TARANTO E LE LEGGI RAZZIALI. UN
SAGGIO DI FRANCESCO TERZULLI
Roberto Nistri
1. “Storia Patria”: lo stato
dell’arte
Il giornalista Sandro Viola , su “la Repubblica” del
29 settembre 1985, scrisse un articolo di rilevanza storica per tutto il
dibattito culturale in terra jonica sul finire del ‘900: Un salto nell’Italsider, così Taranto si è uccisa.
L’industrializzazione sbagliata della più sporca città italiana. “L’assedio del brutto ha vinto, non ci sono teatri
né biblioteche, i legami con il passato sono perduti. E’ come se fossimo
passati direttamente dalla Magna Grecia al Siderurgico… In mezzo non è rimasto
niente”: giudizi che scatenarono una discussione più che vivace su questioni di
dettaglio e forzature polemiche dello scrittore di origini tarantine, senza
tematizzare la questione di fondo: per primo Viola aveva intonato il de
profundis per il Grande Sogno siderurgico e
gli eventi successivi hanno di gran lunga superato le sue più fosche
previsioni. Viola aveva indicato anche alcuni motivi di ottimismo, fra i quali
l’affermarsi di un lavoro storiografico attento alle problematiche
dell’industrializzazione, considerato con una certa attenzione anche dalle
istituzioni locali e addirittura dall’Italsider, nel quadro della perdurante
assenza di un polo universitario (1). In effetti, due grandi opere pubblicate
nei primi anni ’80 - La città al borgo e Taranto da una guerra all’altra - furono occasione per un (sia pure superficiale)
risanamento della Galleria degli Uffici, con l’allestimento di grandi mostre
fotografiche e pregevoli concerti-spettacoli rievocativi della storia
municipale.
A seguito del lavoro storico sugli
antifascisti tarantini e, in particolare, sulla figura di Pietro Pandiani,
comandante partigiano della brigata “Giustizia e libertà”, si giunse ad una
delibera municipale del 31 ottobre 1988 (sindaco Mario Guadagnolo) che affidava
“formale incarico - privo di ogni compenso - ai Proff. Matteo Pizzigallo,
Roberto Nistri, Piero Massafra nostri concittadini, perché affrontino in
dettaglio tutti gli aspetti connessi alla costituzione di un Istituto della
Ricerca Storica sulla Resistenza e la Costituzione, riservando a successivi
atti di questa Amministrazione la concreta attuazione dell’iniziativa” (2). Il
progetto presentato venne approvato all’unanimità, ma la “concreta attuazione”
non prese mai il via. Tamquam non fuisset…
Intanto progrediva il depauperamento del patrimonio archivistico e documentario
cittadino: prima la smobilitazione della prestigiosa Scuola Quadri della Cisl,
poi la chiusura della Biblioteca dell’Italsider, a seguire la lenta ma
implacabile morìa dei Centri Servizi Culturali della Regione Puglia (3).
Naturalmente
gli storici locali hanno continuato a livello individuale il loro lavoro:
ancora non si deve chiedere il permesso a nessuno per scrivere di storia
moderna e contemporanea ed egregie opere hanno visto la luce grazie
all’interessamento di case editrici tarantine e pugliesi: Mandese, Scorpione,
Schena, Archita, Filo… Un ruolo meritorio va riconosciuto, in questo campo, ad
alcune importanti riviste scolastiche, in particolare “Galaesus” del liceo
Archita e “l’arengo” del liceo Quinto Ennio. Per quanto riguarda il gioco di
squadra, positivamente va considerata, grazie alla collaborazione dei fratelli
Mandese con la Sezione tarantina della Società di Storia Patria, la ripresa nel
1990 della pubblicazione di “Cenacolo”, prestigiosa rivista fondata nel 1971 ma
entrata in sonno nel 1982 (4).
A livello istituzionale, si deve
ricordare l’exploit del 1999: in
occasione del bicentenario della Repubblica partenopea fiorirono mostre e
pubblicazioni: un eccellente catalogo curato dall’Archivio di Stato, un
Quaderno del Centro Studi Piero Calamandrei e un qualificatissimo convegno di
studiosi locali e nazionali i cui atti vennero pubblicati a cura del
Provveditorato agli Studi di Taranto. Si può considerare un evento eccezionale
nella storia del Provveditorato e, considerato l’ampio coinvolgimento delle
scuole, rimane la più importante operazione culturale degli ultimi tre decenni.
