sabato 18 settembre 2021

Paisielliana ovvero storia di un famoso monumento mai realizzato

Roberto Nistri

Paisielliana ovvero storia di un famoso monumento mai realizzato

in "Galaesus", XV (1990-91), Taranto 1992, pp. 135-153


Ricordando Antonio Rizzo a dieci anni dalla sua scomparsa

1. Antiquaria

La proposta per un monumento a Paisiello prese consistenza a Taranto a partire da un intervento di Saverio Magno, sulla “Voce del Popolo” del 21 febbraio 1886: “La vita di Giovanni Paisiello è una serie di glorie non interrotta. Da per tutto si ricorda questo sublime innovatore, da per tutto si erige una pietra, un simulacro per ricordare la sua fama: solo da noi, che avremmo più di ogni altro il dovere di tributargli le onoranze dovutegli, si rimane indifferenti e si cerca con l’abituale apatia di distruggere le più grandi tradizioni del passato (...). A Taranto non resta che riparare ad un torto (...) erigere un monumento che ricordasse ai posteri le virtù ed il genio del nostro concittadino”.

Come in seguito ebbe ad ironizzare Antonio Rizzo, era il tempo dei monumenti. L’Italia umbertina li sfornava a getto continuo, un modo come un altro di irrobustire la gracile Unità; qualche scultore s’era specializzato nella produzione in serie di Cavour, Garibaldi ed altri personaggi più frequentemente richiesti da scuole e amministrazioni. Anche a Taranto venne organizzato un comitato ad hoc e la procedura venne avviata con moto uniformemente ritardato. Sulla “Voce del Popolo” dell’11-12 giugno 1900, Ignazio Carieri scriveva da Catania per esprimere le sue “calorose esortazioni per le onoranze dovute a Giovanni Paisiello nella speranza che codesta benemerita Amministrazione Comunale voglia riprendere in considerazione tale pratica già abbastanza avviata e portarla a compimento”.

Ma l’era umbertina e quella giolittiana tramontarono senza che Taranto realizzasse “l’antica e nobile aspirazione”: “antica fu battezzata fin dalla nascita e poi ebbe qualche decennio per diventarlo sul serio, anche dal punto di vista della cronaca; quanto alla nobiltà era intrinseca alla proposta stessa”(1).

Paisiello dovette però subire una delle tante, tremende epigrafi dettate dal commendatore Alessandro Criscuolo: “Giovanni Paisiello - maestro di nuove armonie - imperò sul secolo guerresco - lo commosse alla potenza d’amore - lo trascinò alla vontà del pianto glorificando - armi - duci - trionfi di bellezza - terenziane gioie - dolore di vinti - pagane gesta - nazarene preci - nato di popolo - ei si nomò - dal re beffardo - il fastigio e l’oblio - dalla gloria attonita il lauro - dalla patria memore l’apoteosi - nel centenario della morte - novella epifania dell’immortale - il Comune decretò - pose” (2).

Con una variante l’epigrafe venne riportata sulla lapide, disegnata dall’architetto Cesare Bazzani, che venne scoperta l’11 dicembre 1916 in assenza delle previste autorità governative, trattenute a Roma a causa della situazione bellica. La commemorazione venne tenuta dal maestro Francesco Cilea, direttore del Conservatorio di Napoli. In quell’occasione ripartiva il progetto-monumento: Armando Lucifero interpellava Francesco Jerace, prospettando un intervento nella Villa Garibaldi, mentre il Bazzani prendeva contatto per lo stesso fine con lo scultore Canonica. Ma ogni progetto cadde nel nulla (3).

Ricorse il secondo centenario della nascita di Paisiello e l’idea del monumento tornò a fare la sua timida apparizione. Il solito comitato esumò dalla vecchia pratica il disegno del Canonica, Accademico d’Italia, al quale il Podestà di Taranto marchese Giovinazzi decise di commissionare l’auspicato busto. Poi venne la guerra, finì la guerra, si dissolse l’istituto podestarile e si dissolse il comitato ordinatore delle cerimonie paisielliane.

1954 - Tutti i lavori concernenti le opere pubbliche non avevano fatto un passo rispetto al 1939, ma il Consiglio Comunale a voti unanimi si fece un punto d’onore di innalzare un monumento a Paisiello, stanziando due milioni. Voto concorde delle destre e delle sinistre, del sindaco comunista De Falco e del consigliere democristiano Monfredi. Il Consiglio Provinciale, su relazione favorevole dell’assessore Monfredi, si associava e stanziava tre milioni. Nessuno si ricordava più del Canonica e il neocomitato invitava dieci illustri scultori a presentare bozzetti di monumento, trasformando ipso facto il comitato in giuria. Due artisti fecero sapere che prima di mettersi al lavoro volevano avere l’elenco dei componenti della giuria, il Messina fece sapere chiaro e tondo che lui aveva superato da un pezzo l’età degli esami, gli altri neppure risposero. Dopo questa lezioncina, il Comitato rinunciò a travestirsi da Giuria e si comprese che non c’erano vie di mezzo. O si bandiva un concorso garantito da una autorevole giuria o si affidava direttamente l’incarico ad uno scultore apprezzato dalla critica qualificata. Il sindaco si recò a Milano per contatti diretti, ma Manzù declinava l’incarico e le condizioni di Messina venivano considerate troppo onerose: pagamento di una somma d’invito e di una seconda somma all’atto della consegna del bozzetto (come era giusto). Il Comitato decise per il concorso nazionale.

2. Il concorso per il monumento a Paisiello

Con la promozione delle due Amministrazioni congiunte, viene redatto il bando di concorso per il monumento a Paisiello, a cura di un comitato cittadino presieduto dal sottosegretario Gaspare Pignatelli: il sindaco De Falco, il presidente dell’Amministrazione Provinciale Diasparro, i segretari Cardone e Gonfiantini, il comm. Monfredi, il rag. De Marco, il sig. Caffio, l’ing. Peretto, il cav. Gennarini, il prof. Angarano, il gen. Cerbino, il prof. Conte, il dott. Ostillio, il dott. Federico Di Palma, l’avv. Ponzio, il rag. Costa, il comandante Piangiolino, l’ing. Roncisvalle, l’ing. Buonavolta, l’ing. Di Lullo, l’avv. Dino Rizzo, l’avv. Santovito, il rag. Gallitelli, il dott. D’Ammacco, l’arch. Speranza, l’ing. Clemente, il dott. Giovanni Acquaviva, il direttore del museo Degrassi, il direttore dell’Arsenale gen. Vallone, il fiduciario del Circolo di Cultura Temistocle Scalinci (4).

Comunque il “cervello” dell’operazione è il giornalista Antonio Rizzo, l’unico ad avere reali legami con figure di spicco della cultura nazionale, legami che si sono rafforzati durante le vicende del Premio Taranto (5).

Di fatto è Rizzo a ordinare la composizione della Giuria, che risulta di tutto prestigio: Cesare Brandi, Raffaele Carrieri, Pericle Fazzini, Ignazio Gardella, Virgilio Guzzi, Marco Valsecchi, Bruno Zevi. Il premio per il vincitore del concorso è di un milione, ai due artisti segnalati subito dopo mezzo milione e trecentomila lire. Ad altri quattro artisti segnalati duecentomila lire ciascuno. Le Amministrazioni si propongono di ordinare una mostra dei bozzetti, acquisendone così la proprietà artistica.

Il concorso ha un successo senza precedenti per numero e qualità di partecipazioni, con Mazzacurati, Franchina, Minguzzi, Fabbri, Leoncillo, Consagra: “La mostra dei migliori bozzetti se si realizzerà sarà la prima seria rassegna di scultura moderna ordinata in Puglia e forse in tutto il Mezzogiorno” .

Così Carrieri racconta la sua attività di esaminatore dei 120 lavori presentati: “Gli artisti giovani - intendo quelli d’animo e di mano più sensibili - s’erano allontanati dai ripostigli di teatro e dai negozi di musica per tentare di risolvere su un piano plastico e formale l’espressione del monumento. Una fatica notevole. Ma qualcuno doveva pur risolverla in uno stile che non fosse d’encomio o di commemorazione. Franchina, Agenore Fabbri, Leoncillo Leonardi, Minguzzi, Consagra, Calò, in altre occasioni avevano dato prove inconfondibili di serietà e d’invenzione. I loro bozzetti presentati a Taranto per onorare la memoria di Paisiello erano certo i migliori fra la lunghissima schiera di concorrenti. E quando diciamo ‘migliori’ è in rapporto alla soluzione strettamente stilistica” (7).

