Articolo tratto da: Corriere del Mezzogiorno, 2013
di Michele Pennetti
TARANTO - Una sudditanza condivisa per decenni, un invischiamento deliberato, una rivoluzione passiva che si è tradotta fuori tempo massimo in una sintesi di cittadinanza attiva. Se il presente e il futuro di Taranto restano legati al suo passato, all'Ilva o ex Italsider che dir si voglia, è per l'incapacità di emendarsi dal peccato originale dell'etero-direzione e per le troppe battute perse anche quando c'erano carta (i soldi) e penna (gli strumenti normativi) per schizzare un progetto differente dalla company town. Dicendola con Roberto Nistri, professore di storia e filosofia in pensione, studioso forsennato dei processi d'industrializzazione in terra jonica, scrittore prolifico che nel libro "Tarentinità un'identità residuale" del 2011 aveva previsto lo sbaraccamento dei Riva e il facsimile dell'esproprio, "domani, nonostante l'azione della magistratura e il commissariamento del governo, non si riesce a immaginare Taranto senza un'Ilva, nè a individuare una proposta di risarcimento, una corsia d'uscita dal tunnel della monocultura dell'acciaio. In egual modo, senza l'adattamento di Taranto al potente di turno e la bassezza della sua borghesia, senza una classe politica che negli ultimi 40 anni è salita alla ribalta nazionale solo grazie a Giancarlo Cito, senza il piegamento al padrone pubblico o privato, non ci sarebbe stata questa Ilva inquinante e giganteggiante. Il Riva premiato in Germania è il medesimo di Taranto. La differenza è che in Germania le regole le fanno rispettare, a Taranto l'unica regola era che non esistevano regole. Fossero esistite, non si sarebbe sprecato un patrimonio di credibilità riassunto da un film del 1967, "Promesse di marinaio", che raccontava la vicenda di ragazza milanese scesa a Taranto per cercare lavoro".
Ma il difetto di fabbricazione viene da lontano se già nel 1913, un secolo fa, Luigi Ferrajolo su "La voce del popolo" invocava la calata degli imprenditori del Nord per dare impulso al turismo e divincolarsi dalla morsa naval-militare sopravvenuta a fine '800 con l'innesto dell'Arsenale. "Un passaggio - ricorda Nistri - che portò la città fuori da una rocca, dall'isola in cui era rimasta inscatolata per 1300 anni, determinando la nascita dell'attuale borgo. Una trasmutazione piovuta dall'alto così come le successive commesse belliche, fonte di ricchezza, espansione e persino accettazione di condizioni lavorative al limite. La Spangler tratteneva agli operai il 25% dei salari. Ma il contesto assistenziale e distributivo, intrecciato all'opera di contenimento del municipio, garantiva la pace sociale". La stessa che nel secondo dopoguerra Taranto sembrò smarrire.
Tra il 1948 e il 1960 - anno della posa della prima pietra all'Italsider - si susseguirono cortei, manifestazioni di piazza, proteste collettive. La gente rivendicava una città diversa, che uscisse dalla nuova rocca: quella innalzata dalla Marina. "Il problema è che quando è stata costruita la terza - continua il prof - la comunità ad ogni livello si è accucciata là dentro, nel suo habitat naturale. Chi è abituato a forgiare tondini, mediamente può essere un eccellente esecutore però non un creativo, un inventore, un produttore di idee e soluzioni". Piuttosto, un collezionista di occasioni sciupate. Triennio 1959-1961: il consorzio Asi ottiene in affidamento il piano urbanistico connesso all'area industriale e lo delega, per inabilità di competenze, all'Italsider. Anno 1972: Muschio Schiavone, presidente della Provincia, inizia a combattere la presenza di elevati tassi di inquinamento e impianta le prime centraline di rilevamento, rimosse dal suo successore Tarantino. Anno 1989: una legge "di sostegno e deindustrializzazione", a margine di uno studio di Gregotti Associati e con un meccanismo di dismissione compensato da 3119 nuovi posti di lavoro, viene stracciata da un saccheggio di risorse che ha la sua sublimazione nel caso della Sural. E poi lo schiacciamento perpetuo sull'acciaieria. "Favorito - spiega Nistri - da un approccio discorde. Con l'Italsider non si registrarono grandi eventi corruttivi. Si agì di pastetta, come nell'affidamento della formazione alla Fim-Cisl controllata da monsignor Motolese. Si largheggiò con gli straordinari. E si fece leva sul circolo Ilva per creare un feeling con la città inondandola di tessere gratis e biglietti omaggio. Con l'Ilva tutto questo è diventato subcultura, degradando dal familismo al paternalismo autoritario, dai concerti sull'erba ai tornei aziendali di calcetto, dal distacco oggettivo con la vita della città alle relazioni untuose con l'arcivescovado". Per non parlare dei buoni da 100 euro da spendere presso Auchan, incassati dagli operai nei reparti dove si verificano ufficialmente meno incidenti e, sostengono le malelingue, si nascondono per convenienza non pochi sinistri. "E in mezzo tra le due epoche c'è stata la regressione etica dell'indotto, con "Il Messicano" Antonio Modeo che riciclò il denaro sporco della criminalità organizzata". Una storia di fronte alla quale, nel bene e nel male, a dispetto di inchieste e commissariamenti, la città appaltata non è ancora in grado di calcolare una via di fuga.
