Le due città e una tarantola
di
Roberto Nistri
© Roberto Nistri 2015. Tutti i diritti sono riservati.
Mi trovavo a
frequentare per la prima volta la città
di Lecce verso la metà degli anni ’60, ospitato da Adolfo Buja, ex compagno di banco al liceo “Archita” di Taranto, che si era trasferito in terra
salentina . In quel tempo entrava in
funzione il primo altoforno dell’Italsider,
ma questo non angustiava minimamente quella my generation che, per ultima, aveva
avuto il privilegio di vedere il cielo di Taranto non trafitto dalle ciminiere.
Nessuno avrebbe mai potuto sospettare che, nell’anno di disgrazia 2013, il Comune di Lecce dovesse manifestare serie
preoccupazioni per i fumi tossici provenienti da Taranto. Il soggiorno leccese
doveva risultare molto istruttivo per lo scrivente: Rino Buja, grande erudito locale, mi illustrava fatti e
misfatti della città, senza fare alcun cenno al tarantismo e alle sue
ritualità. Avrei in seguito compreso che, in quel periodo, la musica
tarantolata non godeva di particolare fortuna nella cultura borghese cittadina.
Non per questo la tradizione si era esaurita. Una vivace testimonianza del
tarantismo nel decennio precedente veniva offerta dall’erudito Giovanni
Antonucci in una lettera al tarantino Cosimo Acquaviva il 26 novembre 1950: “Io
ebbi uno zio dalla vita alquanto irrequieta, tutto preso da velleità di canto e
di essere un violinista. Quando qualche tarantolare
era colta dalla frenesia del ballo, lo si chiamava perché mettesse in
pratica le sue doti musicali: io bambino di 7 od 8 anni correvo cogli altri a
vedere la scena che svolgevano in qualche casa a piano terreno e colle porte
aperte” (1).
A dire il vero la Città
Barocca , considerata arretrata e sonnolenta, era abbastanza snobbata
dai tarantini, che in quella fase stavano vivendo l’ebbrezza della grande
mutazione industriale. Anche lo scrivente , dopo aver frequentato qualche salotto
old fashion e fascistino, in cui era tabuizzato l’argomento Jo
Staiano (il primo trans che si era fatto onore nel felliniano La dolce vita) pensò bene di
ritornare di corsa fra i due mari, con tutto l’affetto e la simpatia per la
“Bella addormentata”. Sembrava una città
in bilico fra magia e deserto che sarebbe piaciuta al flaneur
Roger Caillois, il cercatore dei “demoni meridiani” della tradizione
folclorica, che nella sua Guida Blu aveva rievocato anomalie e sregolatezze,
come vetrine che esponevano pipistrelli-vampiro appesi a testa in giù, “simili
da lontano a ombrelli di seta neri riposti in buon ordine”.
Si
ritornava a frequentare Lecce nei
paraggi del ’68, quando vi erano abboccamenti fra i combattivi universitari
baresi e tarantini e gli ammuinati studenti leccesi che, quanto a
contestazione, stavano un po’ scarsi. Eppure proprio in quel contesto avevamo
la fortuna di conoscere fugacemente la Rina Durante che, come ha scritto Ilaria
Marinaci, era riuscita a vedere prima
degli altri il Salento del futuro , fondando il canzoniere Grecanico Salentino
, contribuendo alla riscoperta del griko e analizzando fenomeni identitari come
il tarantismo. Accanita masticatrice di tabacco, avrebbe
scritto anche uno splendido racconto Intitolato
La Luce, sulla acciaieria di
Taranto (Manni, 1996). Alessandro Leogrande ha tracciato un bellissimo profilo
di Rina Durante, proprio a partire dall’esperienza del ’68 e dintorni: La liana arborea e la fine dell’utopia,
in “Galaesus”, Taranto, 2014. “Vado
cercando musiche e musicanti per le terre dei padri…nel paese dell’Eco che mi
hanno detto risuonare di suoni”, canti notturni di suonatori erranti, fra
risentimento e sfinimento …
Protagonista
autorevole di quella stagione di “radiose utopie”, per tirare su i ragazzi che,
a partire dalle facoltà occupate, non trovavano una fabbrichetta ove
distribuire qualche volantino, la Durante faceva una mossa geniale simile a
quella di Galilei, quando puntava verso le stelle quel cannocchiale che tutti
consideravano solo un oggetto di trastullo. La signora Rina ebbe la bella pensata di far
entrare nell’Università alcuni suonatori di musica di tradizione, che all’epoca
rimediavano qualcosina fra matrimoni e compleanni: nell’Ateneo doveva fare furore il Toto di
Calimera. La mossa galileiana della Durante era
straordinaria: si apriva una storia e peccato che, nella anticopernicana
Taranto di ieri e di oggi, nessuna testa pensante sia stata capace di una
simile genialata. Le due città
continuavano ad avere storie divaricate,
ma era Lecce che iniziava ad incrementare passo dopo passo il proprio sex appeal.
