Roberto Nistri
Taranto nella Grande
Guerra e il suo monumento ai caduti
© Roberto Nistri 2015. Tutti i diritti sono riservati.
Introduzione al
contesto cittadino
A partire dalla fine dell’Ottocento, con la decisione presa
dal Parlamento italiano, sulla installazione dell’Arsenale militare marittimo,
la città jonica veniva progressivamente ed inesorabilmente militarizzata. La
vistosa presenza dell’insediamento industriale modificava le coste, le
altimetrie del suolo, divorando masserie, chiese e ville signorili - tra cui la
sublime villa Capecelatro, modificando inesorabilmente la facies della Antiquissima Urbs. Venivano ordinate le direttrici di
una impetuosa crescita demografica. Nel periodo immediatamente precedente
l’entrata in guerra, la sua struttura industriale veniva ad essere
cospicuamente amplificata dalla installazione dei Cantieri Navali “Franco Tosi”
sulla spiaggia a Nord del Mar Piccolo: una Società di Legnano con strutture di
ben altro rilievo rispetto ai modesti cantieri Frontini (1903-1906) e Salerni
(1906-1915). Nel 1898 l’Arsenale varava la sua prima unità di guerra: la nave”
Puglia”, la cui prua sarebbe stata in seguito donata al poeta D’Annunzio, che
l’avrebbe sistemata all’interno del suo Vittoriale.
Nel 1915 veniva portata a termine la costruzione del primo
sommergibile. Il 4 giugno 1916 dallo scalo improvvisato sul quale era stata
impostata cinque mesi prima, veniva inaugurata alla presenza del Duca degli
Abruzzi, la prima nave interamente costruita nello stabilimento: il
rimorchiatore “Villa Cortese”. Erano anni quelli in cui lo slancio e il fervore
militare andavano di pari passo con quello nazionalista. A Taranto, prima che
in altre città, già nel novembre 1914, si registravano scontri fra nazionalisti
e socialisti. Alcuni incidenti preoccupanti si verificavano il 15 febbraio
1915, quando alcuni giovani nazionalisti protestavano contro il Consolato
germanico, provocando una contromanifestazione di neutralisti, che doveva
sfociare in tafferugli e arresti.
La città si preparava alla guerra. Il 30 ottobre, durante le
imponenti esercitazioni navali alla presenza del sovrano, lo scoppio prematuro
di una granata causava la morte di un guardiamarina e quattro uomini
dell’equipaggio.
Presso le classi
subalterne e soprattutto nel contado, non si registravano segnali di grande
esaltazione. I socialisti organizzavano affollati comizi, come quelli tenuti
nel mese di febbraio dall’on. Campanozzi a Taranto e in alcuni paesi del
circondario, ma non si impegnavano più di tanto. Comprensibilmente il “blocco
d’ordine” non incontrava difficoltà nel coagulare attorno a Salandra una
volontà di potenza che era tutta ricchezza per una monocultura navalmeccanica
che purtroppo ristagnava in periodo di pace e godeva invece di tutte le
sovvenzioni possibili, quando giungeva l’eco dei tamburi di guerra. In effetti
si sarebbe determinata una condizione di quasi piena occupazione, anche con non
pochi lavoranti dei campi che si arrangiavano, fra città e campagna: piccoli
commerci al minuto, ambulanti che recavano vettovaglie dal contado.
Dopo la dichiarazione
di guerra la città era ormai “piazzaforte marittima in istato di resistenza”:
la base navale più importante e al contempo il rifugio più sicuro per la flotta
interalleata italiana, francese e inglese, con la Sede del 9° Reggimento
Fanteria. La città che sembrava dimenticata dalla storia, stava per affacciarsi
al centro del palcoscenico internazionale, crocevia della storia più grande e
più folle: La guerra! Taranto era l’unico porto di grande ampiezza e l’unico
cantiere completamente attrezzato in prossimità della zona dell’attività
bellica. Non era teatro di guerra, di esso era però il retroscena. Il Mar
Piccolo ospitava la flotta da guerra italiana e alcune unità navali inglesi di
sostegno, mentre l’Arsenale provvedeva ai nuovi impianti di armi, agli
adattamenti dei nuovi sistemi protettivi, alle continue riparazioni di un
naviglio silurante già logorato dalla campagna in Libia. Taranto attraeva
soldati da tutte le parti, ma anche tecnici e maestranze dal circondario e da
tutta Italia. In Arsenale si lavorava a pieno ritmo anche di notte. Veniva
riparato lo scafo del piroscafo “Orione”, squarciato da un siluro, e quello del
cacciatorpediniere francese “Brory”, danneggiato dallo scoppio di una mina.