Michele Pennetti
domenica 30 giugno 2013
Una sudditanza condivisa
Etichette:
Attività culturale,
Ilva,
Taranto anni 2000
sabato 29 giugno 2013
Dalla dittatura alla Repubblica. Recensione di Gaetano De Monte
da: TarantoOggi,
Mercoledì 8 Maggio 2013, pagina 7
Un
viaggio a più voci nel libro di Giovanni Battafarano su taranto
Dalla
dittatura alla Repubblica

Gaetano
De Monte
Etichette:
Antifascismo,
Gaetano De Monte,
Recensioni,
Storia Taranto
venerdì 28 giugno 2013
Taranto a vita bassa: La ricchezza perduta dei due mari
Taranto a vita bassa: La ricchezza perduta dei due mari
Il giornalista - attivista Gaetano De Monte cita il mio libro "Taranto a vita bassa":
lunedì 20 maggio 2013
Taranto Democratica dalla dittatura alla Repubblica
A.N.P.I. Taranto - Taranto Democratica
dalla dittatura alla Repubblica 1943-1946
Presentazione del libro "Taranto democratica dalla dittatura alla Repubblica 1943-1946"
Presenti due autori Roberto Nistri e Pinuccio Stea presso la libreria Gilgamesh il 20 maggio 2013
Etichette:
Recensioni,
Scrittori locali,
Storia Taranto
lunedì 13 maggio 2013
Epicedio per Mustaki: un gigante buono e contestatore
Epicedio per Mustaki: un gigante buono e contestatore
di Roberto Nistri
© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Voce del Popolo", 15 settembre 2004
"Sono ormai vent'anni che il sergente Pepper ha fondato la sua banda ... noi siamo la banda ... sedetevi e aspettate che arrivi la sera": agli albori del Sessantotto quel disco dei Beatles accompagnava le storie della "meglio gioventù". Sono trascorsi oltre trent'anni da quella mitica stagione, non pochi della vecchia tribù del Maggio sono ormai andati via, eppure ci sembra che la banda non abbia ancora smesso di suonare. Alla Masseria Belmonte, la sera del 3 settembre, mentre il suono della Taranta trascinava un pubblico entusiasta, gli organizzatori hanno voluto dedicare il concerto alla memoria di Salvatore Gigante detto "Mustaki". E un momento di dolce commozione ha accomunato tutti i presenti, anche tutti quei "pizzicomani" che non erano neanche nati quando Salvatore e altri giovani corsari s'imbarcarono sulla gran Tortuga della "contestazione".
Forse qualcuno poteva ancora ricordare le ultime avventure di quel gigante buono e barbuto, come quella del novembre 1988, quando per le strade di Taranto si manifestava contro l'attracco della Deep Sea Carrier, la cosiddetta "nave dei veleni": le forze dell'ordine stavano trattando un
po' ruvidamente una studentessa e l'indignato Mustaki intervenne prontamente. Intimando "lassate sta' a uagnedda", causò qualche danno a cinque vigili urbani, rimediando per conto suo tre giorni di cella. Ma ben altre imprese avevano nutrito la sua "chanson de geste": dalla spazzolata ai fascisti di Reggio Calabria, nel 1970, alla messa in fuga di un noto squadrista che si era presentato davanti alla sezione di "Lotta continua" brandendo una pistola.