Intanto nel
1971, avendo a lungo frequentato la casa di Alfredo Maiorano, avevamo avuto
modo di apprezzare in anteprima la ricchezza del suo repertorio etnografico,
potendo anche seguire la sapiente cura esercitata da
Antonio Rizzo e Alberto Cirese, nell’allestimento della grande mostra sulle
tradizioni popolari, che doveva
costituire un vero primato nell’Italia meridionale. Sulle tristi vicissitudini
del costituendo Museo, la storia è nota. L’infelice gestione, da parte degli
amministratori, della donazione di don Alfredo, era già un segnale
inequivocabile dell’inarrestabile declino di una cultura cittadina ormai slegata
dalla propria storia.
Nel 1984 usciva
il film di Giuseppe Schito, Il ragazzo di Ebalus (1984): si
raccontava di un giovane terrorista in crisi che, in fuga da Milano, cercava
l’aiuto dei compagni dell’Italsider di Taranto. Braccato sia dai poliziotti che
dai brigatisti, veniva ospitato da un vecchio contadino, reincarnazione di
quell’agricoltore di Corico (l’attore Cucciolla) che, incontrando Virgilio sotto le torri della
rocca di Ebalo, lo introduceva alla magia del mondo contadino, volta a
sconfiggere la cultura della violenza. Casualmente proprio in quel periodo
seguivamo a Taranto il processo alla colonna tarantina di “Prima Linea”,
scrivendone qualcosa in A sud del
Sessantotto. Erano gli anni di una svolta epocale, traumatica. Le cose
stavano cambiando. Con l’esaurirsi della Vertenza Taranto, la città e la grande
fabbrica correvano ormai, senza alcuna consapevolezza, nel tunnel del declino. Qualcuno armeggiava
attorno a serrature che chiudevano male sull’infinito (Aragon). I più morivano per attacchi di scetticismo.
Invece la barocca “città del sonno” veniva risvegliata dal “folk revival”
salentino e poi baciata dal più che principe Edoardo Winspeare . Le
raccoglitrici di tabacco salentine, rimaste inceppate negli ingranaggi di una
mobilità sociale negata, non danzano più cercando di schiacciare con il piede
quel ragno immaginario che era il simbolo del loro mal di vivere. Nuove
generazioni hanno fatto della taranta un emblema identitario trasversale. Da
zavorra del passato a risorsa per il futuro, da relitto folklorico a bene
culturale. Una nuova patria culturale, avrebbe detto Ernesto de Martino, da ricordare a 50 anni dalla morte.
Egli fece del tarantismo l’emblema di un Meridione dell’anima, come ha scritto
Marino Niola.
Le “spose di San
Paolo” non roteavano più la testa e non si arrampicavano sull’altare della
barocchissima cappella di Galatina, ma i turisti giungevano a frotte in cerca
di buone vibrazioni. Come ha scritto Marino Niola, l’ombra dell’Aracne
mediterranea non ha mai abbandonato questi luoghi: “ Resta tra le spighe del
grano e le foglie del tabacco come una cifra nascosta, che si rivela nei
bagliori visionari della campagna abbacinata dal sole e risorge nel riverbero
bizantino del tramonto, quando il cielo diventa una iperbole scarlatta sospesa sopra un orizzonte di assoluti”.
Ai piedi di Santu Paulu rimane uno scorpione sormontato da due serpi, sullo
sfondo di una ragnatela. Il guanto era
stato rovesciato e il logo antico si andava trasformando nel simbolo
positivo di una economia sostenibile e attrattiva. Si metteva in moto una
grande avventura che avrebbe fatto di Lecce e del Salento un cosmopolita luogo
del cuore; una storia molto lunga, attorno alla quale valorosi studiosi hanno
variamente discettato. Nell’arco di
alcuni decenni, con un vasto retroterra di esperienze musicali e spettacolari,
Lecce meritoriamente godeva di una pulita economia turistica, con la sua Renaissance pizzicofila. Gli anziani
coetanei tarantini di quei giovinotti
del ’68, dopo decenni di volantinaggi al “Siderurgico” si ammuinavano con la
ballata degli affumicati. La storia aveva rovesciato la frittata. Culturalmente
Lecce e Taranto si avvicinavano: è da
ricordare la mirabilesi operazione di
Koreja e del Sud Sound System in Acido
fenico: la ballata del camorrista Mimmo Carunchio, dal testo del tarantino
Giancarlo De Cataldo ispirato alla banda Modeo (2003).