Non manca certo la paccottiglia in gesso: dalle casse continuano ad uscire ometti in parrucca che riposano fra pianoforti a coda e canne d’organo, in una iconografia da camposanto. Ma se il confronto è serrato, non riguarda certo il ciarpame cimiteriale: “La discussione è stata vivacissima” - ricorda Bruno Zevi - “Fino all’ultimo, sono stati in palio per il primo premio Nino Franchina e Leoncillo Leonardi. Con un brevissimo scarto ha vinto Franchina. Il secondo premio è stato naturalmente assegnato a Leoncillo, il terzo a Fabbri, mentre hanno ottenuto rimborsi Calò, Consagra, Salimbeni e Tot. L’area destinata al monumento è infelicissima: un’aiuola di piazza Castello, tra il palazzo del Municipio e il ponte girevole, di fronte al Castello Aragonese. Franchina, insieme all’architetto Sissa, ha compreso perfettamente la condizione urbanistica del monumento: l’ha concepito verticalmente, una forma affusolata in anticorodal, alta 10,50 metri, scattante da un piedistallo ascendente in cemento posto proprio in punta all’aiuola, in faccia al ponte girevole. Una grande scultura astratta, remotamente indicativa nelle lucide superfici e nell’ondulato profilo della perfezione musicale di Paisiello, ben visibile dalla passeggiata che costeggia il lato opposto del canale. Un oggetto splendente, che non ha nulla a che vedere con gli alberi dell’aiuola, con la sorda piazza, coi muti palazzi; ma che, appunto per questo, risolve il problema ponendosi al centro di un episodio urbano negativo” (8).

Il secondo premio tocca a Leoncillo e Chiarini, con una fontana di forma musicale, secondo moduli post-cubisti, decorata da un fregio in ceramica policroma (nelle travagliate vicende del Premio, la ceramica è destinata a sparire per opera di non si sa chi e non si sa dove) (9).

Mentre ferve l’allestimento della mostra, i giurati diffondono pareri del tutto lusinghieri sul valore dell’operazione. Così Marco Vaisecchi: “Una quindicina di bozzetti si son potuti scegliere per la mostra, interessanti per l’una o l’altra soluzione offerta, da quello di Franchina, nettamente astrattista, col suo fuso d’alluminio spiccato nell’aria senza alcuna concessione al simbolo tradizionale, a quello di Leoncillo che ha immaginato un largo altorilievo in ceramica colorata riflesso in una vasca d’acqua tra le piante, a quello di Fabbri che allude alla cavea di un teatro con pareti istoriate e una coppia di maschere settecentesche che danza il minuetto (…). Discussioni ce ne saranno certamente: consiglio di pubblicare in un fascicolo tutti questi migliori bozzetti perché servano di discussione anche fuori Taranto; e sarà un altro motivo di prestigio per questa città e i suoi coraggiosi amministratori” (10). Virgilio Guzzi scrive che, premiando il Franchina, la giuria s’è risolta “all’accettazione di un ideoplasma astratto che simbolicamente ‘evoca’ l’arte di Paisiello in un modulato, lucente ritmo” e che “il Franchina, il quale nella sua qualità di astratto si fonda sulla poetica dell’arte come musica, deve aver sentito che questa era per lui l’occasione unica per effondersi; ed ha difatti espresso quanto aveva dentro di meglio” (11).

3. …Tamquam non fuisset

Nella sua conferenza d’inaugurazione della Mostra, Cesare Brandi deve presentare un monumento che è “una specie di fulmine astratto, solidificato all’ingresso della città vecchia”. Ma Brandi non terrà la conferenza né la mostra verrà inaugurata. Il 4 marzo il “Corriere del Giorno” annuncia: Sospesa la premiazione dei vincitori del concorso. Si rende noto che l’on. Pignatelli ha raccolto a Roma “voci” su presunte irregolarità: alcuni bozzetti non presentati in tempo, non tutte le opere sono state esaminate... Che cosa è accaduto? Lo stesso fronte pseudo culturale che negli anni precedenti ha affondato il Premio Taranto sta cominciando a lanciare siluri contro “una scultura troppo moderna, che la gente non avrebbe compreso”. Tutti i rappresentanti politici (eccezion fatta per i socialisti) vengono presi dal timore di essersi comportati troppo bene e di aver offerto alla città un’altra occasione per porsi da protagonista all’altezza dei tempi. Il sindaco De Falco viene bersagliato da Botteghe Oscure con telefonate che ricordano che il Partito non apprezza l’arte astratta e s’incomincia a capitombolare dalle stelle alle stalle.

Il “Corriere del Giorno” individua immediatamente il colpevole di tutto: “...emerse l’ingerenza nell’attività organizzativa del Comitato, di cui non faceva neppure parte, di tale Rizzo Antonio. È risultato addirittura che il Rizzo ha risposto direttamente e di sua iniziativa a lettere di partecipanti al concorso, concedendo finanche delle proroghe al termine di spedizione dei bozzetti: il Rizzo, nel corso delle riunioni del Comitato, affermò di aver avuto l’autorizzazione a far questo dal Sindaco, ma, su precisa richiesta del comm. Monfredi, componente del Comitato, il Sindaco negò nel modo più reciso di aver rilasciato tale autorizzazione (...). Un privato cittadino si è abusivamente intrufolato - e non si capisce a che titolo - nel Comitato promotore (...). Dispiace che ogni bella manifestazione artistica organizzata nella nostra città debba risolversi con strascichi incresciosi, che, guarda caso, hanno sempre il medesimo protagonista” (12).

Che il “tale Rizzo Antonio” abbia organizzato tutto il Concorso è cosa pacifica e non si vede chi altri avrebbe potuto farlo. Tutti i valorosi artisti che hanno partecipato e tutti i componenti della giuria hanno avuto in Rizzo il loro punto di riferimento, qualificato dalle grandi battaglie del Premio Taranto. Le piccole invidie di paese vengono fuori chiaramente dagli interventi di un certo Pupino, che proprio in questa fase sta conducendo sul “Corriere” un’aspra polemica retrospettiva sul Premio Taranto: “Chi ha compilato il bando di concorso? Chi ha composto la suddetta Giuria, che ricorda quella dell’avventuroso Premio Taranto per le sue debolezze artistiche e per i nomi di taluni membri?” (13).

II misterioso “intrufolato” viene additato alla pubblica opinione come il primo guastatore: “Con quel tale Rizzo Antonio come la mettiamo? Sembra assodato che egli ha fatto e disfatto come meglio ha creduto: non autorizzato né dal Sindaco né dal Comitato, ha tenuto la corrispondenza con gli scultori, ha chiamato la giuria (vedi ‘L’Espresso’ n. 11 p. 12, articolo di Bruno Zevi), ha concesso proroghe...” (14).

Lo stesso “Corriere” il 1° aprile incomincia a criticare il Sindaco, perché questi non nega recisamente di aver dato incarico al Rizzo, ma dichiara stranamente di averlo “autorizzato a tenere corrispondenza con gli artisti a titolo personale” (!). Insomma nei confronti di Antonio Rizzo non emerge alcun addebito, solo quello di essersi gratuitamente prodigato a favore del buon successo dell’iniziativa promossa dal Comitato.

Nella riunione di Comitato del 31 marzo propone l’annullamento del Concorso il sindaco De Falco, già presidente del Consiglio Comunale che approvò la deliberazione, presidente del Comitato cittadino, rappresentante in seno alla commissione esaminatrice dell’Amministrazione comunale, presidente della giuria, presidente della commissione di accertamento. Non si riesce a stabilire un valido motivo per deliberare l’annullamento, per il quale comunque votano tutti meno tre: i socialisti Peretto e Caffio, e il direttore della “Voce del Popolo” Dino Rizzo.

“La prima proposta e la più strabiliante” - così riepilogherà Antonio Rizzo - “fu avanzata dall’on. Pignatelli: espunto dal concorso Franchina, per la pretesa irregolarità della sua posizione, a guisa di primo dei non eletti sarebbe dovuto subentrare Leoncillo. Questa assurdità naufragò perché la posizione di Franchina era documentatamente regolare. E allora il sindaco pro tempore chiese l’annullamento del concorso da lui stesso promosso e bandito, perché in qualità di presidente del consiglio che lo aveva approvato a voti unanimi non sottopose il bando di concorso all’autorità tutoria, ragion per cui il premio assegnato a Franchina da una giuria da lui stesso, De Falco, presieduta, non impegnava per nulla il Comune. Il concorso era nullo, tamquam non fuisset, e lo sarebbe stato anche se lo avesse vinto Michelangelo” (15).