Ma i vecchi compagni sanno bene quale sia stata la più bella impresa
di Salvatore: non è diventato sindaco come quel tale squadrista, non è diventato un capo camorrista come quel suo famoso coetaneo della città vecchia, ma (pur formandosi in un contesto ambientale di miseria e di violenza) ha lavorato onestamente tutta la vita prima come carbonaio e muratore, poi come operaio e cuoco, spendendosi generosamente in difesa dei più deboli, sempre intendendo per "compagni" coloro che si dividono lo stesso pane. E , quando i prepotenti di tutte le risme ferirono la democrazia con pugnali pistole e bombe, lui continuò ad usare le mani nude e il suo buon cuore.
Nato nel cuore della città vecchia, ha vissuto in Arco Loiucco con i suoi dieci fratelli. In una intervista rilasciataci nel 1988, così raccontava il suo ingresso in politica: "Ebbi il mio primo scontro con la polizia nel 1964 quando, durante una vertenza per l'Inam, ci fu una carica durante uno sciopero, con decine di arresti. Allora facevo il carbonaio, e partecipai alla manifestazione tutto sporco di carbone. Non mi iscrissi mai al Pci, ma frequentavo spesso la sezione Gramsci, che era molto forte nel quartiere. Nel '68 lavoravo con la ditta edile Gattinari, e mi trovavo sopra una impalcatura quando vidi passare un grosso corteo di studenti, con i cartelli. Scesi dall'impalcatura, lasciai il lavoro e me ne andai con il corteo. In quel periodo lavorai con una cooperativa dei cantieri navali, poi due mesi a Milano, poi con ditte-pirata che fornivano lavoro a termine attorno all'Italsider, senza assicurazione e senza niente. Fui regolarmente assunto dalla Peyrani come tubista e in quel periodo si cominciava a costituire il consiglio di fabbrica, c'era Nello De Gregorio che interveniva per la Fiom. Quando conobbi Lotta Continua, capii che era l'organizzazione fatta per me, spontaneista e per la lotta dura. Aprimmo la prima sede sui Tamburi, per la vicinanza con le ditte, e poi quella nella Città vecchia, nella via di Mezzo. In fabbrica conquistammo subito molti simpatizzanti, operai bravi erano il napoletano Francesco Simeone e il calabrese Pasqualino Gulemì, ma il certificato di nascita di Lc fu l'occupazione delle case dalle parti di via Archimede, dove organizzammo una serie di baraccati che vivevano vicino al cimitero. C'erano assemblee ogni domenica e mi ricordo i primi scontri con il Pci. L'occupazione durò un anno, c'erano manifestazioni per l'attacco della luce e dell'acqua. Alla fine ci fu lo sgombero da parte della polizia, alcuni occupanti fecero resistenza, due compagni di Lotta Continua furono arrestati. Poi quegli occupanti finirono nelle case di via Cesare Battisti, vicino l'Oviesse, e noi mantenemmo con loro i contatti".
Lotta Continua era l'organizzazione più scapestrata della giovane sinistra extraparlamentare per cui, aprendo la nuova sede in via Giusti, attirava ragazzi e ragazze a frotte, inseguiti dai genitori che consideravano Mustaki come una specie di orco. In realtà lo spirito di trasgressione era molto bonario, sul tipo dell'infiltrazione in un ricevimento tenuto dagli ufficiali presso la Lega velica: mentre qualcuno staccava la corrente, gli altri fecero sparire in un battibaleno interi tavoli coperti di cibarie, che vennero fatte fuori in una colossale mangiata sotto il Lungomare. Così ci raccontava Enzo Quazzico di quella volta che "avevamo organizzato una grande assemblea in un cinema di Talsano, dove avevamo una sezione (ce n'erano altre a Massafra e Palagiano) ma gli oratori tarantini arrivarono in ritardo perché si erano intrattenuti a chiacchierare, tirando 4 litri di vino e 72 bottiglie di birra da tre quarti. Salvatore entrò salutando tutti calorosamente e fece un bel discorso. Solo che lo ripetette quattro volte, e alla quinta dovemmo tirarlo giù dal palco". Bella era la vita nel Movimento: ma la pelle era sempre in gioco: Salvatore se la vide brutta quella sera dell'11 febbraio del '75 quando, durante una manifestazione in Piazza della Vittoria, una canaglia fascista gli piazzò a tradimento una coltellata fra le costole.
