UP PATRIOTS TO ARMS…
di Roberto Nistri
© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa
1. Viva l’Italia!
Poteva andar peggio. Il
centocinquantenario dell’unità nazionale sembrava dovesse malinconicamente
spegnersi sotto i malefici influssi di una stella “ pseudopadana”. I morti ancora
una volta hanno indicato la buona strada e l’Inno a Garibaldi ha risuonato gioiosamente lungo tutta la penisola,
fino ad accendere la felicità civile di migliaia e migliaia di giovani nel
concertone del Primo Maggio, a piazza San Giovanni. Dall’apertura dell’Inno
di Mameli con la chitarra di Eugenio Finardi alla composizione di
Ennio Morricone, la meglio gioventù ha ballato ascoltando il battito cardiaco
della sempre viva Repubblica Romana. E’ andata bene: la grande cultura della
canzone popolare ha fugato le nubi del maligno sabotaggio, del velenoso spirito
di scissione, dei negazionismi rancorosi e delle piccinerie localistiche.
Onore a tutte le scuole grandi e
piccole del Paese, sempre più vilipese e martoriate, che generosamente si sono
prodigate confermando di essere la vera spina dorsale della nostra civiltà.
Rievocazioni, articoli di giornale, qualche libro ci hanno aiutato a capire
come siamo venuti al mondo. Talvolta con amarezza , ma un po’ di realismo fa
sempre bene. Se ci siamo lasciati alle spalle le “aleate orditure agiografiche”
, il pensiero unico e la stucchevole retorica dei tromboni di Stato, tanto di
guadagnato. Come disse una volta Cesare Garboli: abbiamo avuto troppe storie
diverse in questa penisola per poterle tutte riassumere in una. Le rievocazioni sono servite a
farci capire che i movimenti tendenti all’indipendenza furono più di uno, in
contrasto l’uno con l’altro. L’unificazione ebbe un alto tasso di
improvvisazione e di casualità: i suoi stessi artefici ne furono sorpresi,
spesso furono guidati dagli eventi piuttosto che dominarli. Rimane la storia
irriducibilmente plurale di un popolo che, ogni volta che si è trovato a
toccare il fondo, nel Risorgimento come nella Resistenza, ha trovato la forza
per rinascere.
Naturalmente l’uso pubblico della
storia o, detto più chiaramente, la disinvoltura con cui la politica maneggia
la storiografia secondo opportunità o finalità di parte, produce
inevitabilmente qualche patacca ideologica , come il sistematico oscuramento di
alcuni valori fondativi della battaglia risorgimentale, come la laicità e
l’anticlericalismo, e questo per non dare dispiacere ai “chercuti”, come li
chiamava Garibaldi (la cui immagine è da
sempre la più taroccata e falsificata) (1). Possiamo consolarci con la
“buona novella” di una fertile esplorazione locale, territorio per territorio,
capace di recuperare le tracce di antiche passioni e generosi sacrifici, senza
ciondolare nella sterile mitologia della Identità. Proprio la città di Taranto
doveva essere particolarmente interessata a questo raffronto fra storia locale
e storia nazionale, considerando una congiuntura davvero singolare: i 150 anni
dell’Italia unita sono i 150 anni della moderna Taranto, la “terza Taranto” che
andava a costituirsi “al di là del fosso”. Ci sembra che non da molti sia stata
avvertita la grande opportunità di riflessione critica offerta da tale
coincidenza e comunque le celebrazioni sono state di gran lunga superiori
rispetto a quelle registrate in occasione del centenario (2).
2. Taranto e la “rivoluzione”
In occasione delle celebrazioni del
1960 Antonio Rizzo ebbe a censurare l’assenteismo delle civiche amministrazioni
di Puglia dalle celebrazioni del centenario dell’ingresso della regione
nell’Unità d’Italia: “Se ci è stato risparmiato qualche sproloquio sulle
fucilate del Caffè Moro, con condimento di epigrafi e risciacquatura di istorie
locali, poco male, anzi meglio. Ma come si spiega il silenzio dei partiti
popolari, che dall’occasione avrebbero potuto trarre incitamento a meglio studiare
le condizioni delle nostre province sotto il Borbone, anche per rendersi conto
degli applausi di quei poveri diavoli massafresi ai quali bastava aver visto il
Borbone per essere felici?” (3).