La notizia suscita scalpore in tutta Italia. Il 3 aprile Raffaele Carrieri scrive a Rizzo: ‘‘Caro Antonio, ciò che avviene a Taranto è proprio incredibile. C’è da arrossire di vergogna. Abbiamo compiuto il nostro dovere con assoluta serietà, competenza e probità. Il concorso pel Monumento a Paisiello è naufragato per insulse quisquilie rimosse da facinorosi incompetenti. Ho scritto a parte al sindaco. Salutami gli amici tutti. Ti stringo la mano con affetto il tuo Raffaele Carrieri” (16). Da allora Carrieri non volle più venire a Taranto.

4. Un certame ad alto livello

La discussione, al di là dell’ambito locale, è già aperta sulla stampa nazionale: Virgilio Guzzi interviene sul quotidiano “Il Tempo”. Marco Valsecchi sul settimanale “Tempo”. Bruno Zevi sul settimanale “L’Espresso”. Sempre Zevi conduce sull’argomento una radioconversazione per il “terzo programma”. “II concorso nazionale per il monumento a Paisiello in Taranto sarà oggetto di violenti dibattiti nei prossimi mesi. Per esso è in gioco il problema dell’arte astratta, e inoltre quello della scultura monumentale (...). Ad ogni obiezione del cosiddetto buon senso provinciale bisognerà rispondere puntualmente: perché a Taranto si gioca l’avvenire dell’arte di quella regione. Se l’Amministrazione Comunale si lascia intimorire dalla cosiddetta opinione pubblica arbitrariamente interpretata da qualche gruppo di intellettuali retrogradi, e stimolata magari da qualche concorrente bocciato, Taranto tornerà nell’ombra del provincialismo. Bisogna perciò realizzare il monumento di Franchina, compiere fino in fondo un atto di coraggio. Un atto che inserirà Taranto nel Baedeker dell’arte italiana moderna” (17).

Contro il monumento d’avanguardia si sono scatenati tutti i teppisti della sottocultura tarantina che minacciano di abbattere di notte il monumento (definito ‘u tirabisciò oppure na ponde de tràpane) nel caso venga in mente a qualcuno di realizzarlo per davvero (18).

L’intervento di Zevi viene brillantemente contestato dal commendatore Salvatore Spedicato: “La scottante verità è che l’arte astratta non può essere in nessun modo presa sul serio, malgrado i titanici sforzi di Bruno Zevi, se non da un microscopico gruppetto di agitati (...). L’arte astratta è un mostruoso feto partorito da una sparuta pattuglia di cerebrali. È un rompicapo” (19).

Su scala nazionale prendono posizione contraria al monumento del Franchina solo i giornali comunisti l’“Unità” e il “Contemporaneo”, e la rivista fiorentina “Il Ponte”. La rivista internazionale “L’Architettura” tratta nel fascicolo d’aprile “lo scandalo” di Taranto, denunciando al pubblico europeo e americano il tentativo di impedire l’edificazione del monumento. “Tutti i rigurgiti di una mentalità provinciale e retorica fanno bella mostra di sé per criticare l’opera vincitrice”, afferma l’autorevole rivista. E soggiunge: “Taranto è al bivio: se si arrende e non realizza il monumento, ricadrà in quell’inerzia coloniale dalla quale ha cercato di sollevarsi; se l’amministrazione e l’opinione pubblica avanzata riescono ad imporre l’attuazione del monumento, Taranto si innalzerà al livello della cultura moderna, nazionale ed europea”.

Un’altra rivista internazionale che si pubblica in Italia si occupa del concorso: “Civiltà delle macchine” (numero del maggio-giugno 1956). Nel testo italiano e nel sunto inglese vengono posti sul medesimo piano una scultura-struttura di Naum Gabo per la città di Rotterdam e il monumento a Paisiello di Nino Franchina e Ugo Sissa per Taranto. E anche uno dei più diffusi e autorevoli giornali letterari del mondo, “Les Nouvelles littéraries” di Parigi (n. 1495 del 26 aprile) pubblica nella pagina regards sur le monde, in apertura, una lunga cronaca d’arte dedicata quasi interamente all’iniziativa di Taranto. Scrive Jean Claude Ibert: “La scultura astratta divide nuovamente l’opinione dei critici. I commissari di questo concorso in effetti hanno assegnato il primo premio a Nino Franchina che, in collaborazione con l’architetto Ugo Sissa, presentava un bozzetto particolarmente audace. Si dice ora che si vorrebbe annullare questo concorso perché l’opera premiata sembra troppo moderna! Gli ambienti artistici sono in piena effervescenza, ciascuno sceglie la propria parte, si meraviglia e si indigna senza peraltro voler contestare il talento di Nino Franchina, che ha già dato prova di sé”. È la prima volta che uno dei maggiori giornali letterari di Parigi si occupa - e con parole di elogio - di una iniziativa artistica presa in Puglia.

In Italia è da segnalare un intervento sul n. 14 del “quindicinale di politica e di attualità” legato al Movimento Sociale Italiano, il “Roma”. Nell’articolo di Telesio Interlandi Umanesimo e tecnicismo, nel quadro della consueta censura contro il “culturame stanco e appassito” si insinua la stroncatura contro il monumento di Franchina, la botta contro la “scultura italiana capace di tradurre plasticamente in un cavatappi la musica di Paisiello”. Questa battuta del “cavatappi” ha girato molto, e andrebbe a tutto onore di Franchina se a inventarla fosse stato questo personaggio, l’Interlandi, fattosi apprezzare negli anni Trenta quale traduttore in italiano delle aberrazioni pseudoscientifiche dei razzisti hitleriani.

Nel numero di agosto del ‘56 la rivista “Architettura” interviene sull’argomento per la terza volta (dopo i fascicoli n. 5 e n. 7) con una lunga nota critica che esamina dettagliatamente tutti i più significativi bozzetti presentati: “Nella notte, trapelato il nome del vincitore, succedeva il putiferio. L’irritazione dei concorrenti bocciati, il provincialismo di alcuni membri del comitato promotore, l’ostilità verso l’astrattismo particolarmente vivo da parte dell’amministrazione comunale, facevano lega: con la scusa di irregolarità nella consegna dei bozzetti, si annullava il concorso e si eliminava la mostra. Brandi, indignato, rifiutava di tenere la conferenza e lasciava Taranto. È in atto una vertenza fra i vincitori del concorso e l’amministrazione comunale di Taranto: non v’è dubbio che malgrado il dispiacere che possono provare per il risultato, tutti gli scultori e gli architetti che hanno partecipato alla gara si schiereranno con Franchina e con i commissari. Se si ammette il principio che un’amministrazione comunale possa annullare un concorso giudicato da una commissione qualificata per tema che il bozzetto vincitore non piaccia, si costituisce un precedente grave per tutti.

A parte il lato giuridico, vediamo l’atteggiamento della critica. Guzzi, Valsecchi e Zevi hanno preso posizione decisa a favore del risultato. L’unica voce discorde è stata quella di Antonello Trombadori che su “Il Contemporaneo” ha sferrato un violentissimo attacco contro l’astrattismo, ‘negazione stessa di ogni dialettica di pensiero-sentimento nella personalità dell’artista e quindi di ogni libera fantasia creatrice’ (...) A che serve promuovere concorsi con giurie qualificate se poi i primi arrivati possono contraddirne le conclusioni? Ma c’è di più: è in gioco la cultura di Taranto; una città che ha tentato di sprovincializzarsi prima istituendo un premio per la pittura, poi indicendo il concorso per il monumento a Paisiello. La prima prova è fallita. Ora bisogna resistere”.

A Roma, alla galleria “Selecta” diretta da Carlo Cardazza, si apre una mostra di Franchina e, fra le opere esposte, raccoglie i consensi più lusinghieri proprio il famoso bozzetto. Nel catalogo di presentazione così si pronuncia il critico Lionello Venturi: “Il bozzetto del monumento di Paisiello a Taranto è un capolavoro. È una figura danzante, una figura musicale che sale senza materia, luce nello spazio, verso il cielo. È facile comprendere come mai una giuria d’intenditori, anche se contrari all’astrattismo, siano stati sedotti da quelle lievi curve aeree, e abbiamo premiato Franchina perché infine su una piazza d’Italia sorgesse un monumento adeguato alla nostra civiltà. Poi i politici, incontratisi come due schiere di ciechi nel sottosuolo, hanno trovato il pretesto per defraudare Franchina del suo diritto”.