Dopo il dolce, veniva l'amaro. All'allegria subentrava la frustrazione, il generoso spirito di utopia veniva soffocato dalla violenza più cupa.
Molti scomparvero nel buio delle carceri o della droga, alcuni giocarono la carta del pentitismo e rinnegarono i loro sogni. Salvatore, il candido popolano della Città Vecchia, è uno di quelli che sono riusciti a consegnare alle generazioni successive la bella memoria di una vita spesa nella ricerca non del profitto ma della felicità condivisa, comunitaria: il lascito migliore della storia di una festa, di una passione e di una rabbia, vissuta a sud del Sessantotto, a sud del mondo. Per questo nessuno lo ha dimenticato, anche molti anni dopo che aveva lasciato Taranto, peregrinando fra il Sud America e la Grecia. Per questo, giunta da Bologna la notizia della sua infermità, in tanti si sono subito prodigati per soccorrerlo. Come in tanti lo hanno accompagnato nell'ultimo viaggio di ritorno nel grembo della città proletaria, quella Tarde Vecchje che lo ha accolto con la sua bandiera e le sue canzoni.
Di quelle tre giornate passate al fresco, lui raccontava: "Durante l'ora d'aria grattini e carcerati vari mi chiedevano: Cos'hai fatto, Mustaki? Rispondevo sinceramente. E loro: Ma chi te l'ha fatta fare!". Cosa spingeva Isadora Duncan a danzare e Jimi Hendrix a suonare la chitarra? Cosa spingeva un ragazzo dei vicoli a ribellarsi di fronte ad ogni sopraffazione? Forse si nasce sotto una stella rossa. Che la vecchia banda continui a suonare, in onore di Salvatore Gigante, detto Mustaki!
di Roberto Nistri
© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Voce del Popolo", 15 settembre 2004
"Sono ormai vent'anni che il sergente Pepper ha fondato la sua banda ... noi siamo la banda ... sedetevi e aspettate che arrivi la sera": agli albori del Sessantotto quel disco dei Beatles accompagnava le storie della "meglio gioventù". Sono trascorsi oltre trent'anni da quella mitica stagione, non pochi della vecchia tribù del Maggio sono ormai andati via, eppure ci sembra che la banda non abbia ancora smesso di suonare. Alla Masseria Belmonte, la sera del 3 settembre, mentre il suono della Taranta trascinava un pubblico entusiasta, gli organizzatori hanno voluto dedicare il concerto alla memoria di Salvatore Gigante detto "Mustaki". E un momento di dolce commozione ha accomunato tutti i presenti, anche tutti quei "pizzicomani" che non erano neanche nati quando Salvatore e altri giovani corsari s'imbarcarono sulla gran Tortuga della "contestazione".
Forse qualcuno poteva ancora ricordare le ultime avventure di quel gigante buono e barbuto, come quella del novembre 1988, quando per le strade di Taranto si manifestava contro l'attracco della Deep Sea Carrier, la cosiddetta "nave dei veleni": le forze dell'ordine stavano trattando un
po' ruvidamente una studentessa e l'indignato Mustaki intervenne prontamente. Intimando "lassate sta' a uagnedda", causò qualche danno a cinque vigili urbani, rimediando per conto suo tre giorni di cella. Ma ben altre imprese avevano nutrito la sua "chanson de geste": dalla spazzolata ai fascisti di Reggio Calabria, nel 1970, alla messa in fuga di un noto squadrista che si era presentato davanti alla sezione di "Lotta continua" brandendo una pistola.
Ma i vecchi compagni sanno bene quale sia stata la più bella impresa
di Salvatore: non è diventato sindaco come quel tale squadrista, non è diventato un capo camorrista come quel suo famoso coetaneo della città vecchia, ma (pur formandosi in un contesto ambientale di miseria e di violenza) ha lavorato onestamente tutta la vita prima come carbonaio e muratore, poi come operaio e cuoco, spendendosi generosamente in difesa dei più deboli, sempre intendendo per "compagni" coloro che si dividono lo stesso pane. E , quando i prepotenti di tutte le risme ferirono la democrazia con pugnali pistole e bombe, lui continuò ad usare le mani nude e il suo buon cuore.