Veniva ricostruita la prua del caccia francese “Boutefeu”, che era stata
danneggiata da un investimento in mare, e così quella del CT. “Chinery”. Un
vero e proprio boom economico, con
una straordinaria espansione del tessuto urbano, pagata inevitabilmente con il
totale asservimento alla militarizzazione. Anche la pesca nelle acque dello
Jonio veniva vietata. Era l’altra faccia del boom, della fiorente attività economica e del prestigio
internazionale. Era alto il rischio a cui la città veniva esposta, in quanto
fucina, snodo e punto di partenza di gran parte della flotta italiana.
Come era accaduto per Brindisi, anche Taranto Veniva
colpita. Nella notte del 2 agosto 1916 la città veniva scossa da un tremendo
scoppio che sembrava sommuoverne le fondamenta. Verso le 23:00 la “Leonardo da
Vinci” veniva colpita da un rombo sordo che saliva dal fondo. Lo scafo tremava
ed esplosioni sempre più frequenti squassavano la nave e la squarciavano in
tanti crateri, con un boato che percorreva l’aria per molte miglia. Fiamme
altissime illuminavano la notte. Il professore Giacinto Peluso avrebbe in
seguito rievocato “quelle ore apocalittiche: “tante grida, tanto pianto”. I marinai
venivano inghiottiti dalle voragini prodotte dagli scoppi e fra di loro molti
erano tarantini.
Alle 24:45 la corazzata si capovolgeva. Uno scoppio del
deposito munizioni aveva fatto saltare in aria e quindi affondare in Mar
Piccolo la più potente delle sei dreadnougts
di cui era composta la prima “squadra da battaglia” della flotta italiana.
Come verrà appurato
negli anni seguenti, l’esplosione della “Leonardo da Vinci” si doveva ad una
operazione di spionaggio tedesco-austriaco, che aveva visto il coinvolgimento
anche dello scrittore tarantino Archita Valente. L’indagine degli uomini della
Marina e il successivo contrattacco, il cosiddetto “Colpo di Zurigo”, alla
centrale della sede del consolato austriaco in Svizzera, avrebbe permesso di
acquisire una relazione completa sull’affondamento della “Leonardo” e sui piani
per far saltare la “Giulio Cesare”: documenti che comprendevano una sorta di
tariffario per i diversi sabotaggi e la lista completa di tutte le spie agenti
in Italia, fra i quali, oltre a oscuri personaggi del Vaticano come il prelato
Gerlach, veniva condannato all’ergastolo lo scombinato Valente, “suicidato” nel
carcere di Avellino.
Ricordiamo anche che
Taranto aveva dato i natali al maggiore Angelo Berardi, il quale, allo scoppio
del conflitto, conquistava subito una medaglia d’argento, per le sue indubbie
capacità, dimostrate in numerose azioni: si poneva alla testa dei piloti di
dirigibile e veniva fregiato di nuova medaglia d’argento. La fase più intensa
della sua attività doveva riguardare la ritirata di Caporetto. Volava
infaticabile tutte le notti per colpire con le sue bombe i ponti sul
tagliamento e sulla Livenza, sulle arterie del Trentino e le balze alpine.
Compiva 18 ore di volo consecutivo e batteva il record mondiale d’altezza per
un dirigibile. Nell’agosto del 1918 rovesciava sul nemico, con dieci ardite
azioni, una enorme quantità di esplosivi. Durante l’azione decisiva, dall’alto
poteva assistere alla tremenda disfatta degli austriaci. Ironia della sorte, il
grande aviatore moriva proprio sul golfo di Taranto, scomparendo in una
tempesta mentre tornava a casa per ricongiungersi con la propria famiglia. La
città riconoscente gli avrebbe dedicato la via Berardi nel borgo umbertino, dove
Angelo era nato e aveva trascorso l’infanzia, già intestata al patriota Nicola
Mignogna.