Nel mese di luglio venivano
rinvenute scritte antigovernative a Castellaneta, Ginosa e Laterza, mentre a
Palagiano venivano arrestati 19 cittadini per minaccia a pubblici funzionari. A
Taranto furono arrestati venticinque individui per aver provocato una sedizione
popolare (4). Le fucilate del Caffè Moro riguardano il più eclatante episodio
della “rivoluzione tarantina”: la sera del 17 luglio 1860 il Sotto-Intendente
De Monaco ordinò il fuoco contro alcuni “signori” seduti ai tavolini, ferendo
tale Stefano Berardi. Lo stolto De Monaco, sequestrato da animosi cittadini, si
diede alla fuga e venne sostituito da Salvatore Stampacchia, patriota e letterato più volte processato sotto
il Borbone. La “rivoluzione” proseguiva il suo corso. In agosto venivano
rinvenuti cartelli antiborbonici, a Martina furono esposte alcune bandiere
tricolori.
L’8 settembre 1860, il giorno
dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, la Giunta Municipale di Taranto,
“assembratosi… nella casa del Signor Sotto-Intendente” accoglieva la proposta
del sindaco Pietro Acclavio di “provvedere alla cosa pubblica in modo conforme
alle mutate condizioni politiche de’ tempi”. (5) Il 9 settembre veniva ufficialmente proclamata l’adesione di
Taranto al governo provvisorio: il solito conformarsi ad uno stato di fatto
irrevocabile. Lo spirto guerrier trovò modo di sfogarsi, come al solito,
abbattendo i segni del passato e infuriando particolarmente contro la Fontana
della omonima piazza. Alla proclamazione dei risultati del plebiscito, festa
grande con luminarie, banda e fuochi (6).
Da allora la pubblicistica locale ha continuato a rimaneggiare
un’aneddotica di origine largamente “criscuoliana”, dai contorni assai vaghi e
aliena da ogni disciplina storiografica.
Una summa quasi conclusiva di
questa tradizione è offerta da uno degli ultimi scritti di Giovanni Acquaviva
in cui la tarantina “rivoluzione” viene narrata come una sorta di assemblea
permanente in Vico Nasuti al n.11, con un lume a petrolio e un lettino per la
bisogna; faceva da sentinella tale Cilluzzo, il salumiere Mimino Buontempo
forniva i panini e, in caso di bisogno, il barbiere Ernesto praticava i
salassi. Come si dice, c’erano proprio tutti: Vincenzo Carbonelli, Vincenzo
Pupino, Giuseppe Fanelli, Pietro Acclavio, Cataldo Nitti, Demetrio Sassi, Luigi
Ayr, Carlo Sorrenti, Nicola Galeota, Orazio Carducci, Giuseppe De Cesare, il
frate Aurelio Perrone, Gaetano Piccione, Egidio Pignatelli e anche Nicola
Mignogna che si era allontanato da Taranto in giovane età per non farvi più
ritorno (7).
Sulla situazione di Taranto durante
la battaglia unitaria e sui maggiori protagonisti politici non si può dire che
siano mancate volenterose ricostruzioni, ormai troppo datate - in particolare
quelle di autori locali - anche per l’abuso di retorica e il carattere
fantasioso di certe testimonianze (8). Una ripresa di qualità sulla
storiografia della Taranto risorgimentale si è registrata solo con le robuste
pubblicazioni di Lucia D’Ippolito: Cataldo Nitti e il suo tempo (2002) e Le carte di Cataldo Nitti (2005).
