Taranto, “città criminale”.
A partire
dal 18 ottobre del 2006, quando il Commissario prefettizio Tommaso Blonda ebbe
a dichiarare il dissesto del Comune di Taranto, la più impegnata pubblicistica
jonica ha ritenuto doverosa una indagine esplicativa sullo sconcertante
“urbicidio”: una città accoppata nelle finanze e nell’onore, un dissesto di 500
milioni di euro, la bancarotta come crisi di identità e di speranza (1).
La portata dello sconquasso, in termini di vergogna civile e
di penalizzazione finanziaria di lunga durata, non può essere ragionevolmente
riducibile a malaugurato incidente o invasione degli “ultracorpi”: alieni che,
sotto mentite spoglie, occupano tutti gli spazi di potere e succhiano
avidamente le risorse vitali dei buoni cittadini. La portata della crisi è ben
più complessa: come è potuto accadere che una città non povera né marginale, di
cultura bimillenaria e di perdurante rilevanza strategica, la Taranto
siderurgica ed europea, promettente modello di sviluppo per il Mezzogiorno negli
anni ’60 e ancora oggi dotata di un grande impianto industriale con 15.000
dipendenti, la nuova Taranto alla quale lo Stato unitario non ha mai fatto
mancare pubblici finanziamenti, come ha fatto a diventare la più indebitata
d’Italia e la più inquinata d’Europa, consegnandosi ad una sequela di sindaci
uno dopo l’altro incappati più o meno pesantemente nelle maglie della
Giustizia? Calzerebbe a pennello una citazione da Missione Alphaville di Jean-Luc Godard: “gli abitanti di Alphaville non
sono normali, sono il prodotto di una mutazione”. La questione rimane comunque
aperta.
Un
importante apporto conoscitivo è offerto dalla recente pubblicazione di Taranto,
tra pistole e ciminiere. Storia
di una saga criminale, di Nicolangelo
Ghizzardi e Arturo Guastella (2). Il prezioso testo affronta un altro intrigante paradosso: come è stato
possibile che una città tradizionalmente priva di una consistente presenza di
criminalità organizzata (3) abbia
potuto produrre, sul finire degli anni ’80, un’agguerrita e ramificata
organizzazione malavitosa, competitiva con le grandi mafie operanti sulla scena
nazionale? Certamente Cito e Modeo non possono essere considerati frutti di
stagione senza primogeniture “ culturali”. L’accorta indagine di Ghizzardi e Guastella prende l’avvio
da una docu-fiction, Taranto - città criminale, che si è aggiudicata il primo premio nella sezione
Miglior Documentario al Roma Fiction Festival. Il titolo è ovviamente uno
stereotipo al pari di “città dei due mari”, “piazzaforte militare”, “capitale
dell’acciaio”… I cosiddetti marcatori identitari altro non sono che una
sequenza storica di finzioni/funzioni idonee al riconoscersi e al farsi
riconoscere. Giustamente Calvino invitava a non confondere mai la città col
discorso che la descrive: un surplus di senso rimane non riducibile alle pur
inevitabili invenzioni/costruzioni, benevole o malevole che siano. Del resto
Taranto sembra soffrire non di una carenza ma di un eccesso d’identità (4). E
comunque lo stereotipo oraziano della molle e imbelle (gaudente e maldisposta alla guerra) Tarentum ha illuminato tutto il periodo preindustriale,
mentre l’icona della Città criminale
può solo fare la fortuna della folta schiera di scrittori di noir. La primogenitura tocca allo scrittore criminologo
Giancarlo De Cataldo, che ha imbracato la città ebalica nella cifra identitaria
di “Poisonville, provincia e metafora d’Italia, Poisoncountry” (5).
Gli autori
di Tra pistole e ciminiere volevano
raccontare la storia di una singolare banda criminale, il clan dei Modeo, che
ha spadroneggiato a Taranto fra gli anni ’80 e i ’90, e si sono trovati a
ragionare su tutti i 150 anni della storia della nuova Taranto, i 150 anni
della nuova Italia.
