Guerra alla guerra
di Roberto Nistri
In tempo di guerra il diavolo
Fa più spazio
all’inferno
Vecchio proverbio tedesco
Il 15 maggio
1921 duemila persone marciarono fino a sera per le strade di Los Angeles,
giungendo alle soglie di una rivolta: erano i veterani mutilati che
raccontavano del mostruoso vampiro che aveva svuotato il mondo, succhiando il
sangue di milioni di persone. Era la
danza macabra dei senza volto, dei torsoli umani, dei freaks. La storia si rappresentava ormai come un’anonima catena di
montaggio verso il massacro. Il regista James Whale, ricordando i suoi atroci
giorni di guerra, si sarebbe ispirato per la maschera di Frankenstein a quei reduci trasmutati, quei “cari mostri” che avrebbero fatto la
fortuna di Hollywood, con il grande cinema Horror.
***
Nel centenario
della “madre di tutte le guerre”, in qualche aula scolastica forse si aggira ancora lo spettro di Gavrilo
Princip, la testa di turco, il folle terrorista che doveva spalancare le porte
dell’inferno, moltiplicando le deviazioni irrazionali e demoniache. In realtà
doveva essere l’ultimatum austriaco alla Serbia a fungere da detonatore del conflitto,
considerando che tutte le potenze interessate avevano già il colpo in canna.
L’Europa aveva deciso di autodistruggersi. Iniziava la marcia dei sonnambuli
verso l’abisso. Una guerra fra teste coronate: parenti, cugini e cognati. La
lunga miccia era accesa da tempo. Le guerre balcaniche, suscitate negli anni precedenti, avevano accumulato furori interimperialisti
per i possedimenti coloniali e le rotte commerciali, con una corsa ormai
sfrenata al riarmo. Guerra alla guerra, il generoso slogan di socialisti
e libertari, doveva finire strozzato nel
grande Pandemonium, la festa di tutti
i diavoli e dei grandi profittatori. La grande speranza della Internazionale
socialista naufragava indecorosamente, votando nel parlamento tedesco i crediti
di guerra. Non s’inchinavano al militarismo solo Rosa Luxenburg e Karl Liebknecht. Avrebbero
pagato con la vita la loro fierezza, mentre duecento milioni di individui
iniziavano a marciare verso la catastrofe, convinti che la guerra sarebbe stata
facile e breve: illusi dalla solita fiaba del “tutti a casa per Natale”.
***
In Italia,
malgrado una maggioranza neutralista nel parlamento, ma anche nei settori popolari, veniva attuato
un golpe strisciante gestito dalla Corona, dai potentati economici, dalle
gerarchie militari, da intellettuali come D’Annunzio, che furono capaci di mobilitare ampi settori
dell’opinione pubblica a favore dell’Intervento. Il nazionalista Corradini nel 1910 aveva proclamato: “L’Italia è una
nazione proletaria che ha bisogno di una guerra vittoriosa!”
Scriveva Giovanni Papini nel 1914: “Amiamo la guerra ed
assaporiamola da buongustai, finchè
dura… Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e
tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Non si rinfaccino, a uso di
perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa posson servire le madri, dopo una
certa età, se non a piangere?” . Miti funesti, che avrebbero causato inutili
lacrime per la morte del letterato Renato Serra, partito volontario e caduto
sul Podgora, in un universo dio fanghi e di stenti. Rimarranno i versi del fantaccino Ungaretti:
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Anche se a Bolzano, nel
centenario del conflitto, il sindaco continua la sua guerra, rifiutandosi di
esporre il tricolore.
Ci avevano nel palmo della loro grande mano
Quando
fingevamo di essere morti
Bricks Are Heavy
Squillavano
ormai le trombe del mainstream patriottardo e menzognero. Una catena di genocidi, dal
1914 al 1918, doveva insanguinare il vecchio mondo e le sue appendici
coloniali, coinvolgendo settanta milioni di maschi europei (quattro milioni gli
italiani) e altrettante persone legate ai giovani mandati “al fronte”. In pochi mesi, “l’epoca bella della modernità
trionfante si tramutava nell’epoca tragica della modernità
massacrante” (Emilio Gentile). Una civiltà suicida sui fronti di guerra veniva subito avvertita da testimoni come
Freud, Hesse, D.H. Lawrence come il
naufragio dell’uomo europeo.Tutti i sogni di gloria sarebbero stati risucchiati
nel gorgo infame. Un grande testimone
dell’epoca, lo scrittore Stefan Zweig, nel suo libro Amok poteva parlare di “follia rabbiosa” di monomania omicida e
insensata. La guerra come festa celebrava i trionfi della
macchinolatria futurista.