Eppure le due
città offrivano ben diversi marcatori identitari: Taranto rimaneva sottomessa alla monocultura siderurgica,
Lecce valorizzava la propria tradizione pizzicomane. A ciascuno il suo,
considerando che ogni monocultura recava in grembo una minaccia e anche la Città
Barocca oscillava tra incanto e autarchia, magari spacciando vetusti stereotipi
che fingevano vita novella, riducendo la filologia ad ancella del turismo.
Nella terra di sotto nessuno era immune
dalla malinconica sindrome delle dissolvenze, degli oggetti smarriti, dei buchi
neri. Per questo era importante unire molte solitudini per una piccola ragione
di allegria, scacciando il demonio dalla bocca.
Si poteva
riflettere sul sogno di Jung, durante il viaggio che lo portava insieme a Freud
negli Stati Uniti, mentre maturava il suo dissenso nei confronti dello
scientismo del Maestro. Jung sognava di scendere nella sua
casa sempre più verso il “profondo”,
trovando in una grotta due teschi: le due culture, si diceva una volta.
I due teschi rappresentavano le due forme
del pensare: il fisicalismo di Freud e il simbolismo di Jung, la ratio e
l’icona, la techne e il mito. Con una
eccessiva semplificazione si potrebbe dire che la città del mito ha battuto la
città del logos. Convinti da sempre della necessaria concordia discors fra il
logo e il mito, non siamo tanto babbioni da contropporre la fucina di Efesto al
reincantamento dionisiaco. Diciamo soltanto che il brand della Taranta si
presentava, nell’immaginario collettivo, molto più attrattivo di quello dell’Ilva.
Nel 1996 recensivamo il libro di Franco
Cassano, Il pensiero meridiano, in
cui si invitava a “non pensare il sud alla luce della modernità, ma al
contrario pensare la modernità alla luce del sud”. Si trattava di “restituire
al sud l’antica dignità di soggetto di pensiero, interrompere una lunga
sequenza in cui esso è stato pensato da altri”. Un programma audace, in una
qualche maniera interrotto o incompiuto, tuttavia ricco di suggestioni in
riferimento alle due città . Sempre nel 1996 veniva prodotto Pizzicata di Edoardo Winspeare, il
regista che doveva diventare
l’ambasciatore nel mondo del “tarantismo” e della “salentinità”:
purtroppo stereotipi che rischiavano di imprigionare l’artista in una sola
dimensione. La filmografia di Edoardo
non era certo riducibile alla pizzica come rock’n
roll mediterraneo: le sue erano
anche storie di clandestini, trafficanti di droghe, Dark ladies della Sacra Corona Unita, vite in bilico fra musica e
contrabbando, in una Puglia dove si scontravano
tradizioni antichissime e criminalità imprenditoriale.
La
frequentazione di Winspeare, soprattutto durante la produzione a Taranto del
film Il miracolo (2003) si costituiva
nella memoria cittadina come un momento
alto di battaglia culturale. Il miracolo
deve essere girato a Taranto, diceva Edoardo. “Questa città possiede la luce
più struggente d’Italia… Taranto è perfetta perché è sia spaventosa, con
l’impianto siderurgico più grande d’Europa a ridosso della città, sia il più incantevole luogo ameno della Magna Grecia, circondata
dall’acqua che riflette per ogni dove la luce”.
Cercando i volti fra gli studenti del liceo “Archita” e i ragazzini dei
vicoli della città vecchia, l’artista promuoveva una grande operazione maieutica per la
cittadinanza. “Taranto è sempre molto bella”, diceva il regista
all’intervistatrice Anita Preti, “ma è anche un luogo dove la violenza è
palpabile, una città continuamente ferita”.
Nell’estate del
2002 presentavamo nella città di Ebalo una corposa raccolta di studi a cura di
Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, dal titolo molto esplicativo Il ritmo meridiano - La pizzica e le
identità danzanti del Salento, in
evidente sintonia con la riarticolazione del rapporto fra modernità e
tradizione proposta da Cassano. Sotto
l’influsso incoercibile dello “spirito del tempo” , nella stessa estate veniva
dato alle stampe un compendio storico-filologico della Taranta
tarantina. In quel momento quasi
felice, la città riconquistava una primogenitura indiscutibile , invero mai
contestata dagli acculturati: il musicologo Aristosseno di Taranto raccontava
di “epidemie di danza” attorno al dio della
maschera e dell’ebbrezza, Dioniso. Antidotum
tarantulae, che il medico Paracelso chiamava Lasciva
Chorea, ballo licenzioso. Da Marino a Lubrano si era diffuso un immaginario
colto di tutta Europa, al punto che nel Cinquecento, Cesare Ripa poteva
raffigurare il tacco d’Italia come una bella danzatrice, vestita di un sottil
velo costellato di tarantole.