La storia maior e la
storia minor si sono intrecciate
indissolubilmente almeno in due processi di portata epocale: l’allestimento di
un imponente apparato navalmilitare (cento anni fa l’Italia dichiarava guerra
alla Libia) e la strategia dei “poli di sviluppo” per il riscatto del
Mezzogiorno in virtù dell’acciaio. Due monoculture industriali ben diverse ma,
a ben vedere, un continuum di
industria di Stato, uno sviluppo “donato” calato dall’alto, indifferente alle
esigenze e risorse del territorio circostante, impossibilitato a suscitare un
indotto tecnologicamente diversificato e capace di misurarsi con un mercato
“normale”. Considerato che una morfogenesi industriale produce non solo una
peculiare organizzazione della produzione, ma anche un particolare modo di
pensare e quindi un carattere sociale, perché meravigliarsi per il mancato
sviluppo - in oltre cento anni di monocrazia statale - di una autentica
borghesia imprenditoriale? Per
l’individuo e per il gruppo la legge dell’adattamento spinge a ricercare un
beneficio possibilmente superiore a quello dei competitori; a Taranto la
concorrenza è stata surdeterminata da un modello di produzione eterodiretta, in
una logica subalterna di appalti e subappalti che conferisce autorità al
padrinaggio politico. Come notano Ghizzardi e Guastella, è straordinario che in
una realtà marinara, “nessun imprenditore ha mai avuto il coraggio di investire
capitali nella creazione di un’impresa armatoriale”.
E’
convinzione comune che la jungla siderurgica degli appalti negli anni Settanta
abbia prodotto il brodo di cultura dell’economia criminale degli anni Ottanta.
Ma nell’età aurea dell’Arsenale, ai tempi del “padrino” Federico Di Palma,
deputato per tre legislature e sottosegretario per la guerra, l’importante
cantiere Salerni e Spangher forniva all’Arsenale meno costosa manodopera
esterna (avventizi esposti al licenziamento in contrapposizione agli operai
stabili) trattenendo, per l’intermediazione, il 25% sui cottimi pagati
dall’Arsenale. Il gioco degli specchi, in una storia sempre diversa e sempre
eguale, è singolarmente suggestivo. Il grande dissesto del 2006 richiama subito
alla memoria la bancarotta municipale del 1872, con la stessa modalità di estinzione cinquantennale del
debito. E ancora: uccidendosi con un colpo di pistola in fronte nel maggio del
1984, l’imprenditore tarantino Gennaro Grandinetti strozzato dall’usura, come
si legge nell’acuta sentenza del Pretore Sebastio, incominciava a gettar luce
sul cosiddetto “caso Taranto”. Ma anche su questo evento aleggia un’ombra del
passato: il fantasma di Domenico Sebastio, il Barone di Santa Croce che, dopo
aver fumato un sigaro, si sparò alla tempia nella stazione di Napoli il 2
luglio 1882, per il fallimento della sua Cassa Tarantina. Combattente contro i
privatizzatori del Mar Piccolo e i tifosi della militarizzazione del
territorio, era stato osteggiato dalle logge massoniche e strangolato dagli
usurai. Ma altre ombre compaiono e scompaiono: il Cavaliere Oscuro che volle
farsi Re, quel Cito Furioso che minacciava sfracelli a destra e a manca, non
poteva non richiamare il fantasma dell’antico Filonide, un ubriacone che
pensava di replicare alle richieste degli ambasciatori romani orinando sulle loro toghe (6). E così
il processo Ellesponto del 1993 rinvia alla memoria di quel lontano processo
alla “associazione della mala vita tarantina” del 1893: due momenti storici fra
loro incommensurabili, tuttavia con una comune aria di famiglia, di “facce di
sempre”.
Le
facili assonanze non devono comunque far smarrire il senso della distanza e
delle proporzioni. Per esempio, Furti in Arsenale è stato un titolo-tormentone sulla stampa cittadina per tutto il
Novecento: quasi sempre ruberia minuta. Nulla di comparabile al colpaccio da 40
milioni eseguito in area siderurgica, non raccolto dalla stampa ma rievocato da
Ghizzardi e Guastella: “Il 28 ottobre 1989 Taranto, assediata dalla
criminalità, riceve la visita pastorale di papa Wojtyla. Per l’eccezionale
occasione viene allestito, nell’area dello stabilimento della Sidermontaggi
s.p.a., un palco in tubolari di ferro che, a visita conclusa, previo
smantellamento, è destinato ad essere trasportato nei depositi dell’Italsider.