Come avrebbe
argutamente rievocato lo scrittore
Beniamino Placido, in un sabato dell’agosto 1914 , nelle cerimonie religiose tenute nello stesso
giorno a Berlino e a Parigi, i ministri del culto garantivano il pieno sostegno
di Dio alle nazioni reciprocamente
belligeranti. Addirittura il laicissimo
governo dei Giovani turchi stimolava l’odio religioso musulmano contro gli
“infedeli”, inneggiando alla” guerra santa”, organizzando il primo genocidio
del Novevento, la strage degli
armeni. La grande illusione: quella che
doveva sanzionare la fine di tutte le guerre, doveva rivelarsi la “madre di tutte le guerre e di tutte le
menzogne”. La storica americana Barbara Tuchman ha segnalato che, quando
l’esercito tedesco invadeva il Belgio e la Francia nel 1914, i soldati tedeschi
cantavano canzoni patriottiche quando marciavano, quando si fermavano per una breve sosta e
anche nel momento precedente il riposo notturno. I sopravvissuti alla guerra
hanno poi ricordato quei canti senza fine come il peggior tormento patito nel
periodo dell’invasione. Da parte loro, i comandi si sentivano quasi alleati
contro un avversario comune: la mente dei soldati.
***
La “miracolosa”
tregua di Natale del 1914, quando i
nemici fraternizzarono nelle “terre di Caino” nonostante l’opposizione degli
ufficiali (evento ricordato da Paul Mc
Cartney in Pipes of Peace) doveva
rimanere nella memoria e nel mito come una testimonianza di umanità fra le
trincee. Il 24 pomeriggio i tedeschi facevano sporgere dalle trincee alberelli
illuminati e di fronte gli scozzesi rispondevano con i suoni struggenti delle
cornamuse. L’8 gennaio la prima pagina del Daily
Mirror era occupata da una foto di nemici affratellati” (Luigi Zoja).
Intanto la guerra industriale aveva inventato l’aviazione, i carri armati, i gas:
la battaglia diventava massacro indifferenziato di uomini e bestie, in balia
del perpetuo frastuono della storia. Non mancavano le menti illuminate:
Benedetto Croce, in accordo con Romain Rolland, dichiarava che gli
intellettuali non dovevano prestarsi al ruolo di “sacre meretrici” per la patria. Purtroppo,
come diceva il Manzoni, sovente
il buon senso si nascondeva dietro il senso comune.
Così scoccava l’ora nera della caccia agli untori,
i disfattisti, i pacifisti imbelli. Di contro il mito del “buon soldato”, sempre pronto a morire cristianamente per la
Patria, mentre il nemico era ovviamente degradato al rango di grottesca
caricatura. Stereotipi ben riconoscibili
ancora oggi nella storia politica d’Italia. Nasceva la guerra di massa combattuta da un “
soldato senza nome e senza qualità”, dal
fascismo poi monumentalizzato nell’icona del “milite ignoto”. Padre Agostino Gemelli, il fine psicologo,
teorizzava che il buon soldato era l’idiota, lo spersonalizzato, colui che non
si chiedeva mai il perché, l’homme
machine. Un popolo ingenuo ed ignorante era mandato ad un appuntamento
fatale con scarpe di cartone e moschetti difettosi, catturati da comandanti
narcisisti e irresponsabili, che costringeranno lo storico al ruolo di
“accanito collezionatore di ammutinamenti,
di proteste e di ogni possibile segno di dissenso sociale e militare”
(Mario Isnenghi).
***
L’attacco al
Lusitania, il lussuoso piroscafo oceanico, affondava gli
ultimi sogni della Belle Epoque, trascinando sul fondo 1201 passeggeri e
qualunque codice d’onore. I civili erano ormai un bersaglio legittimo e non
accidentale. Gli Stati Uniti si decidevano ad entrare in guerra contro la
Germania, mentre I tedeschi, durante la
marcia sul Belgio, massacravano migliaia
di civili. Mario Desiati ha raccontato
una incredibile vicenda salentina: alcuni comuni fra cui Taviano,
venivano circoscritti in una zona rossa, quella
dove ancora era diffuso il vaiolo, ma la necessità di arruolamenti, richiamava
al fronte a migliaia, di infetti o non infetti (cfr. la Repubblica-Bari, 15
febbraio 2015).