Le tribolazioni
joniche per un Monumento ai Caduti
Per una città che era stata palcoscenico della Grande
Guerra, con le sue importanti vittime, può essere interessante ripercorrere la
tormentata vicenda ultratrentennale del colosso dominante l’attuale Piazza
della Vittoria, già Piazza XX Settembre. Il vero caduto o almeno infortunato, sul
bronzeo campo di battaglia, doveva essere l’onesto scultore Francesco Como,
combattente sul Carso, massone, discepolo del Maestro Ettore Ferrari, angariato
dai fascisti in quanto vecchio repubblicano. La cittadinanza auspicava a gran
voce la messa in cantiere di un solenne monumento volto ad onorare la memoria
dei valorosi caduti. Già nel 1919 il Consiglio Comunale, presieduto da
Francesco Troilo, faceva nascere rapidamente un pletorico Comitato
organizzativo. Non mancavano tuttavia riflessioni più ponderate. L’insegnante
Anna Caggiano propugnava una istituzione umanitaria: al posto di un monumento, una
opera che, nella sua utilità, esalti il ricordo di chi donò la vita alla
Patria, suggerendo “un edificio scolastico, un asilo infantile, un rifugio per
minorenni, un ricovero per orfani ed abbandonati, ”. Continuavano a venir fuori
proposte assennate: “un ospedale che potesse dare a tanti sofferenti poveri, il
modo di lenire i dolori, di sanare i mali, di conservarsi ancora alla vita, al
lavoro, all’amore dei figli (articoli della “Voce del Popolo”, 1922). Qualche
dubbioso forse ricordava l’amaro avvertimento del liber’uomo Ugo Foscolo: “ove
dorme il furor d’inclite gesta / e fien ministri al vivere civile / l’opulenza
e il tremore, /inutil pompa / e inaugurate immagini dell’Orco / surgon cippi e
marmorei monumenti”…
Note a margine. Non si
può sottovalutare il ruolo della funzionalità monumentale nella costruzione di un immaginario collettivo, nel
quadro anche di una formazione identitaria. Quando si parla di monumenti non si
deve considerare solo l’aspetto estetico, ma anche la funzionalità politica. George L. Mosse considerava la
“monumentalizzazione” come uno degli aspetti caratteristici del processo di
costruzione di una comunità. Naturalmente,
non si può neanche trascurare un semeion
fortemente significante, che intenda supportare un investimento emozionale, più
o meno vocazionato alla universalità.
Si avanzavano proposte umanitarie, ma non condivise dalla
Marina M.M. e dal fronte dei reduci, che avevano visto perire i propri
compagni, e dai famigliari delle giovani vittime. La Marina e le associazioni
combattentistiche non demordevano. L’erezione di un cippo era da considerarsi non
discutibile, obbligatoria, tassativa, malgrado la magniloquenza di un
preventivo che doveva raggiungere le 300.000mila lire, in una situazione
postbellica bisognosa di molti risanamenti. E monumento doveva essere! Sia pure
con risorse contingentate.
Nel 1919 il Consiglio Comunale, presieduto da Francesco
Troilo, faceva nascere rapidamente un pletorico Comitato organizzativo. La
prima questione doveva riguardare il sito, con incertezze nei riguardi di
piazza Archita. Sorgeva all’orizzonte un progetto dell’illustre architetto
Cesare Bazzani prospettato per i giardini Garibaldi, ma veniva lasciato in
sospeso. La discussione riprendeva senza fretta nel 1921, con l’amministrazione
Delli Ponti. Nelle more, si era messa in opera la strategia del “fai da te”: le
lapidi fiorivano a piacere. Nel frattempo la presidenza del Liceo Classico
“Archita”, con grande smacco per il Municipio, provvedeva a ricordare il sangue
dei suoi 52 studenti caduti, con una lapide apposta sulla facciata
dell’Istituto. Si pensava ad un periodico “cambio della guardia” al monumento, fra
gli studenti. Rimaneva da sciogliere il nodo del sito: posizionare il manufatto
in Piazza Giordano Bruno, avrebbe diminuito la visibilità della facciata
dell’Arsenale e l’imbottigliamento della stessa Piazza, punto nodale della rete
tranviaria. Per fortuna veniva scartata la proposta di insediare il monumentone
al centro del gran piazzale della Villa Peripato, con cassarmonica per la banda
(Peluso p. 67).