Materiale ferroso di ben 270 tonnellate che non arriverà mai nei depositi del
IV Centro Siderurgico, in quanto ci penserà un compare del Modeo, tale Nicola
Cippone, a farlo smontare in pieno giorno, farlo caricare sui camion e portarlo
a destinazione ignota, senza che nessuno avesse qualcosa da ridire”(7).
Mettendo da
parte il gioco delle ombre, la vicenda criminale ricostruita da Ghizzardi e
Guastella si distende lungo un decennio. Il 1985 è l’anno nel quale lo spettro
della crisi siderurgica si manifesta in tutta la sua drammatica realtà, su
“Repubblica” Luigi Viola intona il de profundis per il Mito siderurgico,
il “Sole-24 Ore” classifica Taranto all’ultimo posto per il “benessere
sanitario” e al penultimo per il “benessere socioculturale”, mentre si apre il
“caso Taranto” e l’ex mazziere Cito avvia le prime trasmissioni di Antenna
Taranto 6. Nel 1995 l’Ilva Laminati Piani verrà acquistata dal gruppo Riva,
chiudendo l’era dell’acciaio di Stato in una Taranto stordita dal crollo dello
statalismo come un Land della DDR. Nel cuore della crisi, nella notte tra il 5
e il 6 dicembre 1993, Giancarlo Cito è diventato sindaco sconfiggendo il magistrato
Minervini. L’essere stato colto la notte della vigilia di Natale dell’89, a
festeggiare con ostriche e champagne
in casa del boss Claudio Modeo agli arresti domiciliari, non ha inquietato i
suoi elettori. “Il deficit di cultura democratica è spaventoso”, commentava il giornalista Raffaele Gorgoni.
La grande
mutazione genetica della malavita tarantina risale ai primi anni ’80, con
l’emergere di capi “ambiziosi e spregiudicati” come i capitani dell’appalto nel
precedente decennio. La guerra per bande, con la sua scia di 160 morti
ammazzati, nasceva
dall’inevitabile competizione per il controllo del territorio, ma la ballata
per kalashnikov non deve nascondere il lato
occulto dell’Impresa: fare affari con partner “puliti”, condizionare l’elezione
del referente politico. Come ha scritto Giancarlo De Cataldo, “Il boss degli
anni ’80 deve essere tanto bravo a sparare quanto a stringere alleanze con gli
ambienti legali che contano. E’ la capacità di penetrare negli ambulacri del
potere che contraddistingue il vero capo… L’uomo del destino per la mafia
tarantina si chiama Antonio Modeo, detto il ‘messicano’ per via di una vaga
somiglianza con l’attore Charles Bronson” (8).
Nei
suoi anni giovani Modeo ha incontrato la politica: l’insediamento nel 1972 nel
cuore della Città Vecchia, in Via Di Mezzo, del gruppo di Lotta Continua. Nasce
una effervescente banda rebelde, un
incredibile amalgama di funzionari calati dal Nord e di panarijdde della Marina: U’gnure, Tonino u’grattine,
Pasqualone, il mitico Salvatore detto Mustakì… Nel quartiere Tamburi fanno
proseliti e s’impegnano nell’occupazione delle case. Un fratello del
“messicano”, Nicola, è un militante di LC e il giovane Tonino subisce il
fascino della forte carica antistituzionale del movimento. Vive il clima
incandescente delle lotte operaie successive all’autunno caldo, partecipa agli
scontri. Davanti ai cancelli dell’Italsider attende l’entrata o l’uscita degli
operai con un fascio di copie di “Lotta continua” su un braccio e le sigarette di
contrabbando in mano. Qualcuno ricorda ancora il suo strillonaggio: “Lotta
continua… tre pacchetti mille lire” (9). In un altro contesto Tonino sarebbe
forse diventato un eroico rivoluzionario, reputò invece più conveniente fare il
capitalista, come i tanti cavalieri di ventura che - come indicano Ghizzardi e
Guastella - avevano trasferito la pratica del “capolarato” dalle campagne alla
selva oscura delle quattrocento ditte gravitanti attorno all’acciaieria. Dal
corredo ideologico di Lotta Continua Modeo distillò un programmino niente male:
“vogliamo tutto”, “riprendiamo la città”, “ lotta dura senza paura”.