Nato nel cuore della città vecchia, ha vissuto in Arco Loiucco con i suoi dieci fratelli. In una intervista rilasciataci nel 1988, così raccontava il suo ingresso in politica: "Ebbi il mio primo scontro con la polizia nel 1964 quando, durante una vertenza per l'Inam, ci fu una carica durante uno sciopero, con decine di arresti. Allora facevo il carbonaio, e partecipai alla manifestazione tutto sporco di carbone. Non mi iscrissi mai al Pci, ma frequentavo spesso la sezione Gramsci, che era molto forte nel quartiere. Nel '68 lavoravo con la ditta edile Gattinari, e mi trovavo sopra una impalcatura quando vidi passare un grosso corteo di studenti, con i cartelli. Scesi dall'impalcatura, lasciai il lavoro e me ne andai con il corteo. In quel periodo lavorai con una cooperativa dei cantieri navali, poi due mesi a Milano, poi con ditte-pirata che fornivano lavoro a termine attorno all'Italsider, senza assicurazione e senza niente. Fui regolarmente assunto dalla Peyrani come tubista e in quel periodo si cominciava a costituire il consiglio di fabbrica, c'era Nello De Gregorio che interveniva per la Fiom. Quando conobbi Lotta Continua, capii che era l'organizzazione fatta per me, spontaneista e per la lotta dura. Aprimmo la prima sede sui Tamburi, per la vicinanza con le ditte, e poi quella nella Città vecchia, nella via di Mezzo. In fabbrica conquistammo subito molti simpatizzanti, operai bravi erano il napoletano Francesco Simeone e il calabrese Pasqualino Gulemì, ma il certificato di nascita di Lc fu l'occupazione delle case dalle parti di via Archimede, dove organizzammo una serie di baraccati che vivevano vicino al cimitero. C'erano assemblee ogni domenica e mi ricordo i primi scontri con il Pci. L'occupazione durò un anno, c'erano manifestazioni per l'attacco della luce e dell'acqua. Alla fine ci fu lo sgombero da parte della polizia, alcuni occupanti fecero resistenza, due compagni di Lotta Continua furono arrestati. Poi quegli occupanti finirono nelle case di via Cesare Battisti, vicino l'Oviesse, e noi mantenemmo con loro i contatti".
Lotta Continua era l'organizzazione più scapestrata della giovane sinistra extraparlamentare per cui, aprendo la nuova sede in via Giusti, attirava ragazzi e ragazze a frotte, inseguiti dai genitori che consideravano Mustaki come una specie di orco. In realtà lo spirito di trasgressione era molto bonario, sul tipo dell'infiltrazione in un ricevimento tenuto dagli ufficiali presso la Lega velica: mentre qualcuno staccava la corrente, gli altri fecero sparire in un battibaleno interi tavoli coperti di cibarie, che vennero fatte fuori in una colossale mangiata sotto il Lungomare. Così ci raccontava Enzo Quazzico di quella volta che "avevamo organizzato una grande assemblea in un cinema di Talsano, dove avevamo una sezione (ce n'erano altre a Massafra e Palagiano) ma gli oratori tarantini arrivarono in ritardo perché si erano intrattenuti a chiacchierare, tirando 4 litri di vino e 72 bottiglie di birra da tre quarti. Salvatore entrò salutando tutti calorosamente e fece un bel discorso. Solo che lo ripetette quattro volte, e alla quinta dovemmo tirarlo giù dal palco". Bella era la vita nel Movimento: ma la pelle era sempre in gioco: Salvatore se la vide brutta quella sera dell'11 febbraio del '75 quando, durante una manifestazione in Piazza della Vittoria, una canaglia fascista gli piazzò a tradimento una coltellata fra le costole.
Dopo il dolce, veniva l'amaro. All'allegria subentrava la frustrazione, il generoso spirito di utopia veniva soffocato dalla violenza più cupa.
Molti scomparvero nel buio delle carceri o della droga, alcuni giocarono la carta del pentitismo e rinnegarono i loro sogni. Salvatore, il candido popolano della Città Vecchia, è uno di quelli che sono riusciti a consegnare alle generazioni successive la bella memoria di una vita spesa nella ricerca non del profitto ma della felicità condivisa, comunitaria: il lascito migliore della storia di una festa, di una passione e di una rabbia, vissuta a sud del Sessantotto, a sud del mondo. Per questo nessuno lo ha dimenticato, anche molti anni dopo che aveva lasciato Taranto, peregrinando fra il Sud America e la Grecia. Per questo, giunta da Bologna la notizia della sua infermità, in tanti si sono subito prodigati per soccorrerlo. Come in tanti lo hanno accompagnato nell'ultimo viaggio di ritorno nel grembo della città proletaria, quella Tarde Vecchje che lo ha accolto con la sua bandiera e le sue canzoni.