Promotore e impeccabile organizzatore dell’iniziativa fu il preside Franco
Terzulli (5). Di formazione filosofica (ha pubblicato una ricerca bibliografica
relativa al Nietzsche di
Heidegger in collaborazione con il prof. Gianni Vattimo e il Goethe Institut di
Torino) in seguito si è sempre più appassionato alle questioni di storiografia
pugliese.
2. Francesco Terzulli e la
questione ebraica
Collaborando con Terzulli nelle celebrazioni della
“repubblica della memoria”, mi sono ritrovato a condividere con lui un
paradigma forte della storiografia contemporanea e un criterio di valutazione
delle tormentate vicende della vita civile italiana e meridionale: nella Storia
del regno di Napoli Croce ha scritto che, nel ripensare all’opera dei
patrioti del ’99, egli si sentiva spinto a dirsi “ecco la nascita dell’Italia
moderna, della nuova Italia, dell’Italia nostra”. L’origine dell’Italia
unitaria è nell’Illuminismo (6). Sullo sfondo di quel tumultuoso processo è ben
presente una questione che costituisce il filo rosso di larga parte della
riflessione storiografica di Terzulli: gli ebrei e i diritti di cittadinanza,
gli ebrei e l’illuminismo. Con l’arrivo dei francesi a Roma, nel febbraio del
1798, vennero spalancate le porte del ghetto in nome della libertà giacobina.
Nel mese di novembre l’esercito borbonico di Ferdinando IV invase Roma e
richiuse il Ghetto. Un mese dopo tornarono i giacobini e con la Repubblica il
Ghetto venne riaperto, ma richiuso con il ritorno dei Borbone il 3 ottobre
1799. Durante il quinquennio “imperiale” vi fu nuova libertà per il Ghetto, con
un fiorire dei mestieri e dei commerci. Passati i “cento giorni” di Napoleone,
la clausura per gli 8000 ebrei che vivevano nel Ghetto romano fu definitiva. Tale altalena fra
persecuzione e liberazione ebbe naturalmente a riprodursi in tutta Italia,
cristallizzando la coniugazione fra antisemitismo e anti-illuminismo (7).
Franco
Terzulli, punta di diamante della resistente pattuglia di storiografi
tarantini, ha continuato nei decenni a lavorare su queste ed altre tematiche
senza mai cedere alla tentazione dello scoop e della pubblicistica usa e getta: troppo grande, quasi religioso, è
il suo rispetto per la materia da lui indagata con l’autorità dei fatti e la
moralità del lavoro accurato. Nei riguardi di questo storico di razza,
ubbidiente all’aurea regola di Vico che vuole la storiografia come congiunzione
fra filologia e filosofia (i fatti senza l’interpretazione sono ciechi,
l’interpretazione senza la ricognizione fattuale è solo retorica), attento
nello scrivere e nel comunicare con chiarezza e distinzione, secondo lo stile
sobrio e “scientifico” appreso dal maestro Primo Levi, ci sembra a lui calzante
una citazione del vecchio Marx: “La critica non è una passione del cervello,
bensì il cervello della passione”. Avverso alla storia romanzata, ben
pubblicizzata e ben venduta, Terzulli teme la intollerabile “scomparsa dei
fatti” e, con Vittorio Foa, è convinto che l’oblio si possa vincere solo se la
memoria dell’evento è riportata alla ragione che lo ha determinato. Questa
divisa critica è la cifra di ogni sua indagine, si tratti della scuola o di vicende militari (8).
3. Quando l’Italia diventò
razzista per legge: l’antisemitismo in una città senza ebrei
Nel
settantesimo compleanno delle leggi razziali, Francesco Terzulli ha voluto
indagare nel microcosmo della vita quotidiana di Taranto, nel tempo intercorso
tra la proclamazione dell’Impero Fascista e l’armistizio che ne decretò la
fine, sempre onorando la storia come “guerra illustre” contro la menzogna
(“Taranto razzista? Quando mai…”) e sempre usando le armi della filologia senza
le quali la storiografia si riduce a chiacchiera. Sette anni di ricerche ci son
voluti per “blindare” doverosamente la sua indagine su L’impossibile
emulsione. Una città al tempo delle leggi
razziali , un testo di storia municipale
potentemente attraversata da tutta la tragicità della storia maior, non imbrigliato dal provinciale “effetto tunnel”
che tende a focalizzare l’attenzione su alcuni elementi precostituiti dalla
“tradizione” (9). Nel testo del Manifesto sulla purezza della razza si leggeva: “Gli ebrei non appartengono alla
razza italiana… E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”.