Già il 5
gennaio 1979 a Lucera Antonio Modeo viene affiliato alla Nuova Camorra Pugliese
da Raffaele Cutolo in persona. Intanto a Taranto accadono cose inquietanti:
mentre operano nella centralissima Corso Umberto ben novanta agenti del Sisde,
dalla città parte il 12 agosto 1981 la falsa bomba sul treno Taranto-Milano,
utilizzata per depistare le indagini sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione
di Bologna. A dirigere le operazioni è il tarantino Francesco Pazienza, capo
del Super Sismi e braccio destro di Gelli nella P2. Nello stesso periodo, in
una villa di lido Gandoli , otto
neofascisti di Terza Posizione si preparano per favorire la fuga del terrorista
“nero” Concutelli (10)
Intanto Modeo ha incominciato a trafficare nel Mercato Ortofrutticolo
del rione Tamburi, fra i primi dieci mercati italiani per giro d’affari; entra
nel giro grosso degli stupefacenti e soprattutto viene attratto dal più grande affare del
capoluogo: l’appalto italsiderino. Con la sua ditta Italferro Sud si aggiudica
l’appalto per la rottamazione presso lo stabilimento siderurgico (11). Nel 1986 il clan governa sul tarantino,
in regime di monopolio sulla mitilicultura grazie alla Cooperativa Praia a
Mare, ed estende la propria influenza anche fuori della Puglia. L’attività imprenditoriale s’intreccia
con quella militare volta al controllo del territorio: a partire
dall’uccisione, il 23 settembre 1988, di Don Ciccio Basile (esponente di
rilievo della vecchia mala tarantina, antiquario, ristoratore e usuraio) prende
l’avvio una storia lunga 160 morti. Nel conflitto fra i Modeo e i De Vitis e
gli Scarci e i Di Bari e poi fra
le due frazioni dei Modeo, non mancheranno le vittime innocenti, ai cui
funerali non presenzieranno i pubblici amministratori.
La
Commissione Antimafia comincia a tenere d’occhio amministratori come Alfonso
Sansone, ******* **** e Cosimo Monfredi. Il democristiano Amalfitano denuncia
nella pubblica amministrazione un muro di gomma trasversale che definisce
Interpartito; fra i socialisti si scatena una polemica furibonda ma è ormai
evidente la contiguità tra potere politico e potere criminale. Arrestato e
condannato nel 1986, “il Messicano” sarà latitante fino alla fine dei suoi
giorni grazie ad una falsa certificazione di lombosciatalgia e alla
complicità di una suora. Nel 1987
è diventato presidente dell’Assindustria Donato Carelli che ha costruito la
propria fortuna con una impresa di pulizie attiva all’interno dell’Italsider:
gestore di un ippodromo e di una emittente televisiva, diventa presidente del
Taranto Calcio, ma inciampa nel “caso Taranto”, una storiaccia di corruzione
che vede coinvolti anche due funzionari di polizia e tre magistrati. Qualche
anno dopo, Carelli inciampa anche in un proiettile, sparatogli alle gambe da un
misterioso sicario (12).
Nel
1989 il rapporto della Commissione Parlamentare Antimafia fa il punto sulla
forte autonomia della criminalità jonica, sulla pericolosità delle neonate 145
finanziarie, sulla disinvoltura tarantina nella trattativa privata e negli
appalti non regolari. Nel 1990 viene sparato alle gambe il democristiano
Roberto Della Torre. Nel 1991 si registra a Taranto un bilancio di 54 morti. Il
7 di maggio viene ucciso Salvatore De Vitis, capo indiscusso del clan rivale
dei Modeo. Il 16 di agosto Salvatore Annacondia (che in seguito rivelerà la
complicità fra Cito e Modeo) mentre il “messicano” ritorna dal mare pedalando su una bicicletta, con un revolver gli
esplode un colpo alla testa e,
allontanandosi in Vespa, ancora un altro colpo verso il Boss che si
accascia sotto la pioggia (13).