Tutti concordavano sulla necessità di una ampia superficie
di sfondo: ci si orientava verso il centro di Piazza XX Settembre, progressivamente
annientando i palmizi che la circondavano. Nel 1922, a ridosso della marcia su
Roma, il clima diventava più battagliero. Vi furono maltrattamenti nei
confronti nei confronti dello scultore Como e dei suoi fratelli, abbandonati dallo
squadrista motorizzato Parabita in una zona malarica. Si diffondevano anche
manifestini malevoli.
Nel 1923 era partito il concorso nazionale. La commissione
esaminatrice, formata per lo più da massoni, proclamava vincitore l’autore del
bozzetto a cui era stato dato il titolo “Si
spiritus pro nobis quis contra nos?”:
trattavasi di Francesco Como, premiato con lire 5000. Gli esclusi dalla
mangiatoia addirittura avrebbero preteso che Como dovesse starsene contento del
suo premio e lasciare ad altri l’esecuzione del progetto. Questo prevedeva
quattro gruppi bronzei raffigurati dallo scultore tarantino intorno ad un
grande basamento marmoreo: “La Vittoria e i suoi eroi”, “Taranto e i suoi
Artefici “, “L’Apoteosi del Fante” e L’ Aquilifero”. La cifra preventivata dal
bozzetto, 300mila lire, appariva enorme per una città appena uscita dai
travagli della guerra. Deciso il sito (Piazza XX Settembre) si prospettava la
cerimonia della posa della prima pietra per il 21 aprile del 1924, ma si era
ancora a zero, per festeggiare il “Natale di Roma”. Si cominciava a lavorare
sul basamento, ma dei pregiati gruppi bronzei nessuna traccia! Soprattutto
bisognava rastrellare i soldi. La fantasia dei tarantini si sbizzarriva con le
“Kermesse” in Villa Peripato, con le marche “pro monumento” da applicare su tutti
i documenti, pedaggi al ponte e salvadanai nei pubblici uffici, fino ad una
raccolta porta a porta, con la città divisa in sette zone strategiche. In
quattro anni si raccoglievano 76mila lire, ma si era molto lontani dalla meta e
i costi lievitavano. Il basamento era sempre lì, ma tutto procedeva con moto
uniformemente ritardato e la cifra di 500mila lire rimaneva ben lontana.
Nel 1926 il Podestà Spartera sembrava voler usare il pugno
duro, magari a colpi di francobolli e lotterie. In previsione della
inaugurazione veniva soppresso il chiosco orinatoio di Piazza XX Settembre. Ma
l’erigendo monumento ai Caduti attendeva sempre di essere inaugurato. Le cose
dovevano peggiorare con l’intervento di diversi commissari prefettizi:
1924-1925. Il podestà Giovanni Spartera si prodigava come cercasoldi, fra
ricchi premi e cotillons, sempre a
pro dell’erigendo monumento. Nel 1928 si arrivava alla rottura con l’artista.
Come se non bastasse,
nel 1930 bisognava ingaggiar battaglia con il signor Francesco Rizzo, gestore
di un chiosco in legno per la vendita di “gratta gratte… sumend’e zuccre,
orzata, granatina, menta, anice ghiacciata… Il contenzioso sarebbe durato dal
1924 al 1930, con prorogatio di mese
in mese. Alla fine Rizzo la spuntava, ottenendo la concessione di un altro
chiosco più bello che pria. Si era fatto spazio al monumento e la concessione
si sarebbe rinnovata ogni tre anni, purtroppo interrotta dalla deflagrazione del
secondo conflitto.
