la salvaguardia del fiume Galeso
, contro la lottizzazione abusiva delle villette di Lama, contro la centrale carboelettrica
dell’Enel nel 1973, contro la carboelettrica dell’Enel nel 1980, contro la centrale nucleare ad
Avetrana, contro l’ennesimo
Palazzetto dello Sport o Teatro nella Villa Peripato… Qualcosa rimane, fra le
pagine chiare e le pagine scure…
Non sono mancati operatori
culturali volenterosi: la Giuliana Ermacora della Regione Puglia, il dirigente del Circolo Vaccarella
Giuseppe Francobandiera,
l’illuminato assessore alla cultura Tommaso Anzoino… Ma il demone della Taranto che si
rinnovava autodistruggendosi era
sempre all’erta. Sandro Viola nel 1985 già lo diceva: la fabbrica si è mangiata
la città. Quella che Ungaretti denominava non la Taranto vecchia ma la Taranto
più giovane, doveva subire un urbicidio, riducendosi a 2000 abitanti scarsi.
Era ferito a morte un pezzo di
quello che la Costituzione chiama il “paesaggio della nazione”.
Taranto rimane mobbizzata da 7 decreti pro Ilva e nel cuore
dell’Europa industriale perdura una “strage di stato”, rea confessa e a norma di legge. La
crisi ha comunque indotto una fioritura di scrittori, tutti regolarmente “ in
noir”, senza confronto alcuno con
il resto del mezzogiorno.
12 . La bella avvelenata
Quando ci si trova con le
pezze sul sedere, qualcuno tira fuori la risorsa cultura. S’invoca la stella
cometa e prontamente segue una
buffa “annunciazione annunciazione!” (cui non segue mai la manutenzione). In questa stanca corsa del criceto è
immancabile lo storytelling dell ’homo
politicus con il suo specchietto per le
allodole . Il ministro Franceschini e il senatore Grasso si sono affacciati su
una antiquissima urbs dissestata e avvelenata, discettando su una “Taranto
Spartana” che “valga come esempio per tutti, un brand mondiale che possa
favorire la svolta” (“Quotidiano”, 25 novembre 2014) . Le solite patacche
dell’Accademia dei Terroni e dei Sacerdoti dell’Arte: grande ammuina per spacciatori di finto antico , fabbricatori
di colonne in cartongesso e Zeus
di vetroresina, da propinare a chissà quali turisti. La verità è che
solo i tarantini sono capacissimi di schivare l’esca e abboccare all’amo. In Totò truffa’62 , spacciandosi per il padrone della Fontana di
Trevi, il bidonista riusciva a estorcere quattrini all’allocco di turno. Oggi
quello sketch è opinione mainstream. C’è poco da ridere, fra imbonitori e brandizzatori…
Nel 1978 Mario Pedini, ministro piduista per i Beni culturali
lanciava la sciagurata metafora del patrimonio culturale come “petrolio
d’Italia”: un ritornello ossessivo. Non considerando alcuni sgradevoli effetti collaterali del
regime petrolifero, il ministro Franceschini ha subito dichiarato: “Penso che
il ministero della cultura sia in Italia come quello del petrolio in un Paese
arabo (“Il Sole 24 Ore”, 23 febbraio 2014). Il petrolio richiama un altro
termine magico: sfruttamento. Secondo il vocabolario, sfruttare vuol
dire privare un terreno degli elementi
nutritivi, depredare una regione delle sue risorse, ma anche vivere alle
spalle di qualcuno, usare o abusare di qualcuno o qualcosa . La ministra Giovanna Melandri ripeteva
che “ l’Italia sta seduta sopra la propria fortuna”: una eccitante metafora coniata da Nell Kinball, la più
celebre tenutaria di bordello degli Stati uniti.
Tutto questo non dovrebbe avere
nulla a che fare con la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e
artistico della Nazione, secondo l’art.9 della Costituzione e una sentenza del
1986 della Corte costituzionale,
indicante la primarietà del valore estetico-culturale che non può essere
subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici.
A Taranto i “petrolieri” hanno
grattato il fondo del barile già dall’Ottocento. Malgrado i molteplici assalti
dei briganti, i beni archeologici sembrano messi in sicurezza nel Museo, anche
se concupiti da pifferai
“valorizzatori”, vogliosi di privatizzazioni occulte. Intanto, fra annunci e decreti, si paventa a
Taranto la chiusura dei corsi di
Beni Culturali. Come al solito, Smoke Gets in Your Eyes, fumo e nulla più. Non sono molte le attrazioni monumentali che si offrono ai turisti:
rimane un solo “monumento integrale dell’umile Italia da salvare”. Una Città
vecchia. Una città del cuore. La
città dei due mari con il suo castello, l’unico autentico brand immortale.
Occorre lunga pazienza con le solite facce di sempre.
Speriamo che Franceschini e
Grasso, squillanti annunciatori di una fantasmatica Taranto Spartana, seppelliscano l’ascia di guerra della
ennesima pseudo valorizzazione fasulla. Terrorista è chi devasta. Resistente è chi misura il progresso
non in metri cubi di cemento, appalti e fatturati, ma in qualità della vita,
nella devastante crisi del welfare urbano. Seguendo le indicazioni di Salvatore
Settis, di Tomaso Montanari e del
collettivo Wu Ming, occorre approntare un argine in difesa della immateriale “piccola
bellezza”, un bene comune e
inalienabile. La battaglia è dura,
ma è solo per il difficile che vale la pena di combattere, diceva il vecchio
Antonio Rizzo.