I soldati
vagheggiati dagli scrittori dell’epoca suscitavano fantasie infantili di
voluttuosa obbedienza meccanica, come i soldatini di piombo idoleggiati da
Paolo Buzzi. L’esercito come generatore di ordine. Più truculente le fantasie di pulizia etnica:
D’Annunzio in Laus vitae esaltava i
ginecei violati, dove sbattere come cuccioli i pargoli del grembo nemico, da
bruciare col fuoco finchè non rimanesse germe alcuno. Corrado Govoni in “Guerra!” promuoveva lo sfondamento della porta ostile,
l’impiccagione del proprietario, lo stupro della figlia e, se di gradimento, lo
sgozzamento della poveraccia. “E’ giunta
la razza assassina!”, proclamava Clemente
Rebora. La guerra come festa, sospensione delle regole nella vita
associata. Sono giunti i violenti e gli
eroi. Con ben altra sensibilità, in
tempi successivi, il grande Stanley
Kubrick avrebbe saputo rappresentare l’infame eruzione escrementizia, grondante negli Orizzonti
di gloria . All’epoca, la propaganda coinvolgeva già l’industria cinematografica italiana, che si
guardava bene dall’usare la griglia pulp e cannibalesca dei letterati citati.
Si privilegiava invece un registro sdrammatizzante e macchiettista, come
il Maciste
alpino del 1916, con il forzuto
Bartolomeo Pagano che fronteggiava gli austroungarici a suon di ceffoni e frasi
sentenziose. Nella realtà incombevano le
psicopatologie, punite come
insubordinazioni o autolesionismi. La esperienza bellica avrebbe coinvolto
potentemente l’arte cinematografica, ma
anche la pittura. Picasso, scampato in
quanto spagnolo al grande scannatoio,
passeggiando per Parigi si
accorgeva che anche il cubismo era finito
in prima linea, modello per il
camuffamento di convogli militari in assetto mimetico. In realtà c’era un esercito di artisti in
divisa, di pittori soldati: partivano cantando per il fronte e finivano a
correre nel fuoco, con un blocco di disegni in tasca.
“Sarei dunque
io il solo vigliacco sulla terra?... Perduto in mezzo a due milioni di pazzi eroici e scatenati e
armati fino ai denti? Con elmetti, senza elmetti, senza cavalli, su
moto, urlanti, in auto, fischianti,
sparacchianti, cospiranti, volanti, in
ginocchio, scavanti, defilanti, caracollanti sui sentieri, spetazzanti,
schiacciati pancia a terra, come in una cella d’isolamento, per distruggere
tutto, Germania, Francia e Continenti, tutto quello che respira, distruggere, più arrabbiati dei cani”… (Louis-Ferdinand
Céline).
Cadorna dixit:
“Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i
recalcitranti e i vigliacchi. Chi retrocede sarà raggiunto dal piombo delle
linee retrostanti e dai carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle
truppe”. Il soldato voleva finire la
guerra sparandosi a una mano o ad un piede o ad un orecchio. Peggio: gocce di
acido muriatico nelle orecchie, timpani forati con chiodi, iniezioni di petrolio nella spina
dorsale. Le punizioni erano
terroristiche. “Hanno cominciato a fucilare i soldati semplici per tirargli su
il morale, a drappelli interi”… ‘Sto ragazzo è un anarchico, bisogna
fucilarlo…altri più pazienti asserivano che ero soltanto sifilitico e folle
autentico e di conseguenza andavo rinchiuso”,
scriveva il francese Céline.
“Nostra patria è il mondo intero, nostra fede è la libertà”,
aveva cantato l’anarchico Pietro Gori,
con i suoi cavalieri erranti.
“Andrem di terra in terra / a predicar la pace / e a bandir la guerra”…
***
L’insubordinazione collettiva determinava il ricorso all’odiosa pratica
della decimazione, che consisteva nel fucilare un certo numero di soldati,
estratti a sorte dal gruppo all’interno del quale si erano manifestati i
disordini. Un soldato protestava la sua assenza durante la trista giornata, ma
il colonnello replicava paternamente: “non possiamo cercare quelli che c’erano
e quelli che non c’erano. Se tu sei innocente, Dio ne terrà conto”. Fuoco tambureggiante, fuoco d’interdizione,
cortina di fuoco, bombarde, gas, tanks,
mitragliatrici, bombe a mano: sono parole, ma abbracciano tutto l’orrore del
mondo, scriveva E. M. Remarque.