Di quelle tre giornate passate al fresco, lui raccontava: "Durante l'ora d'aria grattini e carcerati vari mi chiedevano: Cos'hai fatto, Mustaki? Rispondevo sinceramente. E loro: Ma chi te l'ha fatta fare!". Cosa spingeva Isadora Duncan a danzare e Jimi Hendrix a suonare la chitarra? Cosa spingeva un ragazzo dei vicoli a ribellarsi di fronte ad ogni sopraffazione? Forse si nasce sotto una stella rossa. Che la vecchia banda continui a suonare, in onore di Salvatore Gigante, detto Mustaki!
Etichette:
Moustaki,
Taranto '68,
Taranto anni '70
sabato 11 maggio 2013
Eja, Eja, baccalà! (Jacovitti)
"Eja, Eja, baccalà!" (Jacovitti)
di Roberto Nistri
© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Scintille", dicembre 1998
Una vivace assemblea, la serata del 25 giugno 1998: su iniziativa del Centro ricerche e studi "Piero Calamandrei" si è discusso attorno a "Il ventennio fascista a Taranto", l'ultimo parto parastoriografico di Giovanni Acquaviva, il già direttore del "Corriere del Giorno" e cronista della "Voce del Popolo" negli anni Trenta, da oltre sessant' anni l'unico vero "intellettuale organico" nella città bimare. In quell' occasione abbiamo contestato un po' duramente l'immagine abbastanza edulcorata del "ventennio" che Acquaviva ha proposto, rimuovendo completamente tutti i perseguitati, i licenziati, i torturati, i carcerati, i confinati. Dimenticando completamente tutti i lavoratori ammazzati dai fascisti o morti in carcere: Raffaele Favia, Giuseppe Migliaresi, Francesco Mellone, Totò Voccoli, Antonio De Valeris, Alessandro Volta, Umberto Candelli ... Del resto, nell' altro recente libro di Acquaviva, "Il 900 a Taranto", si può leggere: "l'antifascismo qui non emergeva, a livello di massa; in verità non c'era mai stato". Lo stesso oblio per i tarantini che hanno combattuto al nord come l'ufficiale di artiglieria Pietro Pandiani, quel "Capitano Pietro" che comandò la Brigata "Giustizia e Libertà". Mentre, scrive sempre Acquaviva in un altro suo libro, "Un altro provinciale", era viva "l'impressione tutta negativa, specialmente nel Mezzogiorno d'Italia, delle nefandezze, dei delitti compiuti al Nord durante la cosiddetta Resistenza" (sic).
Ma allora, cosa ci racconta Acquaviva degli anni del fascismo? Spende tre pagine per illustrare il 31° Congresso della "Dante Alighieri", l'ospizio di tutti i grafomani locali, dove il trombone Criscuolo discettava su "Gli uomini belli: da Antinoo a Valentino", e non dice una parola sul fatto che, nello stesso periodo, fra il giugno e l'ottobre del '26, venivano arrestati oltre trenta lavoratori, che non avevano torto un capello a chicchessia: tutti condannati dal Tribunale speciale, Odoardo Voccoli a 12 anni e sei mesi! Si parla di una terribile battaglia che dovette affrontare l'arcivescovo Mazzella, che nel '34 "si trovò a fronteggiare ... la massiccia predicazione di un pastore valdese". Ma non si racconta l'esito dell'epico scontro: il poveraccio, il pulsanese Michele Mandrillo, venne arrestato per aver letto pubblicamente la "Lettera ai Romani". Viene menzionata una visita di D'Annunzio alla libreria Filippi, ma si dimentica l'arresto di Ulderico Filippi per aver conservato in magazzino libri "proibiti". Di passaggio Acquaviva attribuisce al Fascismo "il riscatto del mondo femminile" e fornisce un gustoso esempio con la confezione dei "pacchi coloniali": le donne "si impegnano con entusiasmo in questo compito, che è loro particolarmente congeniale". Poteva anche citare una richiesta del federale Magnini al prefetto (da noi pubblicata) di licenziare le donne impiegate negli uffici per dare i posti a disoccupati maschi.