5. La burla dei ciechi

Le talpe non hanno nessuna voglia di uscire dal sottosuolo. Il 24 luglio del 1957 l’Amministrazione Comunale di Taranto viene autorizzata dal Consiglio Comunale a resistere nel giudizio intentatole dai vincitori del concorso, ormai definito “famigerato” dal “Corriere del Giorno” (20).

Nella sua relazione il vicesindaco Giuseppe Acquaviva dichiara che “manca assolutamente la legittimazione passiva del Comune, la cui deliberazione si limitava a nominare il comitato e ad erogare un contributo”. Cioè il Comune decide di difendersi assumendo di essere estraneo all’iniziativa (le “gravi irregolarità” sono già diventate una subordinata): il Comitato ha dunque millantato credito mettendo in giro i bandi in cui è detto che il concorso è bandito dal Comune? Ma del Comitato non facevano parte Sindaco, assessori, consiglieri comunali di maggioranza e di minoranza?

Interviene il socialista Luigi Ladaga che, esaminati i documenti della Commissione di inchiesta (cioè De Falco, Monfredi, Cardone e Gonfiantini che hanno indagato sul proprio operato in quanto membri del Comitato) e non individuando alcuna irregolarità, dichiara l’opportunità di una civile transazione con gli artisti (21).

Monfredi ribadisce le “molteplici irregolarità” da addebitarsi al Comitato di cui lui era parte e “pone in risalto la figura di quel tale Rizzo Antonio (ma non lo nomina) il quale, invitato dall’allora Sindaco e Presidente del Comitato organizzatore, De Falco, a collaborare con il Comitato stesso per una migliore riuscita del concorso (...) andò ben oltre il mandato ricevuto, commettendo una serie di scorrettezze [si è definitivamente appurato che l’“intrufolato” Rizzo aveva avuto un preciso mandato] (...) che tutti sappiano che soltanto un cittadino di Taranto ha infangato il nome della nostra città” (22).

Il socialdemocratico Quinto è per la “transazione” (23) mentre si dichiarano per la “resistenza” i democristiani De Pace e Leone. L’ex-sindaco De Falco interviene per “chiarire”, a modo suo, la situazione: “Come è sorta la questione? Prima ancora che nascessero le voci d’irregolarità, c’era stato un sollevamento cittadino (!) contro quel primo monumento astrattista. Da qui è nata tutta la questione. Se il monumento fosse stato magari un bel Paisiello a cavallo (?) io sono convinto che questa sollevazione non ci sarebbe stata e noi non saremmo venuti a conoscenza delle voci, e tutto sarebbe andato liscio. Do atto che il movente è questo, perché ho sentito gente ferocemente scagliarsi contro il monumento, fino al punto da affermare che se il monumento fosse stato eretto lo avrebbero demolito di notte” (24).

Contro la “resistenza” votano i socialisti, a favore democristiani, comunisti, monarco-missini.

Ma, mentre il contenzioso è ancora aperto, ecco il colpo di genio (quel genius loci che inconsciamente spadroneggia nelle vicende culturali della Taranto moderna); il senatore Pignatelli, lo scopritore delle “gravi irregolarità” mai documentate, d’accordo con il nuovo sindaco, il democristiano Monfredi, tira fuori l’arcaica deliberazione podestarile del 1959, incarica privatamente il vegliardo Pietro Canonica di riprendere il bozzetto, tenendo il Consiglio Comunale all’oscuro di tutto.

Fra il ‘58 e il ‘59 il Canonica, che anche nei suoi tempi migliori si è mosso sempre all’insegna del più vacuo accademismo, investe nell’opera le sue residue energie e muore dando gli ultimi tocchi al bronzo per Paisiello: “Risultato - una stele sormontata da un busto di Paisiello, con intorno un certo numero di figure ‘allegoriche’. La stele è stata rizzata non al Camposanto, dove una qualche occasionale giustificazione avrebbe trovato, ma in piazza Castello, dove non può far altro che simboleggiare le velleità culturali e i gusti artistici della Taranto che l’elettorato ha mandato al Municipio” (25).

Intanto il Tribunale dichiara che il Comune non faceva parte del Comitato, onde Franchina Leoncillo Sissa Chiarini devono rivolgersi al Comitato per farsi pagare i premi. Gli artisti, all’idea di doversela vedere con De Falco, Monfredi e compagnia, si ritirano in buon ordine, convinti che quando la cultura entra in Tribunale ha già perduto. Si è assodato che il bando di concorso è stato un bluff e le autorità hanno preso a gabbo gli artisti di tutta Italia dichiarando abusivamente che il concorso lo bandiva il Comune.

L’Amministrazione comunale può quindi pagare 15 milioni per il funereo busto di Canonica a Paisiello senza neanche interpellare il Consiglio Comunale, visto che si tratta di rendere esecutiva una delibera di venti anni prima, quella del defunto podestà Giovinazzi (si dovrebbe dedurre che i personaggi in questione avrebbero commesso una “grave irregolarità” nel non ottemperare alla delibera, quando hanno preso la fatidica decisione dei Concorso) (26).

Nella mattinata del 15 febbraio 1960 viene inaugurato a Taranto il monumento a Paisiello, un cimiteriale busto dovuto alla senile cattiva volontà del Canonica, opera che secondo Gaspare Pignatelli “figurerà in ogni tempo, per il nome del suo autore, tra le cose più insigni della Taranto moderna” (27).

Contemporaneamente sul lungomare di Genova si inaugura il primo monumento astratto dell’arte italiana: si tratta della Commessa 20164 dello scultore - vedi caso - Nino Franchina, opera preparata - altro caso - nelle acciaierie dell’Italsider.

6. La storia infinita

Nel 1967 Antonio Rizzo organizzò una mostra Paisielliana, che riscosse un grande successo di pubblico, quel pubblico che per la prima volta ebbe modo di vedere e di apprezzare il famoso bozzetto, sul quale tanti sprovveduti e incauti avevano discettato senza mai averlo visto. Così scrisse l’indomabile giornalista: “Era intenzione degli ordinatori della Mostra Paisielliana presentare al pubblico in una speciale sezione alcuni dei bozzetti più significativi inviati al concorso per il monumento a Paisiello nel 1956 (...). Questo proposito non è stato tuttavia realizzato perché i bozzetti, custoditi dal Comune di Taranto, come ebbe a dichiarare in una lettera al ‘Corriere del Giorno’ il sindaco Leone, sono andati tutti distrutti. Ridotti letteralmente in poltiglia, sia per l’ingiuria del tempo sia per altre cause meno naturali, perché l’usura non spiega come fasci di disegni siano stati fatti a pezzi. Si sono forse salvati dall’usura i bozzetti di Leoncillo e di Consagra, dei quali non si è trovata traccia, il che fa pensare che siano andati smarriti, con vantaggio di chi li ha trovati, perché al primo era allegata una splendida ceramica ed al secondo un bronzo, pezzi entrambi di notevole valore di mercato artistico. Si è salvato e dall’usura del tempo e dallo smarrimento il bozzetto vincitore almeno nella parte essenziale, la scultura di Franchina. Così la strage degli innocenti è risultata vana e il pubblico tarantino ha potuto finalmente assaporare il frutto proibito” (28).

Ma non per questo l’antica polemica ebbe modo di sedarsi. Ancora nel 1978 Pignatelli attaccava Rizzo, il quale aveva il dente avvelenato contro “i notabili della vita politico-amministrativa tarantina (fra i quali c’ero anch’io) che vollero fare allogare a Canonica il busto a Paisiello. scartando il busto (sic) di uno scultore di avanguardia accanitamente sostenuto dal Rizzo stesso” (29).

Tutta la vicenda dell’annullamento di un concorso nazionale si riduceva allo “scarto di un busto”! E nel 1984 l’ottimo Giovanni Acquaviva se ne uscì candidamente con la seguente sintesi storica: “Quando qualcuno, come il sindaco Angelo Monfredi, pensò che fosse doveroso ricordare ai tarantini con un monumento il grande Giovanni Paisiello, si trovò contestato ed insultato da qualche spirito nobile ma inquieto perché a un normale e civile busto, opera del Canonica, non aveva preferito il cavaturacciolo di Franchina” (30) [il corsivo è nostro].