3. Mignogna, il più matto di tutti (F. De Sanctis)
Il piccolo dio che sovrintende al
tempo perduto ha permesso che venisse alla luce proprio a ridosso del fatidico
17 marzo (grazie anche al sostegno del Comune di Taranto) il volume di Valerio
Lisi: L’Unità e il Meridione. Nicola Mignogna (1808-1870). Chi ha avuto modo, come lo scrivente, di seguire
l’epica impresa di questo biografo appassionato che ha esplorato per anni
gli Archivi di Napoli, Torino,
Genova, Parigi, Vienna, inseguendo le tracce del Patriota anche nei Musei del
Risorgimento di Roma e di Napoli, ha talvolta temuto che il furor lisiano facesse naufragare l’impresa nell’insana
caccia all’ultimo documento perduto. In un momento difficile, forse anche
preoccupato per le difficoltà editoriali, Lisi aveva deciso di affidare il suo
dattiloscritto (ne conserviamo ancora quattro o cinque diverse bozze)
all’amorevole custodia della Biblioteca “Acclavio”. Ma l’ora più buia è quella
che precede l’alba: il libro è uscito con una edizione curatissima, un piccolo
monumento al valoroso “sovversivo”, sicuramente “più duraturo di quello che la
città di Taranto, il ‘natio loco’, non volle o non potè dedicargli per
ricordarlo alle nuove generazioni. Una sorta di risarcimento a fronte di quella
pubblica commemorazione che arrivò con 19 anni di ritardo nel 1889 e dei due
mancati appuntamenti in coincidenza con il centenario della morte (1970) e il
bicentenario della nascita (2008)”, come si legge nella prefazione di
Alessandro Laporta.
Il testo di Lisi è sconsigliabile al
lettore frettoloso, amante dei “fattarielli”, degli scoop sensazionalistici e della fantastoria. L’autore
produce storiografia scientifica, consapevole che senza la filologia la historia si riduce a chiacchiera. Non si limita certo a
mettere in fila i documenti, vizio tipico degli storici locali: produce
giudizio storico, spiegazione degli eventi, comprensione di quel travagliato
percorso che trasformò un tarentino in italiano. Lisi ha seguito passo passo la
vicenda umana di Nicola Mignogna, seminarista di Taranto e compagno di classe
di Cataldo Nitti, in rotta con il padre reazionario, negli anni Trenta aderente al mazzinianesimo , partecipante
a Napoli ai moti del ’48, arrestato
assieme all’intimo amico Luigi Settembrini (9). Mignogna diventò un eroe
popolare grazie al grande processo del 1855-56 che ebbe eco profonda in tutta
Europa: in un folto stuolo di inquisiti fu protagonista principale assieme alla
rivoluzionaria gallipolina Antonietta De Pace (ambedue vennero sottoposti a
pesanti torture che furono pubblicamente denunciate) (10). Il tarantino
Mignogna e il martinese Fanelli
ebbero entrambi a che fare con la spedizione di Sapri e poi con l’impresa dei
Mille: Mignogna venne incaricato da Bertani di raggiungere Garibaldi a Caprera
per spingerlo all’azione. Il tarantino partecipò alla spedizione con il compito
di decifratore della corrispondenza e tesoriere. La sua amministrazione fu
oculatissima, anche quando si trovò a esercitare il ruolo di pro-dittatore della Lucania. Emanò
efficaci decreti per l’ordine pubblico, pur dovendosi misurare con il già
vistoso fenomeno del brigantaggio - in particolare la vischiosa vicenda di
Carmine Crocco - e in seguito nello scabroso rapporto con la camorra
napoletana, che si trovò a gestire
occupando il dicastero di Polizia.
Rimanendo a vivere a Napoli (poi a
Giugliano) Mignogna continuò a cospirare con l’obiettivo di Roma capitale,
venne eletto consigliere comunale e costituì la loggia “Figli dell’Etna” affiliata
al “Grande Oriente”. Partecipò alla garibaldina impresa di Aspromonte e scese
in campo per l’ultima volta approntando un nascondiglio di armi per la
sfortunata battaglia di Mentana del 1867. Valerio Lisi ha accompagnato
“l’antico ed imperturbabile cospiratore”, come ebbe a definirlo Mazzini, fino
alla sua povera tomba napoletana. Ma ha anche rappresentato una grande storia
corale che ci ricorda, come scrisse Antonio Rizzo durante le celebrazioni del
1960, che “l’unità, comunque raggiunta, fu per il Mezzogiorno il fatto positivo
di maggior peso dopo lo sfasciamento dell’Impero Romano”.