Così vede la storia Acquaviva . Quando gli viene fatto notare che nelle sue opere di "storia" non viene offerta alcuna fonte documentaria, risponde candidamente che non ne vede il motivo. E mentre polemizzavo con lui, mi sono ricordato di botto che in tal maniera stavo celebrando il trentennale della mia prima contestazione a Giannino Acquaviva. Si era alla fine della primavera del '68: c'era stato il Maggio francese, la ribellione giovanile stava surriscaldando il mondo intero, la critica ormai travalicava la questione specificamente universitaria e investiva complessivamente il Sistema, diventava "contestazione globale". Anche a Taranto la discussione e la provocazione si diffondevano ovunque, utilizzando le sedi più eccentriche, come il Sindacato dei pensionati in piazza Garibaldi o la parrocchia di S. Pasquale. Si interveniva con argomenti e con un linguaggio del tutto inusuali in certi ambienti, molti si offendevano e molti battevano le mani, e comunque le carte si rimescolavano e non pochi si mettevano in discussione e ogni giorno nuovi personaggi partecipavano alla festa. L'happening in piazza non finiva mai, e ci fu anche un' assemblea registrata dalla Rai-Tv: Cresci ci fece un'intervista per il servizio "I giovani a Taranto.
Decidemmo di andare a contestare un'assemblea convocata presso il salone della Provincia, presieduta dall' arcivescovo Motolese, per discutere una Lettera pastorale sul problema dei giovani. Prendemmo l'iniziativa per spassarcela un poco, ma c'erano anche motivi seri. Chi aveva frequentato il movimento sin dall'inizio poteva avvertire alcune cose che in seguito, nel 1971, vennero scientificamente elaborate in un' inchiesta apparsa su "Rassegna italiana di sociologia": il 44% dei gruppi extra istituzionali attingevano i propri seguaci esclusivamente dal mondo cattolico, il 20% da quello marxista e il 15% da entrambi. Il confronto poteva quindi essere interessante. Ma, come mettemmo il naso in quell'inquietante adunanza, ci passò tutta la fantasia. Qualcuno aveva dato segni di sgomento all' ingresso della nostra gagliarda combriccola, ma a noi era mancato veramente il fiato: atmosfera soffocante, facce grigie, parole così pesanti che, appena pronunciate, rotolavano sotto le sedie. Moderatore: Giannino Acquaviva. Ci venne immediatamente voglia di tornar a riveder le stelle.
Dal fondo del salone chiesi ad alta voce di poter intervenire e, preso il microfono, contestai quell' anacronistico discorso sui giovani, totalmente cieco e sordo di fronte all'agitazione che era in corso, la più grande rivoluzione giovanile della storia.
Dopo questa tirata, prende il microfono Acquaviva e cosa dice? "Vorrei tanto sapere quali voti ha sul suo libretto quello studente". Ci congedammo rumorosamente da lui e da tutto quell'egregio sinedrio. Ma, in verità, c'ero rimasto di stucco. Con quello che accadeva dall'Europa agli Stati Uniti, dal Vietnam al Giappone, di che cosa s'interessava Acquaviva? Dei voti miei. Il culto dell'inessenziale: una caratteristica tutta tarantina. Indichi la luna e ti guardano il dito.
Ultimo esempio, dal libro di Acquaviva sul Fascismo. Vengono promulgate le leggi razziali, ma non è grosso il problema "relativo agli ebrei: a Taranto, si viene a sapere, ce n'è una quindicina, ma si tratta di persone perfettamente integrate che non danno perciò alcuna preoccupazione". In verità gli ebrei non davano preoccupazioni a nessuno da nessuna parte ed erano ovunque perfettamente integrati (anche nel partito fascista). Sembra invece che siano stati i fascisti a dare qualche preoccupazione agli ebrei, tanto da provocare una loro disintegrazione. E questo è l'essenziale. Per la storia. Non per Giannino Acquaviva che avviò la sua lunga carriera di giornalista aprendosi un varco proprio come specialista in antisemitismo. Quelli erano tempi...