Intanto Il podestà
“protempore” Giovanni Spartera si sentiva sempre più sotto tiro e, su spinta
del governo, nel 1928, si decideva a convocare l’egregio scultore Guastalla di
Roma (anch’egli onesto massone) con l’incarico di esaminare lo stato dei
lavori. Ma un anno dopo il Guastalla rinunciava all’incarico per comprensibili
incompatibilità fra l’autore e il controllore, ma anche per lo stato
confusionale delle procedure. Nel 1934 veniva addirittura chiamato in giudizio
per una poco edificante ricompensa, richiesta per tre anni di lavoro. Alla fine
veniva pagato irregolarmente e a rate. Qualche frutto il Guastalla doveva
comunque averlo prodotto, se nel settembre 1929 il primo altorilievo “La vittoria
tarantina e gli eroi” era quasi pronto. Doveva seguire la “glorificazione del
fante”, ma la cifra preventivata passava a 750mila!
Nel 1930 si arrivava all’inaugurazione del monumento
non-finito, alla presenza del Sovrano e del ministro Di Crollalanza. La folla
era strabocchevole, Como si ritrovava quasi nascosto. Il gentiluomo aveva
lasciato Taranto nel 1928, con un assegno mensile ad personam per tutta la durata dei lavori, ma dopo due anni il suo
compito non era stato ancora ultimato. Nel giugno 1930, per inadempienza, veniva
troncato qualsiasi invio di denaro allo scultore, compromettendo così il
modello di argilla dello Aquilifero, che prima si essiccava e poi finiva in
frantumi. Con i fondi del tutto esauriti, Como avrebbe dovuto concludere i
lavori pagando di tasca propria: una soluzione del tutto improponibile. Il
povero artista si ritrovava in condizioni miserrime, tanto da sognare
l’interessamento del Sovrano. Durante le celebrazioni del IV novembre non era
stato neanche invitato e intanto si allargava sempre più il solco fra l’Artista
e il Regime. Si arrivava comunque all’inaugurazione del 1930, con il monumento
incompleto. Si poteva leggere l’epigrafe dettata da Alessandro Criscuolo in
chiara contaminazione fascista
Forti nella vita, epici nella morte
Nella storia eterni
Taranto Madre
La ricostruzione dettagliata della operazione scultorea è
perfettamente esposta nel prezioso testo di Giacinto Peluso, al quale si rinvia
doverosamente, evitando inutili commenti.
L’operazione avrebbe comportato la spesa globale di circa
800mila lire (cfr. Peluso e “Voce del Popolo”).
Lo scultore si trovava a sbarcare il lunario con
l’insegnamento e, dopo crisi profonde, decideva di chiedere l’iscrizione al
Fascio, cosa non facilissima, per le idee antifasciste sbandierate in più
occasioni. Come ottenne la “tessera”, Como si stabilizzò nella Scuola,
continuando a lavorare nel suo studio tarantino, prima del trasferimento
definitivo a Roma. Un ricordo di Raffaele Carrieri sullo scultore meditabondo e
solitario: “Non saprei parlare di questo semplice e pensieroso Artista senza
mettere in primissimo piano la sua bella fibra di uomo: moralmente e
artisticamente parlando. La ricostruzione dettagliata della operazione
scultorea è compiutamente esposta nel testo di Giacinto Peluso, al quale si
rinvia doverosamente.
Nel marzo 1950 si riapriva la discussione sul completamento
dell’opera monumentale, con interessamento delle Associazioni Industriali e (strano
a dirsi) dei segretari della Camera del Lavoro della C.G.I.L. Il Monumento
fatturato a rate, trovava alla fine il suo completamento con il gruppo detto “l’Aquilifero”,
con il fiero sostegno della amministrazione comunista. L’occhio esperto poteva
leggere nell’opera i simboli massonici del triangolo, delle due colonne, del sancta sanctorum del tempio, con la Nike
che raffigurava il fatidico numero tre. Il 18 ottobre 1953 si concludeva la
trentennale vicenda: era trascorsa anche la seconda guerra mondiale e un
monumento poteva ormai bastare per i due grandi conflitti. Quella volta, alla
celebrazione, Francesco Como era ben presente, per ricevere quell’omaggio che
gli era stato negato nel 1930.