NOTE
1)
Si veda il libro di Marco Pizzo Lo stivale di Garibaldi e la scheda di Daniele Castellani Perelli in
“Venerdì di Repubblica” del 18 marzo 2011. Non consideriamo scandaloso il pamphlet
antirisorgimentale del cardinale Giacomo
Biffi, dall’anodino titolo L’Unità d’Italia. Centocinquantanni: è una schietta rivendicazione del portabandiera del
neoguelfismo e dei resistenti del non expedit, nel contempo sempre ben disposti a patteggiare con
il diavolo, altrimenti detto “uomo della provvidenza”. Segue la libera
discussione. Quello che non è sopportabile è l’appalto romano del 17 marzo al
segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, che già in occasione del XX Settembre
aveva confiscato la Breccia di Porta Pia, impedendo a qualunque associazione solo vagamente laica l’accesso al
monumento, presidiato dall’antidivorzista e omofobo Movimento
Politico Cattolico Militia Christi. Le
associazioni laiche hanno protestato durante la sessione plenaria su “Libertà
di pensiero, coscienza, religione e credenza” tenutasi il 1 ottobre 2010 a
Varsavia presso l’OSCE.
2)
Fra le varie iniziative di pregio, la correlazione
locale-nazionale ci sembra sia stata particolarmente curata dall’Istituto
“Pitagora” (una manifestazione con l’ARCI il 23 marzo sulle origini della
Taranto post-risorgimentale, L’unità in canti il 30 marzo e una celebrazione il 4 maggio, con la Fanfara della
Marina, di alcuni concittadini emigrati nelle Americhe che hanno conseguito
grande fama nelle arti e nelle scienze. Ricordiamo anche un corso
d’aggiornamento per docenti sulla Memoria storica del Lavoro, organizzato dalla Regione Puglia presso l’Istituto
“Maria Pia” il 13 aprile, nonché una ricca Mostra documentaria - E’
per sorgere un’era novella… - allestita
dall’Archivio di Stato di Taranto il 9 aprile. Per altre iniziative, cfr. R.
BONGERMINO, Il Sud e Taranto nell’Unità d’Italia, in “Corriere del giorno”, 21 dicembre 2010; M.
GUAGNANO, L’insorgenza postunitaria,
in “Corriere”, 18 marzo 2011; A. BASILE, Giuseppe Nocera a Palazzo
Galeota, in “Corriere”, 23 marzo 2011.
3)
Cfr. Taranto da cento anni nell’Unità, in “Voce del Popolo”, 3 settembre 1960. Rizzo
faceva riferimento al viaggio di Ferdinando II descritto da Raffaele De Cesare
in La fine d’un Regno; nel gennaio
del 1859 il Borbone giunse in Puglia, ricevendo ovunque un’accoglienza
trionfale: “i Massafresi si abbandonarono alle più sfrenate esultanze e
gridavano in coro: ‘Grazie, grazie Maestà’. Al che il re, equivocando, domandò:
‘E che grazia volete?’. E quelli con più alte grida: Basta che
t’avimmo visto” . A Taranto Ferdinando venne accolto da “acclamazioni ed applausi
di tutti i Tarantini, usciti fuori dalla Città incontro ai Sovrani”. Il Borbone
domandò se ci fossero a Taranto fratielli, cioè framassoni, liberali. Il comandante del Castello “lo assicurò,
dicendogli essere Taranto città tranquilla e fedele”.
