lunedì 22 aprile 2013

Vuoti a perdere


VUOTI A PERDERE

© Roberto Nistri 2013-04-21. Tutti i diritti sono riservati


MARINETTI: NEOCARNE NOVECENTO

Così il regista Carlo Ludovico Bragaglia ricordava il Futurista che avrebbe fatto  “innervosire” il ‘900: “Marinetti? Un ometto piccolo piccolo, dimesso, sempre con la sua bombetta dura in testa, quasi la caricatura del borghesuccio. Una pecora che, però, riuscì a ruggire come un leone”. Con
alterne fortune, fra ostracismi e rivalutazioni, la vecchia pecora continua a ruggire anche in questo inizio di millennio, così povero di avanguardie. Particolarmente felice l’omaggio riservatogli dal
pittore Pablo Echaurren: un fumetto intitolato Caffeina d’Europa, con Marinetti che si racconta in prima persona attraverso le sue parole e i suoi scritti. “Marinetti è stato il più grande tra gli intellettuali del Novecento, un ‘pre-punk” che ha tolto l’arte alla casta degli artisti e dei critici, e l’ha messa a disposizione di tutti”,  spiega Echaurren. E’ fuori di dubbio che quello Sturm und Drang abbia promosso la “libera uscita” dell’arte come uso di massa (ancora oggi quanti abiti e
t-shirt derivano dall’estro di Giacomo Balla?) promuovendo l’estetizzazione del quotidiano e un nuovo tipo di sovversione, l’insurrezione tramite i segni. Pablo, l’illustratore del ’77 bolognese e delle tribù metropolitane, assisteva al trionfi del paroliberismo: potere dromedario, più sacrifici meno dentifrici, più chiese meno case, siamo belli siamo tanti siamo covi saltellanti… Per inciso, non risulta un solo esempio di questa eredità futurista/dadaista nell’attrezzatura comunicativa
della Destra, giovanile o senile che sia.
     I fascisti amavano poco o niente Marinetti, soprattutto quando si incaponiva nel  voler integrare

martedì 2 aprile 2013

Glorie di Terronia


Glorie di Terronia
di Roberto Nistri



© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa

Ci sembra di cogliere, nella nuova o nuovissima  “Voce del Popolo”, alcuni smarcatori culturali
rispetto alla linea del giornale dei Rizzo di cui si è voluto riprendere l’onorata testata: facciamo
riferimento alle due pagine curate da Raffaele Conte, C’era una volta a Taranto l’Università
dei Terroni, arricchite da una foto - abbastanza fuori tema - di Mussolini con le stampelle.
Si tratta di un’intervista a Maria Carmela Bonelli, ricercatrice di storia ginosina, che ricorda con affetto la figura dello zio Francesco Paolo Buonsanti, “noto fascista” nonché “chirurgo in ortopedia e stimatissimo intellettuale”, che si trovò a dirigere, con sovrano sprezzo del ridicolo e del buon senso, l’Accademia dei Terroni nella sua fase terminale, dopo la paranoica gestione Di Napoli.
Antonio Rizzo che, sulla vecchia “Voce”, ebbe a ridicolizzare ferocemente il miserabilismo culturale  della detta Accademia, non avrebbe mai potuto immaginare che oltre cinquanta anni dopo,sotto la stessa testata, la storica Bonelli potesse elogiare “una Istituzione che investiva in pieno la Questione meridionale imperniata sull’applicazione di un criterio di giustizia distributiva nel campo delle lettere, delle scienze e delle arti” (un criterio quanto mai oscuro e scriteriato,  avrebbe chiosato Rizzo). E’ l’aria che tira: la marcia del gambero, indietro tutta!

Nel periodo in cui un grande meridionale come Elio Vittorini dirigeva a Milano “Il Politecnico”, la più innovativa rivista del dopoguerra, a Taranto toccava in sorte l’Accademia dei Terroni: “il termine acquisiva un significato di nobiltà, quasi un valore onorifico per tutti coloro che – per stessa affermazione dei soci – fossero al di sotto di quella linea gotica, voluta e potenziata da politici ed industriali del Nord, che aveva diviso gli Italiani in Terroni e Polentoni” (storica Bonelli dixit). Rivista del sodalizio era “Valigia del Sud”, trasformatasi nel 1952 in “Il Carroccio del Sud”.   L’Ente è stato  istituito per difendere “tutti i valori dello spirito dei Terroni” e propugnare, come si legge nell’art.1 dello Statuto, la “giustizia distributiva” di cui sopra. L’Associazione si propone di far sorgere filiali anche al Nord e persino “a New York, Parigi, Londra, ecc.” (art. 3). Ma nessuno può farne parte se non attesta di essere “Terrone per nascita, per sangue o di adozione da almeno 10 anni” (art. 4). Si farà opera di promozione presso riviste e case editrici per pubblicazioni degli Accademici e “ le persone che si saranno distinte per comprensione e vero spirito di fratellanza e di giustizia verso i nostri Terroni, saranno additati agli italiani quali Cavalieri dello Spirito” (art.6). Naturalmente “la religione ufficiale dell’Accademia è la Cattolica” (art.13).

