giovedì 5 settembre 2013

Enzo Iacovino. Un poeta a Porta Napoli


Enzo Iacovino. Un poeta a Porta Napoli

di Roberto Nistri

Enzo Jacovino, tecnico dell’Enea, autore di un Manuale per la preparazione e l’indagine metallografica, è un poeta del secolo scorso. Come lo scrivente, proviene dall’era presiderurgica,
quando gli ulivi secolari erano i giganti della terra e il cielo non era ancora tagliato dalle ziggurat di Ferropoli. La sua è stata l’ultima generazione che si è formata nelle strade, povere di auto e ricche di biciclette: una razza di terramaricoli ignudi che, appena messo il piede fuori di casa, già godevano del privilegio di potersi tuffare  fra le barche di Mar Piccolo o dai pontili di Mar Grande. Chi  frequentava gli stabilimenti su palafitte  disposti alla Ringhiera poteva immergersi, come un tigrotto della Malesia, attraverso strane botole lignee. Ci si rinfrescava con il ghiaccio tritato, ‘u gratta-gratte, e i racconti del barcaiolo mest’Ubalde nutrivano malsane fantasie erotiche. Capitato a Taranto in occasione del Premio del Mare, il giovane Pasolini ebbe a godere della brezza dello Jonio e, pur rimettendoci il portafoglio, avrebbe serbatoper la città di Ebalo parole di dolcezza.

     Ma quale scrittore non è stato benevolo nei confronti di “quella” Taranto? Poco prima dell’avvento della Grande Ferriera, Guido Piovene così scriveva nel suo Viaggio in Italia: “Taranto è vivace e mossa; la sua vita stradale è euforica; vi spira un’aria esilarante, stimolante, direi cantabile… Nonostante i grandi edifici di gusto discutibile del tempo fascista e la loro falsa grandezza, Taranto nuova è amabile, e la sua grazia naturale è più profonda e più forte della retorica. Pulita, ben illuminata ed ariosa, è un esempio di come una città possa essere bella anche se non contiene monumenti famosi… Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e di molluschi, è uno dei miei migliori ricordi italiani, e così nell’insieme il ricordo di Taranto, città di mare tersa e lieve, tanto che passeggiandovi sembra di respirare a tempo di musica”.

     Questa musicalità della città bimare trova riscontro nell’ultimo documento filmico della Taranto
pre-siderurgica: si tratta di Promesse di marinaio, un “musicarello” del 1958. Si canta nei titoli di testa su un danzante lungomare di piazza Ebalia, si canta nei titoli di coda sulla ringhiera della Città vecchia. E’ tutto un cantare dai dancing di un decoroso Borgo a quelli di una litoranea incontaminata: una immagine di Taranto certo cartolinesca, ma non era  fasulla quella linea del cielo totalmente sgombra di ciminiere, con i suoi tramonti sperperati da Creso.

     Nella Taranto di Jacovino non v’è esuberanza di canti e balli. La città della sua memoria è il luogo della comunanza ma soprattutto del raccoglimento, il suono privilegiato è quello che si percepisce accostando all’orecchio quelle grandi conchiglie che c’erano una volta: il silenzio del mare che avvolge il limitato spazio di un piccolo quartiere, quelle “quattro pietre” che la speculazione edilizia ha sempre tenuto in gran dispetto.  Jacovino è il cantore del caseggiato e delle “quattro pietre”: “C’era stato in principio il caseggiato / e piazzale Democrito aperto sul mare / e a ogni arrivo dal mare: venti, / spiriti erranti, / rifugio di amanti clandestini / di strambi gitanti”. Enzo appartiene alla generazione del libro, nessuno mai come quei ragazzi che avrebbero fatto il ’68, ha creduto nel libro: “ la pelle, kaput / tamburo di latta, il falò / il giovane Holden / Fenoglio, Hemingway e altri nunzi di quel sapere / che tentava di saziare la fame di utopie”.

     I libri e le creature del mare, questo bastava per ascoltare il vento delle terre lontane:
“C’erano compagni fedeli: il mare / stormi di gabbiani / e salsi pescatori / che il mattino snidava dalle nebbie dell’alba”. Sul fare della sera, la piccola città si raccoglieva sul piazzale: “ Le luminarie del ponte Sant’Egidio / adescavano in quegli scorci estivi / zanzare, falene e riflessi marini / mentre il cielo, punteggiato di lumi / mosso dall’afa scivolava sui tetti / e sul grigio asfalto. Sul piazzale / il tempo appariva immobile”. Poi avvenne la grande mutazione: “Un giorno implacabili dinosauri di ferro / macchine del progresso / sradicarono dal suolo muri e radici / e gli uomini fuggirono altrove…/ Ora cani randagi / e sporadiche macchine occupano / la chiazza dì asfalto rosicchiando / manciate di vissuto / di parole trafugate da antichi libri / e dei primi furtivi amori”.

     Scrittore della memoria è Vincenzo, ma in fondo ogni scrittura presuppone l’assenza: Platone incominciò a scrivere a partire dalla morte di Socrate, l’invio di messaggi rimpiazza il soliloquio dell’anima con se stessa. Ma si fa presto a dire “memoria”! Le cose scompaiono anche se sono sempre allo stesso posto: “Il ponte Sant’Egidio è sempre lì / che ancor si protende, sui diafani / spicchi di luna sorgenti sul mare, / con il suo carico di passi e il peso / di volventi e sfibrati pneumatici. / Di notte la musica stridula del vento / suona fra le arcate di pietra / e la ringhiera di ferro e cemento / alonato dalla luce gialla dei lampioni. / Tutto è uguale e tutto è nuovo…” La memoria è un altrove che avvolge il presente, ricordare è un’attività senza fissa dimora, la scrittura si rivolge ad un luogo che non c’è e dove pure c’illudiamo di tornare: “Più non ci appartiene questo luogo / ancor meno di quello dove si è andati / o si vuol andare / errabondi”.

     Jacovino fa parte a sé. Non appartiene alla mala genìa dei poeti municipal-popolari, devoti cantori di pettole e settimanesante. E’ distante anni-luce dalla folta e brillante schiera dei “nuovissimi” specialisti dell’hard boiled , che giustamente se ne fottono della Taranto che fu e si fanno largo nel mercato culturale offrendo un’appetitosa Taranto-Gomorra o Poisonville (la città dei veleni, così ribattezzata da Giancarlo De Cataldo) “l’osservatorio privilegiato, il paradigma sociale e antropologico utile a capire anche ciò che accade nel resto della penisola” (C. Raimo).
 Enzo Jacovino , autarchico impenitente, è solo il portiere solitario di un caseggiato dove non abita più nessuno, a tratti visitato da un gabbiano antropomorfo e psicopompo. Continua a raccontare di Porta Napoli e del Natale di ieri “con l’odore di ruggine dei cantieri / di muschio di salsedine / e il freddo sole che imbiancava / le fradice tavole dei pescherecci / resistenti ai marosi e ai malanni. / Quanto più fascino aveva / quella luce avara e ragionevole / che suadente s’insinuava nelle case / espandendosi dentro blocchi di luce / per rampe e pianerottoli”. A modo suo Jacovino persegue uno scopo non difforme da quello che animava la pittura di di Edward Hopper, che ebbe a dichiarare: “Tutto quello che ho sempre voluto fare è dipingere la luce del sole sulla parete di una casa”.

Roberto Nistri

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