Nel 1985 riprese la parola Nicola De Falco. Primo intervistato fra i sindaci tarantini del dopoguerra, rievocò i fatti con il consueto rigore (31): dopo aver rievocato la fama di jettatore legata al nome del musicista tarantino, riferì per la prima volta che un misterioso personaggio gli aveva profeticamente annunciato in anticipo il nome del vincitore del Concorso. Vinse proprio il Franchina, con 5 voti contro 4, ma non fu questo fatto a fare “aprire gli occhi” al De Falco, bensì la confidenza su alcune irregolarità fatta ad Angelo Monfredi da un funzionario del Comune. Mentre il Presidente della Giuria cercava di farsi un’idea della faccenda, partiva la contestazione da parte della opposizione democristiana: “però non dicevano che a loro il bozzetto del Franchina non piaceva; sapevano che, qualora avessero affermato una cosa del genere, sarebbero stati censurati e accusati di provincialismo e di incompetenza”.

Invece i dirigenti del Pci censuravano senza mezzi termini: “il responsabile del settore culturale del mio partito mi aveva telefonato per dirmi che quel bozzetto era qualcosa d’incomprensibile, che la gente non lo avrebbe mai accettato, che insomma bisognava trovare un’altra soluzione. Io mi sforzavo di far capire anche a lui che al traguardo di una di versa soluzione si poteva giungere lo stesso, percorrendo però un’altra strada: quella cioè della violazione di alcune norme del regolamento, violazione che in effetti c’era stata, senza per questo mettere in discussione la validità dell’opera di Franchina”. Secondo De Falco questi argomenti convinsero lo stesso scultore: “Noi non contestavamo il suo lavoro, ma l’insolita e criticabilissima procedura usata da alcuni membri del comitato organizzatore. Franchina capì”. Non si era mai sentito il Presidente di una giuria premiare un artista e poi dirgli di andarsene a casa e di far finta di niente, perché qualche membro del comitato (neanche della giuria) si era comportato male. Franchina capì proprio bene con chi aveva a che fare.

Sempre nel 1985 un gruppo di operatori culturali (fra cui il dirigente del circolo Italsider Giuseppe Francobandiera, l’architetto Mario Carobbi, il pittore Giulio De Mitri, il critico Franco Sossi, il segretario del vecchio Circolo di Cultura Temistocle Scalinci) organizzava un Comitato per l’erezione del Monumento di Franchina a Taranto, come riparazione al torto di trent’anni prima (32). Ma la scomparsa di Nino Franchina ha chiuso una volta per tutte la vicenda del Monumento a Paisiello: il cosiddetto “cavatappi” o “parafulmine” è entrato definitivamente nella storia della moderna scultura italiana come il più famoso dei monumenti non realizzati.

Eppure, se le storie degli uomini si concludono, la storia dello Spirito è eterna. Ed ecco che ci è capitato di leggere, tempo fa, l’illuminato parere del signor Stefano Milda: “quando trent’anni fa si volle fare un busto al grande musicista tarentino Paisiello (...) scoppiò il caso del tirabusciò di Franchina. Ora è da dire che Franchina sarà stato e sarà anche un buon artista, ma quello sgorbio [il corsivo è nostro] per ricordare un musicista del ‘700 proprio non ci azzeccava. Ma allora pontificava quel bello spirito di Antonio Rizzo il quale si divertiva a fare l’intellettuale in un mare di ignoranti” (33). In verità uno sgorbio non ci azzecca per ricordare un musicista di qualunque secolo... L’articolo in questione s’intitolava Una storia da... riscrivere. In omaggio al sig. Milda, è quello che, umilmente, abbiamo cercato di fare.

Allegato A

Seduta consiliare del 24 luglio 1957: intervento del socialista Ladaga

... Quale che sia il pronunziamento del Giudice, la partita del concorso, per quello che concerne il suo significato e il suo valore di arte e di cultura e, a petto di essa, la partita del costume intellettuale della classe dirigente tarantina, saranno ben lontane dall’essere definitivamente chiuse. Queste partite rimarranno aperte e a tenerle aperte contribuirà proprio il fatto che in Tribunale si sia dovuti giungere, tra le fredde norme dei codici e le sottigliezze della procedura. Diciamo questo perché nessuno si illuda di seppellire sotto la polvere di un fascicolo processuale un avvenimento di cultura quale il concorso per il monumento a Paisiello.

Il concorso ha rappresentato un momento importante nella storia dell’arte moderna. E se a taluno, anche in questo Consiglio, non facesse velo non so quale passione, basterebbero i nomi della giuria per garantire la serietà e l’impegno della scelta (...). Quel che conta è che, non avendosi la forza e, aggiungiamo, il coraggio e la capacità di condurre la battaglia sul piano culturale, pur di giungere allo scopo, si è grottescamente ripiegati sul terreno amministrativo e burocratico (...). La resistenza in giudizio, a nostro parere, espone l’Amministrazione al grave rischio di una sicura condanna sul piano artistico-culturale. E qui veniamo al secondo aspetto della questione: quello giuridico-amministrativo.

... Franchina e Leoncillo, è dimostrato, non chiesero e non ottennero proroghe: Franchina e Leoncillo, è dimostrato, presentarono i loro bozzetti nei termini previsti e indicati dal bando di concorso. La loro posizione nel concorso è stata riconosciuta pienamente regolare. Lo dice apertamente il primo verbale della nota Commissione di inchiesta (De Falco-Monfredi-Cardone-Gonfiantini) del 4 marzo 1956: “A questo punto la Commissione decide di prendere in esame la posizione dei concorrenti vincitori o segnalati, constatando quanto appresso: 1) concorrenti Franchina-Sissa, vincitori del 1° Premio. Non vi è documento di spedizione perché il bozzetto è stato consegnato a mano al Segretario del Comitato dott. Durante il giorno 31 gennaio 1956, come risulta dalla quietanza rilasciata lo stesso giorno dal personale addetto all’ufficio Economato (...); 2) concorrente Leoncillo Leonardi, vincitore del 2° premio. Dal documento di spedizione risulta che il bozzetto è stato spedito da Roma il 31 gennaio 1956”.

Resta da vedere l’assenza dei due commissari e l’esame non completo dei bozzetti concorrenti (...). Che cosa dice il verbale della prima riunione della giuria, quella del 28 febbraio? “La giuria ha proceduto ad un primo esame dei bozzetti presentati (si noti bene presentati perché, come successivamente ha fatto notare il prof. Zevi all’allora sindaco De Falco, basta il fatto che in un concorso i lavori siano presentati dall’organizzazione alla Commissione giudicatrice, perché essi lavori si intendano regolarmente in gara, comunque siano pervenuti) coi seguenti risultati: la giuria non ha ritenuto meritevoli di segnalazione ai fini dell’esposizione nella mostra in allestimento i bozzetti presentati dai signori (e qui un elenco di concorrenti). La giuria ha deciso di fare esaminare dai commissari Gardella e Zevi i bozzetti concorrenti sopramenzionati” (...). Il secondo verbale, quello del 29 febbraio firmato da tutta la giuria al completo, ivi compresi i commissari Gardella e Zevi, precisa testualmente: “La Commissione ha proceduto ad un secondo esame dei bozzetti presentati ed all’unanimità ha deciso di escludere dal novero dei premiabili o dei meritevoli di esposizione, i bozzetti presentati dai concorrenti (e qui un elenco di concorrenti)” (...). Nel secondo verbale della nota Commissione d’inchiesta del 9 marzo, Nicola De Falco si preoccupava onestamente di far verbalizzare quanto segue: (...) “Tutti i bozzetti pervenuti furono sottoposti all’esame della Commissione giudicatrice del concorso”.

... Vale la pena di notare che in seno alla Giuria, e ne fa fede il verbale della seduta conclusiva, si discusse se fosse il caso di rinviare ad un concorso di secondo grado Franchina, Leoncillo, Fabbri o Minguzzi. Ebbene, risulta che i due rappresentanti delle Amministrazioni banditrici del concorso si opposero sostenendo che una tale decisione avrebbe dato l’impressione che il concorso non fosse riuscito, mentre era riuscito alla perfezione, al di là delle più rosee aspettative.

Nessuno dei due rappresentanti delle Amministrazioni banditrici aprì il discorso su pretese irregolarità. E sarebbe stata quella la sede adatta e la decisione di rinviare ad un concorso di secondo grado, avrebbe potuto, tra l’altro, anche sanare queste pretesissime irregolarità. Non lo fecero, né sollevarono obiezioni riguardo il lavoro della Giuria che essi riconobbero rigorosamente e scrupolosamente svolto. Regolare il lavoro della Giuria, regolare la posizione di Franchina e di Leoncillo nel concorso. Come poteva quindi il Comitato, a maggioranza, annullare il concorso?