4)
“Qualche confusione si era verificata in città a partire dalla
metà di luglio, quando la popolazione (affamata e malandata) tentò di
saccheggiare alcune navi cariche di frumento, per tentare di dare una risposta,
sia pure momentanea e non definitiva, ai richiami del ventre. E lo strano fu
che le autorità sembrarono, quasi quasi, favorire la bella impresa, nel
tentativo di dimostrare ai più quale anarchia si crei al solo sopraggiungere
delle idee nuove”; P. MASSAFRA, Facce di sempre, Taranto, 1988, p.175.
5)
Le delibere del Decurionato sono state pubblicate
integralmente per la prima volta da Orazio Santoro: Come fu vissuto lo
sbarco dei Mille nella provincia jonica, in
“Città”, 1 giugno 1982. Nello stesso saggio Santoro ricorda i patrioti di terra
jonica che presero parte alla spedizione dei Mille: i tarantini Nicola Mignogna
e Vincenzo Carbonelli (Nicola Gigante aggiunge Perrone, Piccioni, Valente,
Petruzzi, Jurlaro, Catapano, Agostinelli e i fratelli De Gennaro; cfr. A.
PRETI, A noi restano le briciole,
in “Quotidiano”, 17 maggio 1982) i martinesi Giuseppe Fanelli e Giovanni
Guglielmi, Nicola Perrone di Laterza,
Gioacchino Lemarangi di Mottola. Durante l’avanzata garibaldina
partirono da Martina Franca: Vitantonio Grassi, il Sac. Pasquale Guglielmi,
Innocenzo Elefante, Giuseppe Miccoli, Donato Semeraro, Francesco P. Bellopede e
Girolamo Casavola. Da Laterza: Candeloro e Cosimo Iavernaro, Vitantonio ed Edoardo
Pollicoro, Nunzio e Nicola Bonamassa, Gaetano Minilascino e Giustiniano. Tra i
comuni del Distretto di Taranto è da Massafra che partirono il maggior numero
di garibaldini: Alessandro Izzinosa, Giovanni ed Antonio De Carlo, Giovanni
Casulli, Vito Blasi, Domenico Franchino, Francesco Losavio detto Cicciarudde, Sabino Gallo, Nicola Fanelli, Vitantonio D’Eri,
Vitantonio Zanframundo, Tommaso Mairo, Giuseppe Maria, Cosimo Misciagna, Paolo
Notaristefano, Luigi Quero, Pietro Scalzo, Domenico Presta, Pietro Scialpi,
Ignazio Scarcia, Leonardo Mazzarone, Francesco Maraglino, Lorenzo Galante,
Giovanni Basile, Michelangelo D’Errico e Saverio Fanelli, protagonista di una
rocambolesca evasione dal Castello di Taranto (cfr. O. SANTORO, Saverio
Fanelli, patriota di Massafra, in “Voce
Nostra”, n.1, gennaio 1961; A. FOSCARINI, I circoli di Massafra, in “Corriere meridionale”, Lecce, 16 e 23 marzo
1911; E. JACOVELLI, Saverio Fanelli patriota di Massafra, in “Corriere del giorno”, 13 giugno 1982; anche S.
LA SORSA, La partecipazione della Puglia alla spedizione dei Mille, in “Voce del Popolo”, 21 maggio 1960). Va ricordata
anche la figura avventurosa di frate Geremia Tinella di Castellaneta,
sottotenente garibaldino ferito e spretato; cfr. G. LATORRE, Quando
Garibaldi vendeva candele a Castellaneta…,
in “Corriere del giorno”, 18 maggio 1982.
6)
Esemplare la relazione del prof. Ruggiero Rizzelli sul
plebiscito a Maglie: “La mattina di domenica 21 ottobre 1861, Maglie entusiasta
accorse alle urne… La votazione fatta con il mezzo delle fave per esprimere il
‘sì’ e dei fagioli per esprimere il ‘no’ dette 975 voti favorevoli all’Unità
d’Italia e 6 soltanto contrari. Questi pochi voti contrari irritarono la
popolazione che avrebbe voluto l’unanimità… Con un vecchio barbiere, che si ostinava
a rimaner fedele al Borbone, corsero minacce e busse” (C. S. ROCHIRA, Il
plebiscito del 1861 e il nostro
popolo, in “Voce del Popolo, 7 dicembre
1935).