Si
restituivano ai due mari le origini del
culto della Taranta, smarrito negli anni della grande industrializzazione. Un
gruppo di “scienziati tarantoleschi”, coordinati da Carlo Petrone,
raccoglieva tutte le documentazioni
reperibili nel territorio jonico su una antica cultura che ancora oggi si offre
come un accumulatore di potenza di grande valenza simbolica. Con una strategia
di Reconquista la Taranta ritornava a casa. Esaurita una
prima edizione del volume, ne veniva
pubblicata una seconda molto più
ricca. E si continuerà ancora a
ricercare, spinti dal desiderio di ritornare a casa e poter rivedere quel luogo
come se fosse la prima volta.
La memoria del
Ragno veniva riattivizzata in terra jonica, ma nel frattempo era andata smarrita una città. Purtroppo nella antiquissima urbs la techne è stata assolutizzata, abbiamo peccato
di yubris
(dismisura) e le potenze degli inferi si sono scatenate diffondendo il Male nostrum. Per poter evitare che la
stessa mater tarantula finisca asfissiata fra le emissioni dell’Ilva e
dell’Eni, volenterosi artisti si sono
impegnati nel recupero del ritmo mediterraneo,
per scacciare i maligni vapori, traducendo il mood della pizzica in world
music. Fra i non tantissimi, il maestro concertista Mimmo Gori ha raccolto
attorno a sé valorosi musici tarantati e non scoordinati, promuovendo il
Festival dello Scorpione.
Si tratta del
più antico emblema di Taranto, in
seguito sostituito dal più accattivante Delfino. In effetti lo Scorpione, ma anche il
santo Ragno, non brillano per benevolenza. “Qui lo scorpione è padrone / e la tarantola ruffiana /di un’antica
follia”: così poetava Raffaele Carrieri, ricordandoci che i culti antichi avevano
a che fare con un sangue russu russu.
Lo Scorpione era una icona abbastanza
lugubre. Gli Africani evitavano di pronunziarne il nome perché portava male.
Era minaccioso a causa della coda terminante in un rigonfiamento colmo di
veleno che alimentava il pungiglione. Amava la solitudine e gli angoli oscuri,
pronto a uccidere il disturbatore. Produceva
effetti allucinatori ed esperienze di transizione ad una realtà altra.
Presso i Dogon rappresentava il clitoride asportato. Il più pauroso romanzo di
Stephen King era l’apocalittico L’ombra
dello scorpione.
Ma i tarantini
sono ormai abituati a frequentare la Danse macabre. Del resto l’uzzolo
zombaiolo e il Negramaro non ci devono far dimenticare il cuore di tenebra
della tarantola. “Chi o cosa mi possiede?” rimane l’incipit di ogni horror territory. L’Uomo Nero, lo Spauracchio, il Babau, il
mito deambulante del “fantasma della mente”, il male che si rincorre e si
trasforma nella sfera freudiana del perturbante, l’Unheimliche che sfalda il tessuto delle cose “reali”. Nella stasi
del tempo immoto, la calura della
controra fa socchiudere le palpebre e nel giallo mare di grano s’intravede un
tremolìo, una figurata malìa e si avverte
lo straniamento dell’essere “posseduti”,
del non sentirsi soli nella propria pelle. La tarantola è per eccellenza il qualcosa che
si nasconde dietro i filari di grano, la
presenza invisibile che si muove tra le spighe. In una città virata in noir, chi combatte da sempre quello
scherzo di cultura e non di natura che è
la kinghiana Mangler (la macchina infernale) può ben avviare nelle
notti pizzicate La danse du dèsir fra
tarantole e scorpioni. I tarantini sono ormai abituati a frequentare la Danse macabre, in the Dark side of the moon.
Il mondo, diceva Ernesto De Martino, ha
più che mai fame di simboli per dire i suoi mali, per lenire i suoi
dolori. Ciò che è emerso può affondare e
ciò che è affondato può riemergere.
Contro il gigante di ferro ci si
può sempre difendere, extrema
ratio, con lo “sputo medicinale” e
risanatore: l’arma segreta del principe taumaturgo Totò (2).
NOTE
1) Cfr. Cosimo D’Angela, Lettere
di Giovanni Antonucci a Cosimo Acquaviva (1939-1953) in “Cenacolo”, N.S. III, 1991, Mandese
editore, Taranto, 1991.
2) Cfr. Giancarlo Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso. Dal ballo risanatore allo
sputo medicinale, Congedo editore, Galatina (Le), 2004.