Dichiarazioni che oggi ci appaiono infami e oltraggiose nell’Italia fascista
vennero accolte con entusiasmo, in particolare dal mondo accademico e dalla
cultura: ad esempio, nelle Università, l’espulsione dei docenti ebrei fu
salutata con giubilo dai colleghi, felici che alcune cattedre si rendessero
disponibili. Anche a Taranto i Giovani Universitari Fascisti, molti presidi,
intellettuali e uomini di fede, ovvero le migliori intelligenze del territorio,
si misero al servizio dell’ideologia e della politica razzista attuata dal
governo centrale.
Giustamente
Terzulli considera la politica razziale non come un bizzarro accidente o
concessione di Realpolitik al più
potente alleato (10), ma come essenza stessa del fascismo, ideologia di Stato
e principale collante della
cultura nuova. Dopo la conquista dell’Etiopia nel ’36, il regime entrava nella
nuova fase del Fascismo Imperiale che richiedeva una vera e propria rivoluzione
antropologica. Proprio in Africa veniva elaborata una teoria razzista molto
forte, a partire dall’idea che le unioni miste fra soldati italiani e donne
indigene potessero inquinare il ceppo italiota. Di fatto venne introdotto l’apartheid con
molto anticipo rispetto al
Sudafrica e la discriminazione si esercitò prima nei confronti dei “negri”, poi
dei meticci e infine degli ebrei. Il paradigma era quello della “emulsione
impossibile”, da cui il titolo del saggio di Terzulli: l’olio delle altre razze
non può miscelarsi con l’acqua pura della stirpe italica e, derivandone un
composto torbido, è necessario un processo elettrolitico per attuare una separazione
definitiva. Si avviava così un processo di “disebraizzazione” volto a
cancellare qualunque traccia degli ebrei dal territorio italiano. In Puglia i
provvedimenti potevano colpire una donna ebrea di nazionalità greca, licenziata
da una banca di Bari come un ufficiale dell’esercito di Lecce, fascista e
decorato al valor militare, espulso dalle forze armate in quanto ebreo.
Anche
nella provincia jonica zelo antiebraico e ortodossia fascista finirono per
coincidere, avvolgendo in un’unica nuvola ideologica l’intellighenzia cittadina. A discapito della ridottissima presenza
ebraica e con eventuale risparmio di senso di colpa (secondo il censimento del
’38 gli ebrei di Taranto erano solo 26) la campagna persecutoria, facile e
redditizia, fu sviluppata a tutti i livelli, a partire dal più importante
periodico locale, “La Voce del Popolo”: “Gli Ebrei non possono appartenere alla
razza italiana” (Antonio Trotta, 20 agosto 1938); “L’Italia, più di ogni altra,
sente la necessità essenziale di sradicare questa funesta piaga” (Gennaro
Capano, 10 settembre). La “guerra santa” - un tonico a poco prezzo per il bolso
fascismo locale e un allettante viatico per l’autopromozione delle nuove leve -
fu condotta anche dal celebre liceo classico “Archita” sotto la guida del fascistissimo
preside Luca Claudio: fra i “Quaderni” di propaganda fascista spiccava anche un
opuscolo antisemita, Concetto scientifico di razza, stampato nel 1940 dalla Tipografia Arcivescovile di
Taranto, all’interno del quale si può leggere:”La razza va difesa. Noi non
vogliamo bastardi”. Come scrive Terzulli, Taranto rappresentò una “cartolina
del Regime” con l’integrale sviluppo di quei temi in agenda: qui, infatti, fu
avvertito l’ “orgoglio imperiale” di una città militarizzata, statale per
antonomasia, “porosa” e permeabile a ogni modello di sviluppo eterodiretto,
divenuta avamposto sui mari e vetrina della flotta, a partire dalla
proclamazione dell’Impero. La propaganda antisemita, un’alchimia tossica di vaghi pregiudizi e reiterate
istigazioni all’odio, con una facile mobilitazione di improvvisati specialisti
in razzismo ( storici, archeologi e folkloristi pontificanti nella Lega Navale
o nella Società “Dante Alighieri”) era anche una occasione insperata per
restituire credibilità a un Fascio locale sempre rissoso e spesso
commissariato. L’antisemitismo si rivelò subito “un mito aggregatore di tutto
quello che il fascismo condannava” con conseguente razzizzazione del nemico
politico (antifascista).