Allegato B

Seduta consiliare del 24 luglio 1957: intervento del socialdemocratico Quinto

... Si è discusso a lungo e in modo disordinato delle ragioni che consigliavano l’annullamento. Queste ragioni sarebbero: 1) mancanza, nella prima riunione, di 2 giudici su 9. Ma leggendo attentamente il verbale n. 1 della Commissione giudicatrice si apprende che la prima seduta della giuria fu dedicata alla mostra dei bozzetti che si sarebbe fatta o meno a seconda delle disposizioni delle Amministrazioni Provinciale e Comunale. Pertanto in quella seduta nessun artista fu eliminato dal gruppo dei concorrenti ai premi. 2) La giuria non avrebbe preso in considerazione tutti i bozzetti. A questo riguardo il consigliere De Falco fa mettere a verbale che tutti i bozzetti furono regolarmente visti, esaminati e discussi dai giudici. E lo dice De Falco, all’epoca sindaco di Taranto, presidente del comitato, componente e presidente della giuria, nonché - e questo mi sembra paradossale -  componente della commissione d’inchiesta insieme a Monfredi, Cardone e Gonfiantini. De Falco, dunque, responsabile maggiore del comitato, perché Presidente, esamina il proprio operato quando diventa componente della commissione d’inchiesta. Dunque De Falco dichiara che tutti i bozzetti furono visti e noi non possiamo non credergli. Questa seconda scusa quindi cade. Alcuni concorrenti hanno avuto le proroghe ed altri no. Due soli artisti hanno inviato in ritardo i bozzetti e sono stati accettati. Gli altri ai quali erano state concesse le proroghe non hanno partecipato. Vedi Mascherini, Pancera, Greco, Mirko, ecc. Restano solo da esaminare i casi di questi due artisti che hanno inviato in ritardo i loro bozzetti e che sono stati accettati: Fabbri, 3° classificato e Salimbeni, segnalato per il rimborso di L. 200mila. Questi due artisti facevano parte del gruppo di circa 70 artisti di rinomanza nazionale ai quali fu fatto giusto, doveroso, insistente invito perché la loro adesione dava prestigio e valore al concorso stesso. Comunque il sindaco presidente del comitato, presidente della giuria, componente della commissione d’inchiesta non respinge i bozzetti ma tace. Tace quando arrivano i bozzetti in ritardo; tace quando si insedia la giuria della quale egli è presidente; tace quando Fabbri e Salimbeni entrano nella rosa dei possibili vincitori; parla però nella commissione d’inchiesta e fa annullare il concorso per una colpa che, a mio modesto avviso, è tutta colpa sua.

Queste le... ragioni che indussero i componenti il Comitato, su indicazione della commissione d’inchiesta, ad annullare il concorso. Ma il ridicolo viene dopo. Non si riesce a stabilire un motivo serio per annullare il concorso (...). Deciso l’annullamento Di Palma chiede: “e i motivi?”. Risponde Monfredi: “Per ora annulliamo, se poi i vincitori faranno causa, allora e solo allora diremo i motivi per l’annullamento”. Queste sono le cose scritte, queste dicono le cane depositate in Tribunale, queste parole leggeranno i giudici del Tribunale di Taranto. E noi facciamo una gran bella figura...


NOTE AL TESTO

1. A. RIZZO, Manzù e Messina interpellati per il monumento a Paisiello, “Voce del Popolo”, 31 ottobre 1954.

2. A. CRISCUOLO, Il libro delle epigrafi. Ed. L’Italia meridionale, Lecce 1933, p. 61.

3.  Cfr. D’ALESSIO, L’epigrafe, la lapide e il monumento... futuro, “Voce del Popolo”, 3 luglio 1954.

4.  L’elenco dei nomi è desunto da “Voce del Popolo”, 11 giugno 1955 e “Corriere del Giorno”, 4 marzo 1956.

5.  Per la storia del Premio Taranto e la fisionomia culturale di Antonio Rizzo, cfr. R. NISTRI - E. RIZZO, Un giornale, una città, Ed. Scorpione, Taranto 1987; R. NISTRI, Le prime edizioni del Premio Taranto, in “Cenacolo” N.S. II, 1990; D. CARONE (a cura di), Ricordiamo il Premio Taranto, Assess. comunale alla Cultura, Taranto 1991; A. PERRONE, Storia del Premio Taranto, Ed. Gruppo Taranto, Taranto 1992.

6.  “Voce del popolo”, 21 gennaio 1956. Negli stessi termini si esprime il “Corriere del Giorno”, 14 gennaio 1956.

7.  Cfr. AA.VV., Taranto - Topografia e toponomastica. Ed. Punto Zero, Taranto 1985, p. 149.

8.  Cfr. “Civiltà delle macchine”. Anno IV n. 3, maggio-giugno 1956.

9.  Cfr. A. RIZZO, L’avventura tarantina dello scultore Leoncillo, “Voce del Popolo”, 21 settembre 1968.

10.  Cfr. AA.VV., Taranto... cit., p. 154.

11.  Cfr. “Voce del Popolo”, 11 marzo 1956. Nello stesso fascicolo si pubblica un articolo di Renato Giani, postilla del saggio di G. MARCI BORI, Franchina, Ed. De Luca, Roma 1954.

12.  Cfr. “Corriere del Giorno”, 6 marzo 1956.

13.  Cfr. “Corriere del Giorno”, 4 aprile 1956. Sullo stesso giornale, le polemiche di F. M. Pupino sul Premio Taranto: 20 gennaio 1956, 23 marzo 1956.

14.  Cfr. “Corriere del Giorno”, 11 marzo 1956. Anche il 30 marzo viene denunciata “la responsabilità di quel tale Rizzo Antonio, privato cittadino, il quale senza far parte del Comitato...”

15.  A. RIZZO, Un impegno “d’onore” del Podestà “riesumato” venti anni dopo, “Corriere del Giorno”, 6 marzo 1979.

16.  Cfr. AA.VV., Taranto... cit., p. 141.

17.  Cfr. “Voce del Popolo”, 7 aprile 1956.

18.  Cfr. N. CAPUTO, Parola di sindaco, Ed. Sedi, Taranto 1985, pp. 34-35.

19.  Cfr. “Voce del Popolo”, 5 maggio 1956.

20.  Cfr. “Corriere del Giorno”, 25 luglio 1957: contiene una relazione della seduta consiliare.

21.  Cfr. “Voce del Popolo”, 3 agosto 1957. L’intervento di Ladaga viene da noi riportato in appendice.

22.  Cfr. “Corriere del Giorno”, cit.

23.  Cfr. “Voce del Popolo”, 10 agosto 1957. L’intervento di Quinto viene da noi riportato in appendice.

24  Cfr. “Voce del Popolo”, cit. Dopo quasi trent’anni, in Parola di sindaco, cit., De Falco afferma con chiarezza: “Affidai l’incarico di organizzare ogni cosa ad Antonio Rizzo che, oltretutto, aveva competenza ed esperienza sufficienti per portare a compimento ogni cosa nel migliore dei modi”. Quanto al senatore Gaspare Pignatelli, “fu lui a sconsigliarci di seguire la strada della trattativa privata e di bandire invece un regolare concorso” (p. 33). Dopo tre anni Pignatelli ha agito esattamente all’opposto.

25.  A. RIZZO, Lauri e spropositi per Paisiello, “Voce del Popolo”, 20 febbraio 1960.

26.  Sull’interrogazione socialista in Parlamento circa i 15 milioni, cfr. “Voce del Popolo”, 5 marzo 1960.

27.  Cfr. “Corriere del Giorno”, 4 ottobre 1978.

28.  Cfr. “Voce del Popolo”, 11 marzo 1967.

29.  Cfr. “Corriere del Giorno”, 4 ottobre 1978. Il Pignatelli riprende la polemica sullo stesso giornale, in data 15 febbraio 1979.

