La
Tarentinità: quell’identità residuale raccontata da Roberto Nistri
Recensione di
Gaetano
De Monte
Si
chiama
“Tarentinità: quell’identità residuale”, e sarà presentato il 22 febbraio
presso l’archeotower occupata, in via Venezia, a Taranto, il saggio con cui Roberto Nistri, storico, prende in considerazione gli
eventi storici che hanno segnato, nel tempo, la città di Taranto e che hanno
contribuito a formarne l’identità collettiva. La città dei due mari, la cui storia, non è
mai “stata monocentrica, è sempre transitata da bipolarità orgogliosamente
enfatizzata a una dualità malvissuta”, scrive Nistri nel libro, dove assumono,
in grande rilievo, l’analisi dei due momenti
storici considerati fortemente rilevanti nella formazione dell’identità
socio-culturale tarantina: l’installazione dell’arsenale della marina militare
ai primi del Novecento e del quarto siderurgico, a metà del secolo, eventi che
hanno segnato Taranto, trasformandola da piccola provincia in sede militare di
importanza strategica, e poi addirittura
in quella di capitale industriale del mezzogiorno. Quando divenne il caso più
eclatante di rimodellamento del tessuto sociale e delle funzioni urbane alle
esigenze dell’insediamento produttivo, e allo stesso tempo, la città
proletaria, una città operaia che dal mutualismo all’organizzazione camerale,
costituì l’anima forte di un ambiente e di un popolo che era sempre stato, e
sempre sarà, poi, da allora, invece, incline all’indifferenza. Che promosse
forti momenti di cittadinanza attiva, quella cultura operaia, infine, che pose
le prime basi di una sensibilità democratica. In una città governata allora da
una aristocrazia militare, dalle gerarchie ecclesiastiche e da una borghesia
parassitaria, trafficanti di ori e tesori, e ben presenti soprattutto nei
settori della speculazione: degli appalti, dell’edilizia, del credito, la
peggiore borghesia dell’Italia meridionale; nonostante tutto dunque, nei primi
anni ’50, la città operaia manteneva una sua forte, precisa identità, eleggendo
anche sindaci e parlamentari. Scrive
Roberto Nistri: ” Più o meno attorno a momenti storici precisi, come la fine
dell’età d’oro dell’acciaio e la conseguente svendita del siderurgico, dalla
fine degli anni ’80 - inizio anni ’90 più o meno, quindi, tante saranno le
identità tarantine sbiadite: come quella antifascista, baluardo della
democrazia meridionale, che con Cito, invece, aveva scelto di essere governata
da uno squadrista. Agli albori del 2000, in cerca di nuove spericolate identità
la città sperimentava l’ebbrezza della sindachessa che a passo di danza la
guidò verso uno strabiliante dissesto. Da allora poi l’identità cominciava a
riuscire spontanea, la più indebitata d’Italia e la più inquinata d’Europa”. E
da allora per Giancarlo De Cataldo sarà Poisonville, metafora della provincia
italiana, per una copertina del settimanale il Sabato, sarà la Beirut del Sud,
mentre il volto urbanistico della città cambiava, assumendo quell’aria
devastata tipica dei posti senza identità, dove si è fatto piovere a casaccio
cemento nel più totale disprezzo del territorio ma con grande attenzione al
valore delle aree e alle conseguenti lottizzazioni. Al primo, parziale, epilogo
di una storia di crimini, debiti e veleni, Cristian Raimo, nel 2007, la
definirà una capitale immorale, con un buco di bilancio mostruoso, i suoi
record di diossina, il suo mare guasto, perché dell’Italia è forse
l’osservatorio più privilegiato, il paradigma sociale e antropologico utile a
capire anche ciò che accade nel resto della penisola. Taranto, lo specchio
d’Italia sarà, nell’estate 2012, per Gad Lerner. E da allora per Taranto la
qualificazione criminale non sarà solo una metafora letteraria o il titolo di
una docufiction di successo. Perché in trent’anni di storia, dal boss che
passava la vigilia di Natale con il futuro sindaco, al boss Riva accusato di
disastro ambientale, vi è il filo nero di corruzione che ha avvolto la città,
distruggendo ogni regola e norma. Nel solco di un grande sociologo come Franco
Cassano, quindi, che aveva considerato il primo passo di ogni autonomia di un
popolo, quello che conduce a ritrovare “l’orgoglio di ciò che si è , il
significato di valore di una storia e di una tradizione”, Nistri, dunque,
scrive di identità, nell’era della globalizzazione trionfante, per spingere i
tarentini a rivendicare la propria autonomia, la differenza, che sia lontana
anni luce, però, dal localismo o dal gretto municipalismo. “Mentre la Taranto
degli ori e della cultura magno greca”, racconta Roberto Nistri, “continua a
vivere solo in un turismo colto e sognatore. La città delle navi, dei
pescatori, della classe operaia siderurgica, e di quella degli arsenalotti, per
la nazione ora è più un problema che una risorsa. A ridosso dell’ultima Rocca,
dove si ergono le ciminiere ziggurat, i tarantini cercano di capire che cosa
sono diventati e cosa vogliono. Sono orfani di identità”.
Probabilmente
perché della loro storia non sta rimanendo più nulla.
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