Allontanati dalla città i pochi ebrei e
scomparso, grazie al piccone del Duce nel ’34, l’ultimo toponimo del vicoletto
Giuda, non rimaneva che dichiarare guerra alla storia, disebreizzando anche il
passato con una rivisitazione retroattiva e malevola dell’antica presenza dei
giudei in terra jonica (11). Del resto la “bonifica” doveva esercitarsi in
particolare contro l’ebreo “invisibile”,
il “circonciso dentro”, quella ebraicità nascosta che alligna come
parassita nel corpo sano della Nazione. Non si trattava comunque di un’adesione
artificiosa: nello zelo scolastico “c’era qualcosa di volontario, di spontaneo,
un’adesione intima e non indotta dall’esterno di alcuni dirigenti e docenti” e
una sorta di invasamento era riscontrabile anche fra gli universitari in
camicia nera, quei “gufini” che a Taranto potevano coniugare il loro
antiebraismo con la doppia appartenenza alla Fuci, la federazione degli
universitari cattolici, anche per una certa ambiguità caratterizzante le
posizioni della Chiesa locale. I giovani intellettuali jonici mostravano di
conoscere le diverse teorie razziste in circolazione, privilegiando come nuova
antropologia di regime la “scuola” di Nicola Pende, clinico medico di
Noicattaro, nominato nel 1937 presidente della sezione di eugenica del Comitato
medico del Cnr e firmatario del Manifesto della razza (12).
Il
2 dicembre 1938 il federale di Taranto chiamò a rapporto tutti i gerarchi per
parlare della lotta contro gli ebrei “confermando che dovrà essere combattuta
ogni forma di pietismo”. Si diffondeva intanto il pamphlet di Telesio Interlandi Contra Judaeos e il volume curato da Paolo Orano, Inchiesta
sulla razza che “divenne il testo di
riferimento per tutti i razzisti antiebraici nostrani”. Faceva la sua parte
anche l’antigiudaismo di matrice cattolica con il canonico grottagliese don Giuseppe
Petraroli, che denunciava la pericolosità di un sionismo messianico di
“carattere massonico-ebraico-bolscevico”. Secondo Terzulli è nel saggio di padre Primaldo Coco, Gli
ebrei: popolo errante, che si attua la
saldatura tra l’antisemitismo fascista e il tradizionale antigiudaismo
cattolico (13). L’ultimo capitolo del libro, dedicato all’istituzione
scolastica, è quello in cui maggiormente si dispiega il volume di fuoco della
macchina propagandistica, un dispositivo reticolare del coinvolgimento con
agenti iperattivi come il dirigente della scuola elementare “Virgilio”, Angelo
Iurlaro, e l’ispettrice scolastica Maria Luigia Quintieri. Alla caduta del
fascismo nessun operatore scolastico incappò in pesanti sanzioni epurative.
Docenti dell’ “Archita” hanno ricordato come, all’indomani dell’Armistizio, ci
volle qualche giorno per strappare materialmente le pubblicazioni
compromettenti prima che arrivasseo gli inglesi (14).
Con
un libro come questo Franco Terzulli ha piantato il piccolo paletto di cui lo
storico dispone per sabotare la fabbrica della dimenticanza organizzata, per
arginare la nostra facilità nel rimuovere, glissare, evitare di fare i conti:
cinquantamila italiani ebrei consegnati a Hitler, centinaia di migliaia di
soldati italiani mandati a morire per i campi di Europa, decine di migliaia di
sloveni, etiopi, greci ammazzati in casa loro. Una spia dell’Ovra in ogni
caseggiato e oppositori in galera, oppure braccati e uccisi, certamente non
mandati “in vacanza” come qualcuno ha dichiarato incautamente. Lo stesso orrore
per le foibe, tombe di migliaia di italiani innocenti, produce falsa coscienza
se si omette di ricordare che senza il fascismo, l’invasione della Slovenia, le
atrocità contro i civili, quella orribile rappresaglia non ci sarebbe mai
stata. Gli “italiani brava gente”, invasori con obiettivi dichiarati di
supremazia etnica, hanno sempre evitato accuratamente di guardarsi nel fondo
dello specchio nero. Per questo il “rimosso” ritorna, si risveglia quel razzismo che “giace in fondo agli animi
come un’infezione latente” (Primo Levi) e tocca allo storico riprendere
l’eterno lavoro di Sisifo.