30.  G. ACQUAVIVA, Storia di un monumento ad perpetuam memoriam, “Nuovo Dialogo”, 4 maggio 1984.

31. Cfr. N. CAPUTO, Parola di sindaco, cit., pp. 32-37.

32.  Cfr. AA. VV., Taranto...; cit. pp. 141-142.

33.  Cfr. “Nuovo Dialogo”, 23 febbraio 1990.

venerdì 6 settembre 2019

Recensione. Sai dove impiccano la notte? Dino De Mitri, La variabile del buio

Sai dove impiccano la notte? Dino De Mitri, La variabile del buio


C’è voglia di poesia in questa città? C’è ancora voglia di raccontare storie? Dino  De Mitri, libraio e scrittore,  continua  ad  essere uomo libro per eccellenza, ma anche un  incor
regibile incendiario di idee. Nella sua precedente operazione di scrittura,  “Sai dove impiccano la  notte ?”.  Il borgesiano Didino sventagliava una raffica di proiettili come una “masculiata siciliana”: fuoco  al cielo, per acchiappare una vita diversa tutta fatta di versi.  Videoclips.  Pulp, punk e trenodia Rokettara: libri ingordi che muoiono nella stupidità del tempo   Cyber-poesia: blues al crocicchio del delta, fra mistich sbronze, esodo da un luogo che non sogna più nessuno-: Ossa assolate.  Il nemico è dappertutto,  è l’invisibile  ovunque. Non disperdetevi. Il poeta è uomo di parola, diceva Giovanni Amodio!  I branchi vanno via con la luna e  lasciano una nenia che si fa luce tra le macerie. Didino, non  fare il  punto, tira  una linea: tanto  la saggezza  non arriverà mai. Cumbà, noi siamo quelli della vecchia banda,  comunisti  vintage. game over siamo tutti sclerati.Siamo la banda Bonnot,  il mucchio  selvaggio e frikkia. .Craaaak abbiamo sempre voglia di dire:  Andiamo!,  Il  Che è morto.  Abbandonate il certo  per  l’incerto,  partite  per le strade...cani sciolti.  Partecipammo alla Woodstock dei poeti a Castel Porziano,  musica per vecchi camaleonti.avventurieri passivi,  sfilandoci da una uscita laterale, in viaggio  nella ‘ndrangheda sconosciuta. Cercavamo poemi che  risalivano lentamente lungo fiumi  scorrenti all’incontrario, alle sorgenti del niente. De mitri scrive ancora,  fra lampi d’incerta memoria.  Aspettando il  treno e Baudelaire. Libro  chiuso e fiore di marmo?  Forse giace nascostaancora  la vecchia  biblioteca  di Babele...è  ancora lì.  In via  Cavour. Quando non c’è nessuno, di notte i libri parlano tra di loro e non è  finita  lì. Si  raccontano ancora  le storie  dell’orda
 d’oro  e del mucchio selvaggio. Il nuovo romanzo di  Dino De Mitri,” La Variabile del buio”, si presenta come la contronotte di Taranto:  una città annientata da una strage di stato, di lunga durata e a norma di legge...ci sarà allegria anche in agonia . Libera nos a malo!
Fabrizio De  Andrè, la città vecchia. Ma la scrittura di Dino De mitri è un autentico atto di guerra contro la poetica della vittimizzazione. Il suo urlo   silenzioso viene da Allen Ginsberg, da Gregory Corso, da  Lawrence Ferlinghetti e William Burroughs,  padrino del Punk e dei ragazzi selvaggi, campione di quella controcultura che rimane ancora come  un argine nei confronti della macchinizzazione seriale, De Mitri miscela abilmente le sue lasse con la grande musica classica. Howl e ancora howl.  Fra memorie perdute e frequentazioni ospedaliere De Mitri è ritornato sulla strada, continuando con gaio cinismo ad amministrare o dissipare uno sterminato patrimonio di libri e vinili,  fra  stracci di pensieri, tutti arrapati di fumo: lo scritto è un lungo monologo che , voltato anche al maschile, vale la cantica di Molly, nell’eterno Ulisse. “Crollato sul letto, ogni notte raccatto la fine del mondo” : collezioniamo effetti personali, spilloni e malefici. Il’sola delle correnti:  la verità è sepolta qua, come diceva uno dei tre paperini. E ancora poesia per i vecchi camaleonti!  E bravo Dino de mitri, con la sua variabile del Buio. Ci vogliono costretti ad essere felici, ma noi stiamo bene ai confini del niente, dove impiccano la notte.   
 Un granchio stringe la gola. L’amicizia si saldava nelle occupazioni con i  proletari di Lotta continua e l’assedio della polizia. Bardot prometteva  un  nido  croccante di fumo.  Le ombre combattevano intorno a noi:  Dalli   al cancro,  dall!  Ormai sappiamo come la storia sia andata a finire. .Quanto  a noi,  moriremo in bellezza  baciando  la polvere  dei  santi libri. “ Libera nos a malo”.
 Roberto Nistri,  Taranto. 2018.

sabato 13 ottobre 2018

Una strada per l'utopia

Disegno di Stefania Castellana

Una strada per l’utopia di Alessandro Leogrande.

Il Kilimangiaro è un monte coperto di neve alto 5.895 metri, e si dice che sia la più alta montagna africana. La sua vetta occidentale è chiamata dai Masai la Casa di Dio. Vicino alla vetta occidentale c’è la carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine. Forse cercava di andare oltre per trovare il suo Dio.
Anche Alessandro cercava sempre di andare più su, ma la Signora Nera lo avvolse in un manto di freddo. Nella sua Taranto lo attende ancora una strada a lui intestata nella lunga marcia verso l’Utopia del giardino felice: Starway to heaven, dove si incontrano tutte le vite degli uomini speciali, quelli che nella Storia sono riusciti almeno una volta a sospendere la pena del vivere, aprendo almeno un varco nell’Eu topos: La casa della gioia. Non dobbiamo mai stancarci di raccontare: una città se non viene raccontata, si addormenta e si spegne.
Diceva Ernesto De Martino: “Gli uomini hanno bisogno di Simboli e di Storie, che non devono morire come lacrime nella pioggia”.
Finché ci sarà ancora una Storia, lungo il sentiero di Alessandro, noi vivremo.

Roberto Nistri, 20 settembre 2018.

