Enzo Iacovino. Un poeta a Porta Napoli
di Roberto Nistri
Enzo Jacovino, tecnico dell’Enea, autore di un Manuale per la
preparazione e l’indagine metallografica, è un poeta del secolo scorso. Come lo scrivente,
proviene dall’era presiderurgica,
quando gli ulivi secolari erano i giganti della terra e il
cielo non era ancora tagliato dalle ziggurat di Ferropoli. La sua è stata l’ultima generazione che si è formata
nelle strade, povere di auto e ricche di biciclette: una razza di terramaricoli
ignudi che, appena messo il piede fuori di casa, già godevano del privilegio di
potersi tuffare fra le barche di
Mar Piccolo o dai pontili di Mar Grande. Chi frequentava gli stabilimenti su palafitte disposti alla Ringhiera poteva
immergersi, come un tigrotto della Malesia, attraverso strane botole lignee. Ci
si rinfrescava con il ghiaccio tritato, ‘u gratta-gratte, e i
racconti del barcaiolo mest’Ubalde
nutrivano malsane fantasie erotiche. Capitato a Taranto in occasione del Premio
del Mare, il giovane Pasolini ebbe a godere della brezza dello Jonio e, pur
rimettendoci il portafoglio, avrebbe serbatoper la città di Ebalo parole di
dolcezza.
Ma quale scrittore non è stato benevolo
nei confronti di “quella” Taranto? Poco prima dell’avvento della Grande
Ferriera, Guido Piovene così scriveva nel suo Viaggio in Italia: “Taranto è vivace e mossa; la sua vita stradale è
euforica; vi spira un’aria esilarante, stimolante, direi cantabile… Nonostante
i grandi edifici di gusto discutibile del tempo fascista e la loro falsa
grandezza, Taranto nuova è amabile, e la sua grazia naturale è più profonda e
più forte della retorica. Pulita, ben illuminata ed ariosa, è un esempio di
come una città possa essere bella anche se non contiene monumenti famosi…
Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e di molluschi, è uno
dei miei migliori ricordi italiani, e così nell’insieme il ricordo di Taranto,
città di mare tersa e lieve, tanto che passeggiandovi sembra di respirare a
tempo di musica”.
Questa musicalità della città bimare trova riscontro nell’ultimo
documento filmico della Taranto
pre-siderurgica: si tratta di Promesse di marinaio, un “musicarello” del 1958. Si canta nei titoli di
testa su un danzante lungomare di piazza Ebalia, si canta nei titoli di coda
sulla ringhiera della Città vecchia. E’ tutto un cantare dai dancing di un decoroso Borgo a quelli di una litoranea
incontaminata: una immagine di Taranto certo cartolinesca, ma non era fasulla quella linea del cielo
totalmente sgombra di ciminiere, con i suoi tramonti sperperati da Creso.
Nella Taranto di Jacovino non v’è esuberanza di canti e balli. La città
della sua memoria è il luogo della comunanza ma soprattutto del raccoglimento,
il suono privilegiato è quello che si percepisce accostando all’orecchio quelle
grandi conchiglie che c’erano una volta: il silenzio del mare che avvolge il
limitato spazio di un piccolo quartiere, quelle “quattro pietre” che la
speculazione edilizia ha sempre tenuto in gran dispetto. Jacovino è il cantore del caseggiato e
delle “quattro pietre”: “C’era stato in principio il caseggiato / e piazzale
Democrito aperto sul mare / e a ogni arrivo dal mare: venti, / spiriti erranti,
/ rifugio di amanti clandestini / di strambi gitanti”. Enzo appartiene alla
generazione del libro, nessuno mai come quei ragazzi che avrebbero fatto il
’68, ha creduto nel libro: “ la pelle, kaput / tamburo di latta, il falò / il
giovane Holden / Fenoglio, Hemingway e altri nunzi di quel sapere / che tentava
di saziare la fame di utopie”.
I libri e le creature del mare, questo bastava per ascoltare il vento
delle terre lontane:
“C’erano compagni fedeli: il mare / stormi di gabbiani / e
salsi pescatori / che il mattino snidava dalle nebbie dell’alba”. Sul fare
della sera, la piccola città si raccoglieva sul piazzale: “ Le luminarie del
ponte Sant’Egidio / adescavano in quegli scorci estivi / zanzare, falene e
riflessi marini / mentre il cielo, punteggiato di lumi / mosso dall’afa
scivolava sui tetti / e sul grigio asfalto. Sul piazzale / il tempo appariva
immobile”. Poi avvenne la grande mutazione: “Un giorno implacabili dinosauri di
ferro / macchine del progresso / sradicarono dal suolo muri e radici / e gli
uomini fuggirono altrove…/ Ora cani randagi / e sporadiche macchine occupano /
la chiazza dì asfalto rosicchiando / manciate di vissuto / di parole trafugate
da antichi libri / e dei primi furtivi amori”.
Scrittore della memoria è Vincenzo, ma in fondo ogni scrittura
presuppone l’assenza: Platone incominciò a scrivere a partire dalla morte di
Socrate, l’invio di messaggi rimpiazza il soliloquio dell’anima con se stessa.
Ma si fa presto a dire “memoria”! Le cose scompaiono anche se sono sempre allo
stesso posto: “Il ponte Sant’Egidio è sempre lì / che ancor si protende, sui
diafani / spicchi di luna sorgenti sul mare, / con il suo carico di passi e il
peso / di volventi e sfibrati pneumatici. / Di notte la musica stridula del
vento / suona fra le arcate di pietra / e la ringhiera di ferro e cemento /
alonato dalla luce gialla dei lampioni. / Tutto è uguale e tutto è nuovo…” La
memoria è un altrove che avvolge il presente, ricordare è un’attività senza
fissa dimora, la scrittura si rivolge ad un luogo che non c’è e dove pure
c’illudiamo di tornare: “Più non ci appartiene questo luogo / ancor meno di
quello dove si è andati / o si vuol andare / errabondi”.
Jacovino fa parte a sé. Non appartiene alla mala genìa dei poeti
municipal-popolari, devoti cantori di pettole e settimanesante. E’ distante
anni-luce dalla folta e brillante schiera dei “nuovissimi” specialisti dell’hard
boiled , che giustamente se ne fottono
della Taranto che fu e si fanno largo nel mercato culturale offrendo
un’appetitosa Taranto-Gomorra o Poisonville (la città dei veleni, così ribattezzata da Giancarlo
De Cataldo) “l’osservatorio privilegiato, il paradigma sociale e antropologico
utile a capire anche ciò che accade nel resto della penisola” (C. Raimo).
Enzo Jacovino ,
autarchico impenitente, è solo il portiere solitario di un caseggiato dove non
abita più nessuno, a tratti visitato da un gabbiano antropomorfo e psicopompo.
Continua a raccontare di Porta Napoli e del Natale di ieri “con l’odore di
ruggine dei cantieri / di muschio di salsedine / e il freddo sole che
imbiancava / le fradice tavole dei pescherecci / resistenti ai marosi e ai
malanni. / Quanto più fascino aveva / quella luce avara e ragionevole / che
suadente s’insinuava nelle case / espandendosi dentro blocchi di luce / per
rampe e pianerottoli”. A modo suo Jacovino persegue uno scopo non difforme da
quello che animava la pittura di di Edward Hopper, che ebbe a dichiarare:
“Tutto quello che ho sempre voluto fare è dipingere la luce del sole sulla
parete di una casa”.
Roberto Nistri
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