7)
Vico Nasuti, 11: il covo dei patrioti, in “Voce del Popolo”, 1 marzo 2006. L’articolo di
Acquaviva offre comunque una gradevole scheda su Nicola Schiavoni, un
manduriano che si era già distinto nei moti del ’48. Era stato arrestato e
condannato a trent’anni di ferri. In galera perse un occhio e, deportato nel
’59 in America, finì invece in Irlanda. Compagno di Carlo Poerio, Silvio
Spaventa e Luigi Settembrini, dopo l’impresa dei Mille tornò a Manduria e venne
eletto in Parlamento; cfr. Manduria a Nicola Schiavoni e Giacomo Lacaita. Onoranze rese il giorno 19
dicembre 1909, Trani 1910; di Acquaviva
vedi anche Il primo deputato tarantino: Giuseppe Pisanelli, in “Corriere del giorno”, 13 giugno 1948.
8)
Cfr. R. DE CESARE, La fine di un regno, Città di Castello, 1900; E. DE VINCENTIS, I patrioti salentini,
Taranto, 1912; P. IMPERATRICE, Vicende di Taranto dal 1848 al 1870, in “Taranto - Rassegna del Comune”, Anno III, nn.
7-8, luglio-agosto 1934 e Anno IV, maggio-giugno 1935, nn. 5-6; ID, Cataldo
Nitti, in “Taras”, 1928, nn.1-4; S. LA
SORSA, La città di Taranto sulla fine della dominazione borbonica, in “Voce del Popolo”, 14 e 21 giugno 1942; M.
GRECO, La fanfara di Taranto e il Quarantotto, in “VdP”, 12-19-26 giugno 1948; S. PANAREO, Taranto
attorno al ’60, in “VdP”, 21 e 28 gennaio,
4 febbraio 1939; G. BELTRANI, L’autorità di Giuseppe Massari, in “Rassegna pugliese”, 1912; R. COTUGNO, La
vita e i tempi di Giuseppe Massari, Trani,
1931; C. ACQUAVIVA,
Taranto e Giuseppe Massari, in
“Taranto-Rassegna del Comune”, Anno IV,
maggio-giugno 1935, anno XIII, nn. 5-6; A. ALTAMURA, Massari e
l’unità d’Italia, in “VdP”, 1-2 gennaio
1937; G. DE MATTEIS, Liborio Romano e Cataldo Nitti, in “Taranto - Rassegna del Comune”, gennaio-giugno
1938; E. BAFFI, Agostino Baffi,
in “VdP”, 12 maggio 1940; D. RIZZO, Luigi Baffi, in “VdP”, 3 agosto 1941; D. GENNARINI, Vincenzo
Carbonelli, in “Corriere delle Puglie”, 3
giugno 1911; Vincenzo Carbonelli,
in “VdP”, 26 maggio 1940; LISI, Due patrioti tarantini: Tommaso De
Vincentiis e Antonio Valentini, in “VdP”, 30 giugno 1928; A. ALTAMURA, Giuseppe
De Cesare, un sindaco saggio e illuminato,
in <<Ribalta>>, dicembre 2005; P. IMPERATRICE, Gaetano
Portacci, in “Taras - Bollettino del Comune
di Taranto”, Anno I, maggio 1927, nn.