Note
1)
Cfr. P. STEA, Taranto da Cito a Di Bello, ovvero come
“gioiosamente” si dissesta un Comune,
Taranto, 2007; R. NISTRI, Taranto a vita bassa. Polveri e debiti di
fine Novecento, Taranto, 2010.
2)
Nicolangelo
Ghizzardi è attualmente magistrato di Cassazione con funzione di Procuratore
della Repubblica. Per diversi anni ha svolto le funzioni di sostituto
procuratore presso il tribunale di Taranto, sostenendo l’accusa nei più
importanti processi alla criminalità tarantina. Arturo Guastella, giornalista
dal 1971, ha diretto per 14 anni Videolevante ed è stato corrispondente
dall’Italia e dall’estero per varie testate.
3)
“La malavita tarantina, fino ai primi anni ’80, ha avuto
connotati assolutamente tradizionali, coerentemente con una economia rurale o
proiettata verso la mitilicultura e la pesca” (N. GHIZZARDI-A.GUASTELLA, Tra
pistole e ciminiere, Lecce, 2010, p.37). Si
può solo ricordare il processo alla mala vita del 1893, riguardante 103 povericristi: il
giornalista Antonio Rizzo finì con l’osservare che quella popolazione di mezze calzette imprigionate nelle
navate di S. Giovanni di Dio non meritava sì grandi clamori (R. AQUARO, Camorra
a Taranto, Taranto, 1986).
4)
“Taranto non sembra disporre di una fondata immagine di sé che
si sia in qualche modo storicamente determinata… assorbe le istanze altrui e
non impone le proprie. La formazione storica dell’identità tarantina pare
essere di tipo tettonico, dove uno strato si sussegue all’altro…senza mai
fondersi in una struttura unitaria”; P. RESTA, Identità a confronto, Taranto, 1990, pag.143 e 145.
5)
G. DE CATALDO, Terroni,
Milano, 1995, p.57. Il logo della “città avvelenata” viene dalla prima pagina
di Piombo e sangue, un classico
dell’hard-boiled-school: “le
ciminiere svettavano alte, avevano ricoperto tutto di fumo giallo, conferendo
ad ogni cosa un aspetto di uniforme mestizia (I grandi romanzi gialli
di Dashiell Hammett, Milano, 1976, p.183).
Con Hammett ci troviamo di fronte alla presa d’atto di un sistema sociale in
fase pre-agonica, una dissoluzione senza speranza. E’ il passaggio epocala dal
“giallo” al “nero” nell’evoluzione del romanzo poliziesco, correlato dello
sviluppo, nel “capitalismo maturo”, dalla criminalità organizzata alla
criminalità di Stato. La correlazione è massimamente esplicitata nel nuovo
noir francese, per cui “l’assassino è il
sistema”; cfr. E. MANDEL, Delitti per diletto, Milano, 1997. Per un verso la malamministrazione
jonica sembra ulteriormente avvalorare la tesi di Manchette: il noir è la migliore chiave interpretativa di una società a
sua volta anneritasi, in cui crimine e potere si sono fusi. Per altro verso, dopo
aver imputato ad altri agenti (la Marina militare oppure l’Ilva) le
responsabilità per l’irresistibile bruttificazione del territorio, bisogna
ancora fare i conti con una patologia tutta tarantina: una classe non-dirigente
che in 150 anni ha prodotto un solo leader politico ben noto su scala
nazionale: Ciancarlo Cito, l’abominevole uomo dell’etere, populista e
carcerato.