La carne da
cannone impazziva. Circa 40.000 soldati erano in preda delle allucinazioni. Si
rifugiavano nella follia come ultima via
di fuga: colpiti da disturbi mentali, dopo una troppo lunga permanenza al
fronte o per aver subìto violenti bombardamenti. Anche nei loro confronti si esercitava il
dubbio della simulazione. “Muoiono
gelati a centinaia. Vi sono truppe allo
scoperto, sotto il tiro del cannone
nemico e si vuole che avanzino” (da una lettera di un generale dissidente a
Giolitti, 1915). Assalti alla baionetta
contro le mitragliatrici. In un solo colpo morivano a migliaia, sotto lo
sguardo, sovente esaltato, dei generali posti a distanza di sicurezza. Nelle trincee sul Carso gli uomini vivevano
nel gelo e nel fango, nel puzzo dei loro escrementi, come pidocchi nella
cucitura d’una fodera, scriveva Robert Musil.
Non
potevano sentire una parola di ciò che dicevamo
Quando fingevamo di essere morti
Bricks Are
Heavy (1992)
La dura realtà
trapelava dalle scritture di guerra: lettere, messaggi, dediche, pagine di
diario e anche canti di trincea. Gorizia tu sei maledetta, cantavano i
soldati che in un solo giorno avevano visto cadere 21.630 morti. Si arrivava
alla follia rievocata da Nuto Revelli: “I nostri ci bombardavano per farci
uscire dalla trincea, per spingerci all’assalto…ne sono morti a migliaia”. Nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917, a
Redipuglia: tumulto bloccato da
squadroni di cavalleria, mitragliatrici e cannoni, 2 ufficiali uccisi, altri feriti, passati per le armi 28 soldati, di cui 12 per
decimazione. Il memoriale del generale Tommasi non venne mai reso noto.
“Il fronte
italiano non lo spezza nessuno, dichiarava Cadorna”; i lhan
spezà cun nienti…” raccontavano i soldati. Il momento della verità
doveva giungere a Caporetto (24 ottobre 1917). Disastro speculare col futuro otto settembre
del ’43. In ambedue i casi la mattanza
avrebbe travolto un popolo di
sbandati o in fuga, come nei film La grande guerra di Monicelli e il Tutti a
casa di Comencini. Come contraltare la pochezza professionale e
intellettuale degli alti comandi, paralizzati dalla sorpresa, con quel Badoglio
che riusciva, dopo il fuggi fuggi, a rimediare anche una medaglia d’argento:
“una brutta medaglia” avrebbe commentato Ferruccio Parri. Una pezza peggiore
del buco .
Come ha
acutamente sottolineato Mario Silvestri, l’anniversario di Caporetto nel 1997
ha suscitato più curiosità e interesse
dello stesso anniversario di Vittorio Veneto nel ’98: “Come se la disfatta
potesse spiegare più cose della vittoria” . Da quel grande calderone doveva
emergere la mitologia della “vittoria mutilata”, il grimaldello che il
protofascismo avrebbe utilizzato per la conquista del potere. Destra, sinistra
e centro non avevano perso le occasioni per saltare sul “treno della guerra”,
considerata un benefico “velocizzatore”
della storia.
Restava la vera
epopea, quella guerra grande affrontata da
contadini, artigiani, operai, immersi nelle trincee: scavate all’inizio come rifugi provvisori,
diventavano le anticamere certe della morte.
Quando i capi spedivano i soldati all’assalto, sapevano che sarebbero
stati falciati dalle mitragliatrici nemiche,
per poi finire nel mucchio della carne perduta. Un evento epocale che
sconvolgeva la vita quotidiana di milioni di persone: doveva certo colpire la sua “grandiosità e spettacolarità,
nella smisurata capacità di
annientamento. Quella tragedia ci ammonisce in perpetuo: ci ricorda che se si
inventa una nuova arma, prima o poi qualcuno la userà al massimo del suo
potenziale (Lara Crinò). La modernità aveva regalato ai combattenti il
nemico invisibile, la “nube tossica” del fosgene (originariamente usato per la
colorazione dei tessuti con cloro e fosforo) e la yprite , cloro e zolfo con un
particolare odore di mostarda. Il liquido sparso sul terreno provocava nella
trincea ulcerazioni polmonari. Il fante
italiano poteva difendersi solo con un pezzo di pane bagnato in bocca, e il fazzoletto. Nel luglio del 1916 un
bersagliere poteva essere legato ai reticolati per tutta una notte. Giusto per
ricordare il simbolo più duraturo del
Novecento: il filo spinato.