3-4. Poco citato anche dai suoi contemporanei, Portacci venne probabilmente
stimato più come letterato ed insegnante che come rivoluzionario. Era certo un
personaggio esuberante ed irrequieto. Giovane prete, dichiarò guerra al governo
di Re Bomba e sembra che gli amici lo
abbiano trattenuto a stento da un attentato in occasione della visita del
Borbone. Scapigliato e compagnone, spese tutto il suo patrimonio in giocondi
banchetti sulle alture circondanti
il Mar Piccolo. In un fascicolo della “Rassegna Pugliese di scienze, lettere ed
arti” del 1913, Francesco Barberio annota che la sua passione dinamitarda non
causò alcun danno agli odiati borbonici, ma gli riuscì conveniente per la pesca, in particolare quando
sopraggiunsero le ristrettezze. Nel 1878 una piccola bomba gli asportò la mano
destra. Agli amici accorsi a visitarlo impedì loro di portar via una cassa di bombe nascosta sotto il suo
letto, perché potevano tornare sempre utili.
9)
Mentre il Settembrini venne condannato a morte (pena commutata
in ergastolo) Mignogna seppe sfuggire alle accuse “fingendosi ebete”. Lisi
prende criticamente le distanze dalle due
biografie classiche (A. CRISCUOLO, Ricordi di Nicola Mignogna, Taranto, 1888 e G. PUPINO-CARBONELLI, Nicola Mignogna nella storia dell’unità d’Italia, Napoli, 1889) e conferisce il giusto rilievo anche
al martinese Fanelli, uomo di fiducia del Mazzini (cfr. E. DE VINCENTIIS, Giuseppe Fanelli nel
Risorgimento italiano, in “Voce del
Popolo”, 8 giugno 1918; C. TEOFILATO, Giuseppe Fanelli dalla “Giovane Italia” alla “Internazionale”, in “Pensiero e volontà”, Roma, A.II, 1925; A.
LUCARELLI, Il patriota Giuseppe Fanelli, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 16 luglio 1949; ID, Giuseppe
Fanelli nella storia del Risorgimento e del socialismo italiano, Trani, 1953; una recensione in “Voce del Popolo”,
28 febbraio 1953).
10)
Mignogna venne
condannato all’esilio mentre la De Pace fu assolta. Antonietta partecipò a
tutta l’epopea risorgimentale, dalla preparazione della spedizione di Pisacane
all’avventura dei Mille alla conquista di Roma. Nel centocinquantenario
RAI-Storia ha prodotto un bel documentario sulla De Pace, con un preciso resoconto
del processo (conosciuto a Londra come il Mignogna case) senza purtroppo citare il patriota tarantino.
Sull’eroina salentina, cfr. B. MARCIANO, Della vita e dei fatti di
Antonietta De Pace, Napoli, 1901; F.
BERNARDINI, Antonietta De Pace cospiratrice e garibaldina, in “La Puglia letteraria”, 31 maggio 1932; P.
INGUSCI, Antonietta De Pace, in
“Voce del Popolo”, 15 gennaio 1966; O. COLANGELI, Antonietta patriota, Galatina, 1967; E. BERNARDINI, Antonietta
e i Borbone, Lecce 2000; D. DE LORENTIIS, Antonietta
De Pace, in “Quotidiano”, 15 marzo 2011.
In
occasione della presentazione dell’opera di Lisi, abbiamo discusso con l’autore
su un messaggio di Settembrini per l’intimo amico Mignogna: “lo saluto di cuore
e l’amo”. Probabilmente ha ragione Lisi nel considerare tale frasario come
ricorrente nella confraternita patriottica. E’ comunque da ricordare che quel
padre della patria ebbe il coraggio di scrivere un romanzo molto esplicito, I
neoplatonici, rimasto nella polvere per un
secolo perché censurato da Benedetto Croce. Pubblicato per la prima volta nel
1977 con una nota di Giorgio Manganelli, è stato ristampato da Sellerio nel
2001 e attualmente ripubblicato a cura di Vincenzo Palladino che nell’amore
neoplatonico vede adombrato il legame tra Settembrini e il patriota Silvio
Spaventa, suo compagno di carcere per otto anni. Uno dei benefici effetti
collaterali dell’attuale celebrazione può essere considerato lo “sdoganamento
del Risorgimento Gay”, con opere come Garibaldi amore mio di Maurizio Micheli e Sangue garibaldino di Giorgio Ansaldo. Sempre per il rispetto della
verità storica.