6)
Gli autori, a voler sottolineare l’immemore trascuratezza
tarantina per la propria storia, hanno raccontato di una gaffe degli amministratori (invero non una delle peggiori) nei confronti di una
delegazione francese, guidata da un funzionario del comune di Parigi, che il 18
novembre 1972 si presentò al sindaco, per chiedere notizie sulla sepoltura del
generale napoleonico Pierre Ambroise Chaderlos de Laclos, che risultava essere
morto a Taranto. Smarrimento per il sindaco e i funzionari: si sapeva di una
via detta dai tarantini Làclos ma nessuno sapeva nulla sul generale Laclòs.
Bisogna sapere che nella commissione per la Toponomastica del 1951, alcuni
“giacobini” operarono astutamente per onorare non tanto il generale quanto il massimo romanziere
illuminista e libertino del settecento, la cui opera, Les liaisons
dangereuses, doveva ispirare i due grandi
film di Forman e Frears. Bisognava muoversi con cautela, profittando delle
scarse letture dei democristiani e aggirando l’opposizione di monsignor
Ruggeri, sospettoso di un certo libro messo all’Indice. La soluzione venne
trovata, onorando sulla targa non il sommo scrittore ma il generale inventore
della granata. E così venne consacrata via Laclos ( cfr. A. RIZZO, Tastiere tarantine,
1992, p.33 e T. SCALINCI, Come negare a Laclos una tomba e una via?, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 17 settembre
1982). Al Sindaco rimaneva il problema della immemore sepoltura: vanamente il
cimitero venne perlustrato da cima a fondo . Eravamo in casa del giornalista Antonio Rizzo
quando il disperato Direttore gli telefonò per chiedergli soccorso : ridacchiando Rizzo esortò a
sospendere ogni ricerca a S.Brunone, fra l’altro entrato in funzione un
sessantennio dopo la morte del grande Artigliere, avvenuta il 9 agosto 1803.
Sepolto non in terra consacrata, nel Forte sull’isola di San Paolo, la sua
tomba - come hanno ricordato Speziale e Forleo - venne violata al ritorno dei
Borbone e le sue spoglie disperse: “Forse per questo una pietosa leggenda vuole
che nelle notti di tempesta il fantasma inquieto di Laclos unisca la propria
voce a quella del vento” (M. GIRELLI RENZULLI, Il fantasma di Laclos
sull’isola di San Paolo, in “Voce del
Popolo”, 15 aprile 2007).
7)
N. GHIZZARDI - A. GUASTELLA, op. cit., pp. 160-161.
8)
G. DE CATALDO, op. cit.,
Roma, 1995, pp.45-46. Il capolavoro di De Cataldo, sconosciuto ai più, è una
“operetta criminale” messa in scena nel 2003 dai Cantieri Teatrali Koreja con
l’apporto musicale dei Sud Sound System: Acido Fenico. Ballata per
Mimmo Carunchio Camorrista. Un’opera da tre soldi che racconta l’irresistibile
ascesa e il declino di un “doppio” di Modeo, dalla umiliazione sui banchi di
scuola alla “contestazione” nella città vecchia al “tutto e subito” garantito
dalla onorata società. I Sud Sound cantano “i pesci grandi si fecero piccoli e
i pesci piccoli si fecero grandi” e la grande mattanza e la lussuosa reggia
protetta dal muraglione di Statte. E infine le onoranze a colpi di mitraglia
per il Boss defunto: “Charles Bronson , non ti dimenticheremo mai !” Segue il
disfacimento finale. Sulla saga dei Modeo, cfr. anche R. GORGONI, Periferia
infinita. Storie d’altra mafia, Lecce, 1995, pp.160-226; S. M. BIANCHI, Geometra
Cito, sindaco di Taranto, pp. 55-58, 75-76.
9)
La politica però dura poco: l’infatuazione frana sulla
complessità degli equilibri interni al movimento, è difficile conciliare la
propria vocazione di capo con i passaggi ideologici e le elaborazioni più o
meno teoriche che segnano la vita interna della sinistra extraparlamentare di
quegli anni” (R. GORGONI, op. cit.,
p.172).