I monumenti sono la
storia in piedi (Ugo Ojetti)
Al momento della inaugurazione finale, l’opera era certamente
un anacronismo. In quegli anni nessuno studente si sarebbe prestato al “cambio
della guardia”, secondo i desiderata dell’ex preside del Liceo: I Beatles erano in arrivo. Gli omoni nudi
con l’elmetto facevano impressione. E invece, negli anni Settanta, nella festa
giovanile della contestazione, per i giovani tarantini e non solo, quel
monumento si trovava a rappresentare l’ombelico del mondo. Quel bronzo era
letteralmente avvolto da una folla di ragazzi vocianti e musicanti. I figli dei
fiori rendevano quel cenotafio un rendez-vous
giovane, cordiale, capellone, greco, nemico della guerra: uno spazio liberato
di felice coabitazione fra i presenti e gli scomparsi. Il giornalista Antonio
Rizzo, assieme ad un suo estimatore, veniva dalle forze dell’ordine allontanato
in malo modo da quella festa dei presenti e degli assenti. Ma gli spiriti cupi
non trovavano pace: denunce pseudopatriottiche e farisaiche. Rizzo scriveva: “A
me il monumento animato da quelle presenze giovanili, piaceva. Mi appariva come
un fatto vivo, vitale, cordiale, popolare. Non un fatto artistico, ma
esistenziale. Un happening che
umanizzava una struttura fredda e retorica”. Rimane il dolce ricordo di una
festa libertaria nello spazio della antica Agorà. Rimane anche l’onesta
testimonianza del repubblicano Franco Como, un artista figlio di un capomastro
e di una sarta, volto sempre alla speranza che mai più si abbia a versare sangue
innocente.
Patriottismo peloso
Sarebbe ingiusto sottovalutare il ruolo della funzionalità
monumentale nella costruzione di un immaginario collettivo, nel quadro anche di
una formazione identitaria. Un’opera, per forza delle cose, può rimanere
anacronistica, démodé, ma può anche
essere una sincera e onesta espressione di un datato contesto culturale. Altra
cosa è il subdolo” monumento donato” (Timeo
Danaos et dona ferentes…). Ci riferiamo all’altro colosso: quel Monumento
al marinaio, regalato dall’Ammiraglio Angelo Jachino a un Consiglio comunale
che accettava tutto a scatola chiusa, senza preoccupazioni di permessi e
licenze. Gli antifascisti dell’epoca non si accorgevano nemmeno che sul
basamento s’inneggiava alla guerra 1940-43: la guerra di Mussolini. Era facile
invece decifrarne il codice segreto: Il monumento visto dall’avanti e dal di
dietro, con le due grandi W e M, era un vistoso “Onore al Duce”!
Bibliografia : Taranto in guerra
Saverio Lasorsa, La
Puglia e la guerra mondiale, Ed. Caini, Bari-Roma 1928
Enzo Panareo, Archita
Valente: dalla letteratura allo spionaggio, in “Sallentum”, anno IV, n. 3
La più audace impresa
del controspionaggio italiano nella prima guerra mondiale, in “Storia
illustrata”, Settembre 1969, n. 142
E.C. Protto, Vita,
morte e risorgimento della dreadnought “Leonard da Vinci”, Edita@, Taranto
Ferdinando Ladiana e Espedito Jacovelli, Massafra e la Grande Guerra, Cspcr, 1984
Nino Bixio Lomartire, I
cantieri navali di Taranto, Coop. 19 luglio, Taranto 1990
Roberto Nistri,
Civiltà dell’industria, Scorpione ed., Taranto 1988
Roberto Nistri, Una
Loggia “Martinista a Taranto, in “Cenacolo”, Mandese ed., 1994
Rosa Alba Petrelli, L’Arsenale
militare marittimo di Taranto, Perugia 2005
David Alvarez, I
servizi segreti del Vaticano, Newton Compton Editori, Roma 2008
Eric Frattini, L’Entità,
Fazi Editore, Roma, 2009
AA.VV., I Cantieri
Tosi, Fondazione Michelagnoli, Taranto 2013
Annibale Paloscia, Benedetto
fra le spie, Mursia ed., 2013
Bibliografia: Taranto
e il suo monumento ai caduti
Giacinto Peluso, Una
città, un monumento, Mandese Ed., Taranto 1984
Francesco Guida, La
Massoneria tarantina dal dopoguerra
al 1960 in Taranto dagli ulivi agli
altiforni, Mandese ed., Taranto 2007.