“Se tu potessi
sentire / ad ogni sobbalzo / il sangue che arriva / come un gargarismo dai
polmoni rosi dal gas / tu non
diresti con tale profondo entusiasmo / ai figli desiderosi di una qualche
disperata gloria / la vecchia bugia: dulce et decorum est pro patria mori. Wilfred Owen 1917. Soldato inglese, morto per “fuoco amico” pochi giorni prima
della fine della guerra.
I piloti delle
Squadriglie di bombardieri Caproni sul fronte italiano, dovevano essere decisivi nella battaglia di
Vittorio Veneto. Ma Pietro Larigiola poteva testimoniare della fame e dei
lavori forzati nel, già allora
tristemente noto, campo di Mauthausen. Anche sul fronte italiano i piedi si
congelavano e i sottufficiali costruivano il regno del terrore. Con il
protrarsi del conflitto, i messaggi alle
famiglie raccontavano solo della nuda
vita nella trincea, la vita che vuole
ancora vivere. Un contadino scriveva con
semplicità alla moglie: “Si vede proprio che questa guerra non ha fine”.
Offensive inutili e diserzioni disperate.
La guerra non era una festa e alcuni artisti e letterati come Ardengo
Soffici e Massimo Bontempelli avrebbero testimoniato quanto fosse stata
sventata la loro generosa giovinezza
(Cesare De Seta).
Il paradigma
della “guerra di posizione , come tutti sanno,
sarebbe stato in seguito proposto
da Antonio Gramsci ai comunisti italiani
, come un modello di strategia rivoluzionaria:
per i proletari un poco gioioso assalto al cielo, una Stairway to heaven al ritmo della
tradotta e del Ta pum, Ta pum. Un ritornello ispirato al rumore dei
minatori nelle gallerie e agli spari della fucileria austro-ungarica. Intanto nell’agosto 1917, a Torino,
contro gli speculatori e i cosiddetti “pescicani”, che si ingrassavano con la guerra, esplodeva
una protesta spontanea che doveva
essere repressa con 41 morti e una lunga serie di dure condanne da parte dei
tribunali militari. L’unica legge
era quella marziale, la guerra faceva
strame dei diritti, la fabbrica taylorista costruiva l’operaio-soldato
perfetto: un “pezzo” da montare, l’ ironman
vagheggiato da Marinetti.
E
quando ebbe attraversato il ponte,
gli si fecero incontro i fantasmi
Nosferatu
(1922)
***
Onore al sindaco
Edimiro Della Pietra che, rischiando una
denuncia di apologia di reato, ha elevato un monumento a Cercivento, campo di
fucilati. I soldati della zona, che conoscevano quel terreno palmo a palmo
, si rifiutavano per missioni
evidentemente suicide. Quando i comandi decisero un attacco in pieno
giorno, senza supporto di artiglieria,
alcuni soldati suggerivano di compiere l’assalto col favore della notte e
questo bastava per la corte marziale. Nel processo notturno gli accusati erano
decine e ciascuno aveva nove minuti per l’autodifesa. Un’ora prima dell’alba, la sentenza e la
fucilazione. Tre scariche e tre colpi di pistola alla testa. Erano emigranti
dalla Germania che avevano scelto di rientrare per “servire la patria”.
L’intero
reparto veniva trasferito per punizione.
Dopo 70 anni il nipote del fucilato Gaetano Ortis , “recalcitrante e
vigliacco”, chiedeva la revisione del
processo, ma il tribunale di Roma rispondeva beffardamente: la domanda non
poteva essere accettata, perché non presentata dall’interessato. Paolo Rumiz ha ricordato quell’Andrea Graziani,
noto per avere fucilato un soldatino che lo aveva guardato con la cicca in bocca. A guerra finita qualcuno avrebbe trovato
il Graziani morto lungo la
ferrovia. Mentre la febbre “Spagnola”
provocava 500.000 morti, la riorganizzazione dell’esercito operata da Armando
Diaz e l’ultima leva dei “ragazzi del ’99 consentivano di scatenare contro gli
austriaci una serie di offensive sul Piave che dovevano culminare nello scontro
finale di Vittorio Veneto. Il 9 novembre
1918, per le molteplici ferite, si
spegneva a Parigi il poeta Guillaume Apollinaire, che nel suo epitaffio aveva
scritto: “Io lego all’avvenire la storia di Apollinaire, che fu alla guerra e sembrava essere ovunque”. Ungaretti , nel tripudio parigino della fine
del conflitto, si affrettava a recapitare
al caro amico Guillaime i suoi sigari preferiti, ma lo trovava ormai morto nel
suo letto.