Il servizio di Conte offre anche una bella foto del pool di cervelli dell’Accademia, tutti giustamente
innominati, considerando che il comando assoluto dell’organizzazione è nelle mani dello scrittore Franco Di Napoli, un grafomane autore dell’antologia Taranto che scrive, giudicata da Piero Mandrillo “un agglomerato impossibile ed indigesto”. In un delirio di onnipotenza, nel nuovo statuto del 1950, il Di Napoli si arroga il diritto di trasferire la Sede in qualunque altra città, di sciogliere e di ricomporre qualsiasi organo dell’Università, sostituire qualsiasi carica, deliberare l’ammissione e la radiazione dei soci, con giudizio inappellabile (art.11). Nello stesso articolo si legge che il Di Napoli “è nominato a vita e designa il suo successore”. I suoi poteri, commentava Antonio Rizzo, “eccedono di gran lunga quelli di tutti i capi di stato viventi, nonché quelli di tutti i tiranni passati e presenti, da Caligola a Stalin” (“Voce del Popolo”, 25 novembre 1950). Mentre il Presidente della Repubblica può nominare 5 senatori a vita, il Fondatore-Direttore autorizza se stesso a nominare 25 senatori accademici a vita, e per anni rilascia e revoca titoli di Libero Docente, Cavaliere dello Spirito et similia, convalidati da un timbro tondo: Università dei Terroni – Taranto – Magna Grecia – Trinacria. Produzione culturale? Zero assoluto.

Che dire di queste storie di ordinaria follia in terra jonica ? Parce sepulto. Se poi l’ondata trash del delirio leghista-federalista dovesse riportare in auge simili pappolate, si spera che almeno non venga coinvolta l’onorata testata della “Voce del Popolo”.

lunedì 1 aprile 2013

Terra del grano, terra della vigna


TERRA DEL GRANO, TERRA DELLA VIGNA
Il circondario di Taranto dalla crisi protezionistica all’inchiesta di Errico Presutti (1887-1909)
di Roberto Nistri



© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa

1. Le zone dei granai

            Nella sua relazione del 1909 (1) il delegato tecnico Errico Presutti articolava opportunamente la sua analisi del circondario di Taranto distinguendo due zone: il Mezzogiorno del grano e il Mezzogiorno degli alberi (nei borghi rurali era presente anche una protoindustria casalinga che lavorava la materia prima del territorio: lino, canapa, lana, cotone). La prima zona, a nord-ovest di Taranto, si presentava come “granifera” ed era la continuazione di quella lunga striscia di territorio che cominciava sull’Adriatico, in Abruzzo, estendendosi su tutta la parte centrale della provincia di Foggia, sulla parte occidentale della provincia di Bari, per finire sulla costa settentrionale dello Jonio. Tale zona del circondario (la Provincia di Taranto doveva essere costituita solo nel 1923) comprendeva i comuni di Mottola, Castellaneta, Laterza, Massafra, Palagiano, Ginosa e Taranto. Ricorrevano tutti i caratteri propri della grande azienda granifera esistente nelle province di Foggia e di Bari:  centri abitati scarsi di numero ma popolosi, malaria diffusa, coltivazione prevalente di cereali.  Su un pulviscolo di piccolissime aziende provenienti dalla quotizzazione di antichi demani incombevano gigantesche concentrazioni terriere: “In questa plaga domina la grande proprietà, un solo proprietario possiede 9.500 ettari, un grande oliveto a Palagianello conta 13.000 piante, quello di proprietà della Casa Reale di Spagna a Ginosa si dice conti 35.000 alberi” (2). Era in genere modesta la coltura della vite, più ampia quella dell’ulivo.
            Per maggiore dinamicità si segnalava la produzione granaria, che già nel corso degli anni Settanta doveva misurarsi con la concorrenza dei grani americani: l’introduzione nella grande coltura delle prime macchine e di sistemi più razionali portava la conseguente crisi dei massari e dei piccoli affittuari, determinando un lento ma costante cambiamento nel sistema di gestione delle grandi aziende da una parte e dall’altra a una sensibile corrente di emigrazione transoceanica, indice della rovina progressiva e irreversibile dei piccoli fittuari e proprietari colpiti dalla concorrenza e troppo poveri per ammodernare i sistemi di coltivazione dei loro fondi: “Quelli che non hanno adottato sistemi più razionali di coltivazioni sono stati colpiti dalla crisi determinata dall’azione combinata di due fattori; la diminuita fertilità della terra spossata dalla antica rotazione; la concorrenza della grande coltura che, con l’uso delle macchine e di meno irrazionali sistemi di coltivazione, produce il grano con un costo di produzione minore”(3).
            Secondo le statistiche del Presutti, in tutti i comuni della zona in questione il prodotto lordo