giovedì 14 giugno 2018

Dalle macerie. Un ricordo di Alessandro Leogrande


Dalle macerie. Un ricordo di Alessandro Leogrande


di Roberto Nistri
Lo scorso venerdì 1 giugno 2018, a Palazzo di città, veniva presentato un volume collettivo dedicato all’opera e alla memoria di Alessandro Leogrande, il maggiore scrittore tarantino. Sfogliando le pagine del volume “Dalle macerie”, ritornava alla memoria una piccola battaglia culturale fra i due mari, che doveva suscitare un certo scalpore sulla stampa cittadina: la questione dei cosiddetti neo-spartani. Per Alessandro oggetto di una necessaria puntualizzazione storiografica, per lo scrivente la necessità di non mettere in campo altre perniciose burle che i tarantini hanno giocato, contro se stessi, magari imbambolando anche ministri e senatori vogliosi di passerelle.
Agli inizi del secolo nuovo, l’amico Alessandro rimaneva perplesso di fronte all’improvvisa
passione dei tarantini per i culti Spartani: “La cultura è sempre rivolta al futuro, se vuole essere
vitale, anche quando recupera i fili più o meno sotterranei che legano il futuro al passato, non dovrebbe farlo con astrusi revanscismi o passatismi… Un vagheggiamento rivolto non all’Atene dei filosofi e dei tragediografi, ma alla Sparta grigia e militarista, che in Grecia riscuote successo solo presso i fanatici nazisti di “Alba dorata” (Corriere del Mezzogiorno del 23 Agosto e 21 novembre 2014).
Il mito di Sparta era stato coltivato da Hitler come luminoso esempio di Stato costruito su base razziale. Non si capisce a quale brand mondiale della “svolta” tarantina facessero riferimento il candido ministro della Cultura Franceschini e il presidente del senato Grasso che si sono illuminati a cavalcione di una malaugurante Cometa Spartana. (cfr. “Quotidiano” del 25 novembre 2014) Tutto questo nel mentre si discuteva sulla soppressione della facoltà di Beni culturali nella cosiddetta Università di Taranto. La nouvelle vague neo-spartana seduceva i due illustri ospiti che scoprivano un “brand-volano per una città sofferente”, brandizzando la nobile Urbs “Taranto città Spartana, esempio per tutti”. De chè, boh… (“Quotidiano” del 25 novembre 2014).
Annuciazione, annunciazione! Meno male che non segue mai la manutenzione. In omaggio al film “Trecento”: erano già pronti in cantiere il logo lambda da appiccicarsi ovunque, scudi rotanti e luminosi, statua bronzea di Taras, galee spartane e gondole con parco tematico. Mammoccioni in vetro resina, attrezzistica per body building rugginosa. Vecchi peplum e Maciste. Giustamente Alessandro indicava l’autentico privilegio di Taranto come punto d’incontro fra Oriente e Occidente, altro che il kitsch folklorico e strapaesano con genealogie farlocche e fondali di cartongesso in stile finto antico, con un residuale Museo spartano da nessuno accreditato. Sangue Spartano e piedigrotta cataldiana. La erezione di un falanteo bronzo al centro di piazza Garibaldi. Come si dice, una erezione non si discute. Blunt und boden, terra e sangue. Gloria al pesce strunzo. Pacchianate etiliche e tricche ballacche. Tanto tutte le salme finiscono in gloria. Quanto all’ossessione identitaria, rimane pur sempre la fucina del razzismo. All’epoca don Tonino Bello pregava: "che la Puglia (Apulia, terra senza porte) si pieghi come arca di pace e non arco di guerra”.
“Macerie” è il dolente titolo del volume collettivo che gli amici hanno voluto dedicare al nostro maggiore scrittore tarantino. Antonio Rizzo nel secolo scorso e il nostro contemporaneo Alessandro Leogrande rimangono senza dubbio le figure più esemplari della cultura tarantina. Purtroppo, negli anni lunghi della monocultura statalmilitare e di quella siderurgica, rimane solo l’eredità di un sottobosco mitomane e inconcludente, dalla Accademia dei Terroni agli Spartani fanfaroni.
* * *
Mi sia permesso, di ricordare una curiosa tenzone poetica fra due mari che molto divertiva il nostro buon amico. Il dolente Titolo del volume collettivo che gli amici hanno voluto dedicare alla memoria del Maestro Alessandro Leogrande, “Macerie”, ci ha fatto tornare con la memoria a un titolo simile, risalente agli anni Settanta. Nel 1972 il poeta Nerio Tebano pubblicava a Napoli un vecchio Poemetto in prosa: “Città di Macerie”. Incipit: “Era crollata la mia casa, la mia Città. Era crollata la mia casa, la mia città era fatta macerie…” Nel 1953. A un certo punto sulla stampa spuntavano tre poemetti, due di essi a firma di Tebano, il terzo firmato da Giorgio Liberati.
Dalla “Città di macerie” si faceva avanti il giornalista Barbalucca nel 1953. Nel 1955 toccava al poeta Barbalucca, la rivendicazione di Città di macerie. Ma il giornalista collezionava alcuni impicci e scompariva nelle tenebre. Richiesta la perizia di Piero Mandrillo, studioso della poesia tarantina. Cincischiava di lasse poetiche, ma rimaneva ancora oscura la proprietà dell’opera. Si arrivava sino al 1960. Ben tre pubblicisti della stessa “Tribuna del Salento”. “Città di macerie “era ancora in ballo. Con Mandrillo si avanzava nelle tenebre: intanto sulla rivista di toponomastica, tale Aurelio Svelto faceva una bizzarra scoperta sul vico Borgia, così nomato perché imparentato con Lucrezia Borgia (?!). Boiata pazzesca! Risorgeva la “Città di macerie”. Pian piano Mandrillo, con le sue lasse poetiche, andava convincendosi di essere lui il vero compositore di “Città di Macerie” alla faccia di Nerio Tebano. Nel 1966 ritorna alla luce con “Città di macerie” tutta la compagnia alla faccia di Nerio Tebano.
E dunque: Nerio Tebano (1952), Giorgio Liberati (1953), Giuseppe Barbalucca (1955), Nerio Tebano (1960).
Riepilogo: Tebano Barbalucca. Si arrivava al 1976. L’ora della verità veniva per tutti, ma non per il democristiano e comunista Barbalucca, e tanto meno per la Taranto di “Città di macerie”. Su tutti i periodici Salentini giravano ormai molti apocrifi. Il sempre attivo critico letterario Piero Mandrillo, sospettava ormai di essere l’autore dell’enigmatico poemetto, in virtù di alcune “lasse poetiche” che a lungo aveva compulsato.
* * *
Caro Alessandro, abbiamo voluto ricordare quelle figurine di ieri e forse anche di sempre. Le macerie sono eterne certamente la figura di Leogrande ci ricorda che, se non tutto, il meglio rimane. In giro c’è molta antropologia della scrittura, ai confini della antropofagia: voglia di mangiare lo scrittore. Anche se abiti sull’altro lato della strada, i compagni tengono la luce accesa.
Caro Alessandro, Il Maestro è nell’anima e nell’anima per sempre resterà. Ciao Amico, ovunque tu sia.

domenica 27 maggio 2018

Moro rapito e Taranto. Una testimonianza

Perché in via Caetani, fra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù?

Per una banale svista topografica, che ha oscurato il luogo dove è stato trovato il cadavere. Via Caetani non aveva a che fare con quel sito ove si trovano due brevi strade, le vie Celsa e dell’Ara Coeli, che si addentra nel Ghetto ebraico. Di altro rilievo era Palazzo Caetani, che doveva far scattare il nome dell’illustre Maestro di origine russa, Igor Markevic, considerato con sospetto come il Misterioso “intermediario”.

Comunque qualcuno aveva capovolto con un colpo di coda una trattativa nella quale erano stati coinvolti i servizi segreti di mezzo mondo. Markevic aveva vissuto in un mondo di emigrati russi, apolidi, diplomatici e spie, massoni e banchieri nella Firenze occupata dai nazisti, partigiani, ma anche una Monaco della principessa Grace Kelly con i suoi strani intrighi. Igor veniva coccolato dall’artista Jean Cocteau che lo iniziava al suo ordine cavalleresco per la fondazione di un governo mondiale. Il dominus di Palazzo Caetani era riuscito a conciliare opposti interessi e fazioni anche sulla scena internazionale. Noi mangiamo pane e stelle, diceva.
Markevic non era un partigiano inquadrato militarmente, ma i suoi rapporti di contiguità con la Resistenza sono provati.
Il mondo di Igor era sempre effervescente. Un ginepraio inestricabile: perfino roberto Sandalo, il terrorista di Prima Linea, sospetto di essere un infiltrato dei servizi segreti. Rimaneva l’imbroglio del rapporto Moro-Caetani. Il Sismi indagava sull’appartamento, ma venivano fermati da ordini superiori. Entrava in scena il giornalista Pecorelli, ma veniva fatto fuori. La Renault era tenuta a Palazzo Caetani, secondo l’ordine dei Cavalieri di Malta.
La rivista satirica “Il Male”, rilancia su Palazzo Gaetani. La maga Ester profetizza che gli imputati del Processo 7 aprile vengono liberati in capo a 2 anni. Intanto la caccia al Grande Vecchio. Altrove abbiamo già ricordato le figure di Giorgio Conforto e della figlia, ospitante i brigatisti. Grande frequentazione della loggia del "Libero Pensiero Giordano Bruno”. Giuliana Conforto, l’avvocato Edoardo De Giovanni, e l’agente americano Peter Tompkins, Tutti studiosi dei Misteri Egizi.

Lo scrivente aveva già iniziato i suoi studi per un libro su Giordano Bruno, poi dato alle stampe. Fra i vari cacciatori di “Grandi vecchi”, spiccava la bella figura di Ambrogio Donini. Docente illuminato di Storia del Cristianesimo. Presso l’università di Bari. Diplomatico, entrato nel partito comunista dopo la promulgazione delle leggi eccezionali, si trasferiva negli Stati Uniti, insegnando ad Harvard. Rientrato in Italia, diventava membro del Consiglio mondiale della Pace. Nel 1973 veniva insignito dal Soviet sapremo fell’URSS. Era naturalmente un “uomo di ferro”, come si diceva un tempo. Era un generoso gentiluomo che promuoveva gli studi degli allievi più indigenti. Con il suo assistente, Antonio Moscato, che ricordo con affetto, sempre presente a Taranto con la prima organizzazione Autonoma per l’unità operaia.
Donini era certamente uno stalinista della vecchia guardia, detto anche “kabulista. Un trozkista e uno stalinista che la voravano con grande rispetto reciproco. Certamente era legato a uomini come Rodano e Secchia, morto per avvelenamento nel 1973. Fiero avversario di Togliatti, frequentava giovani extraparlamentari ma, a differenza di Secchia, che era sempre in attesa dell’ora x. Non è un caso che giovani compagni secchiani si ritrovassero come attivi gappisti in Toscana, come ai vecchi tempi del concertista Igor e dei gap fiorentini. L’inquietante codi Gradoli derivava addirittura dai Rosacroce. Si parlava anche di Prodi, della Fabian Society e della Round Table.
Già Pecorelli aveva annusato ombre di Gladio. A palazzo Caetani c’era una stanza segreta che che avrebbe dovuto accogliere Moro, ormai instradato verso la salvezza. E invece Moro fu fatto entrare non nell’auro dei Cavalieri di Malta, ma nel bagaglio di una Renault rossa. Una voce era uscita dal coro.

Giunti a questo punto chiudiamo lo schematico riassunto e rinviamo a eccellenti pubblicazioni: Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca con Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da gladio al caso Moro. Il misterioso intermediario. Igor Markevic e il caso Moro.