Sui muri si
scriveva: “Dietro al ponte c’è un cimitero,
cimitero di noi soldà”…
Madremorte
Il
protagonista del romanzo autobiografico di Erich M. Remarque cadeva
nell’ottobre 1918. Veniva ritrovato con la faccia sul terreno, come se
dormisse. Aveva una espressione serena, come fosse contento di finire così. Era
una giornata così calma e silenziosa , che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: Niente
di nuovo sul fronte occidentale. Rimane il titolo più famoso su quella
“notte di uomini”. La “vittoria
assassina” (V. Majakovskij) era l’incubatrice de L’uovo
del serpente (Ingmar Bergman).
Ormai l’Europa, inquieta e impoverita, era
assuefatta al contatto quotidiano con la morte di massa. Inarrestabile
era ormai l’escalation del warfare tecnologico. I trattati di pace dovevano essere altre micce, pronte ad
esplodere nel turbolento dopoguerra. La prima guerra mondiale era di fatto
l’origine della “guerra civile europea”
che sarebbe durata trent’anni, come ebbe a scrivere J. Hobsbawm. Il vignettista Scalarini, alla vigilia di
Natale del 1920 pubblicava sull’ “Avanti !”
l’immagine di una Madremorte, la guerra, che si
apprestava a depositare il proprio
figlio, il fascismo, nella mangiatoia
del capitalismo. I diari di guerra di Gadda possono essere considerati il
podromo dell’Italia malata di fascismo perenne.
Testi di riferimento:
Italo Pietra, Non scappi, c’è una medaglia per lei! ,
in “l’Espresso”, 23 dicembre 1977
Maurizio Bettini, Quel filo spinato che segna il ‘900, in
“la Repubblica”, 20 agosto 2005
Antonio Gibelli, La grande guerra. Storie di gente comune, Laterza, Bari, 2014
Emilio Gentile, Due colpi di pistola, dieci milioni di
morti, la fine di un mondo, Laterza, Bari, 2014
Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il
Mulino, Bologna, 2014
Gian Enrico Rusconi, 1914:attacco
a occidente, Il Mulino, Bologna 2014
Angelo Gatti, Caporetto-Diario di guerra, Il Mulino, Bologna, 2014
Aldo Cazzullo, La guerra
dei nostri nonni, Mondadori, 2014
Paolo Rumiz, L’ultima ferita della Grande Guerra:
l’Italia riabiliti i militari fucilati, in “la Repubblica”, 31 ottobre
2014.
Erich M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale,
1929
Louis-Ferdinand Cèline, Viaggio
al termine della notte, Roma , 1932
Filmografia italiana:
Maggi e Borgnetto, Maciste alpino,1916
Mario Monicelli, La grande guerra, 1959, censurato e
vietato ai minori
Vittorio Cottafavi, La trincea, 1961
Sergio Corbucci, Il giorno più corto, 1963
Ermanno Olmi, I recuperanti, 1970
Alfredo Giannetti, La sciantosa. Il soldatino e la soubrette,
1970
Francesco Rosi, Uomini contro, 1971
Pasquale Festa Campanile,
Porca vacca, 1982
Leonardo Tiberi, Fango e gloria. La Grande guerra, 2014
Ermanno Olmi, Torneranno i prati, 2015
Paolo Cevoli, Soldato semplice, 2015
Prima del film di Monicelli,
la Grande Guerra non esisteva per il cinema italiano. Quarant’anni erano
trascorsi dalla fine del conflitto ’15-‘18, senza lasciare un solo titolo degno
di ricordo. E ciò mentre gli stranieri avevano allineato una bella serie di
capolavori: da Charlot soldato del
1918 a Orizzonti di gloria di Kubrick
del 1957. Doveva toccare al maestro della commedia all’italiana, in una
situazione politica alle soglie di un tentativo autoritario del governo
Tambroni, di restituire al fante
tremebondo l’onore del sacrificio estremo, ovviamente misconosciuto. L’eroe
senza nome della “guerra nel fango”.
Roberto Nistri, 12 maggio 2015
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