10)
Cfr. M. GABANELLI, “Io, Gelli e la strage di Bologna”, in “la Repubblica”, 30 gennaio 2009; Una
base di “neri” a Taranto, in”Quotidiano”, 10 gennaio 1982.
11)
Il rapido incremento di potenza del clan Modeo va di pari
passo con l’accentuarsi dei conflitti fra Tonino e i tre fratellastri
Gianfranco, Riccardo e Claudio (tutti latitanti). Il ruolo dirigente della madre Cosima Ceci (una sorta di
“mamma Barker” famosa nel gangsterismo americano) non riuscirà a lungo ad
evitare il tragico finale, finendo essa stessa uccisa, con l’onore dei funerali
in diretta televisiva, grazie all’emittente AT6 di Giancarlo Cito; S. M. BIANCHI,
op. cit., p. 57.
12)
Il “caso Taranto” (già la titolazione brilla per
vaghezza) rimane una situazione di
malaffare non molto chiara nella sua evoluzione e conclusione: “Qualcuno è
giunto a parlare di una vera e propria organizzazione composta da politici,
imprenditori, magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine che,
approfittando soprattutto della crisi economica, si prefiggevano di mettere le
mani sulla città riuscendo anche ad influenzare la composizione di una giunta
comunale (N. GHIZZARDI e A. GUASTELLA, op. cit., p.71). Se la stampa cittadina è alquanto silente, quella nazionale
mena gran scandalo a partire da un rapporto del Viminale in data 26 gennaio
1985: “… un agente in carcere per omicidio, un brigatiere arrestato per rapina,
un altro agente ricoverato in clinica per aver minacciato alcuni colleghi…
Il responsabile della Sezione
volanti sembra essere più alle dipendenze dell’imprenditore tarantino Carelli
che del ministero dell’Interno… ha ricevuto in dono da Carelli una potente BMW
come titolo di ringraziamento per l’attività di protezione che svolge a tutela
dell’imprenditore, con scorte e vigilanza personale attraverso auto e uomini
della polizia; ha costruito una villa impiegando anche personale della polizia;
ha acquistato materiale da costruzione per alcune decine di milioni senza mai
pagare e il commerciante non ha mai protestato per timore di eventuali fastidi
da parte della polizia. Anche il capo della Squadra mobile riceve utili dall’imprenditore Donato
Carelli… ha ottenuto attraverso un prestanome la gestione del ristorante
dell’ippodromo e ha acquistato un appartamento di 140 milioni, ma ottenuto per
90 grazie all’intervento di Carelli” (in “Panorama”, 2 giugno 1985). La Procura
della Repubblica viene privata del suo Capo e di due sostituti procuratori. Le
inchieste sui funzionari di Polizia verranno dimostrate prive di fondamento e
altre inchieste finirono in prescrizione, eppure tutti considerano il
“paradigma del ‘caso Taranto’ come incipit dell’esplosione malavitosa nella città dei due mari” (N. GHIZZARDI e
A. GUASTELLA, op. cit., p. 72.
Cfr. R. AQUARO, op. cit., pp. 49-50; “la Repubblica”, 29 maggio 1985; “Nuovo
Dialogo”, 7 giugno 1985; “Gazzetta del Mezzogiorno”, 26 novembre e 5 dicembre
1985; “Quotidiano”, 3, 12 e 13
dicembre 1985; “Corriere del Giorno”, 15 maggio 1987.
13)
Il necrologio del “Quotidiano” (16 agosto 1990) su un uomo
intelligente e spregiudicato, capace di “intessere rapporti anche con settori
dell’imprenditoria e della politica” sembra l’agiografia di un imprenditore
d’assalto (cfr. G. DE CATALDO, op. cit.,
p.51. La morte di Modeo scatena ai
massimi livelli la guerra per la successione, nei mercati si moltiplicano i
raids armati. Non sostenuti dal sindaco Armentani, i commercianti tarantini
prendono coraggio e, spronati da Maria Ruta presidente dell’Associazione,
indicono una serrata. Durante l’imponente manifestazione, nel quartiere Paolo
VI vengono sparati quaranta colpi di pistola: ormai si fanno avanti “giovani
sanguinari guerrieri”.