di Roberto Nistri
© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Scintille", dicembre 1998
Una vivace assemblea, la serata del 25 giugno 1998: su iniziativa del Centro ricerche e studi "Piero Calamandrei" si è discusso attorno a "Il ventennio fascista a Taranto", l'ultimo parto parastoriografico di Giovanni Acquaviva, il già direttore del "Corriere del Giorno" e cronista della "Voce del Popolo" negli anni Trenta, da oltre sessant' anni l'unico vero "intellettuale organico" nella città bimare. In quell' occasione abbiamo contestato un po' duramente l'immagine abbastanza edulcorata del "ventennio" che Acquaviva ha proposto, rimuovendo completamente tutti i perseguitati, i licenziati, i torturati, i carcerati, i confinati. Dimenticando completamente tutti i lavoratori ammazzati dai fascisti o morti in carcere: Raffaele Favia, Giuseppe Migliaresi, Francesco Mellone, Totò Voccoli, Antonio De Valeris, Alessandro Volta, Umberto Candelli ... Del resto, nell' altro recente libro di Acquaviva, "Il 900 a Taranto", si può leggere: "l'antifascismo qui non emergeva, a livello di massa; in verità non c'era mai stato". Lo stesso oblio per i tarantini che hanno combattuto al nord come l'ufficiale di artiglieria Pietro Pandiani, quel "Capitano Pietro" che comandò la Brigata "Giustizia e Libertà". Mentre, scrive sempre Acquaviva in un altro suo libro, "Un altro provinciale", era viva "l'impressione tutta negativa, specialmente nel Mezzogiorno d'Italia, delle nefandezze, dei delitti compiuti al Nord durante la cosiddetta Resistenza" (sic).
Ma allora, cosa ci racconta Acquaviva degli anni del fascismo? Spende tre pagine per illustrare il 31° Congresso della "Dante Alighieri", l'ospizio di tutti i grafomani locali, dove il trombone Criscuolo discettava su "Gli uomini belli: da Antinoo a Valentino", e non dice una parola sul fatto che, nello stesso periodo, fra il giugno e l'ottobre del '26, venivano arrestati oltre trenta lavoratori, che non avevano torto un capello a chicchessia: tutti condannati dal Tribunale speciale, Odoardo Voccoli a 12 anni e sei mesi! Si parla di una terribile battaglia che dovette affrontare l'arcivescovo Mazzella, che nel '34 "si trovò a fronteggiare ... la massiccia predicazione di un pastore valdese". Ma non si racconta l'esito dell'epico scontro: il poveraccio, il pulsanese Michele Mandrillo, venne arrestato per aver letto pubblicamente la "Lettera ai Romani". Viene menzionata una visita di D'Annunzio alla libreria Filippi, ma si dimentica l'arresto di Ulderico Filippi per aver conservato in magazzino libri "proibiti". Di passaggio Acquaviva attribuisce al Fascismo "il riscatto del mondo femminile" e fornisce un gustoso esempio con la confezione dei "pacchi coloniali": le donne "si impegnano con entusiasmo in questo compito, che è loro particolarmente congeniale". Poteva anche citare una richiesta del federale Magnini al prefetto (da noi pubblicata) di licenziare le donne impiegate negli uffici per dare i posti a disoccupati maschi.
Così vede la storia Acquaviva . Quando gli viene fatto notare che nelle sue opere di "storia" non viene offerta alcuna fonte documentaria, risponde candidamente che non ne vede il motivo. E mentre polemizzavo con lui, mi sono ricordato di botto che in tal maniera stavo celebrando il trentennale della mia prima contestazione a Giannino Acquaviva. Si era alla fine della primavera del '68: c'era stato il Maggio francese, la ribellione giovanile stava surriscaldando il mondo intero, la critica ormai travalicava la questione specificamente universitaria e investiva complessivamente il Sistema, diventava "contestazione globale". Anche a Taranto la discussione e la provocazione si diffondevano ovunque, utilizzando le sedi più eccentriche, come il Sindacato dei pensionati in piazza Garibaldi o la parrocchia di S. Pasquale. Si interveniva con argomenti e con un linguaggio del tutto inusuali in certi ambienti, molti si offendevano e molti battevano le mani, e comunque le carte si rimescolavano e non pochi si mettevano in discussione e ogni giorno nuovi personaggi partecipavano alla festa. L'happening in piazza non finiva mai, e ci fu anche un' assemblea registrata dalla Rai-Tv: Cresci ci fece un'intervista per il servizio "I giovani a Taranto.
Decidemmo di andare a contestare un'assemblea convocata presso il salone della Provincia, presieduta dall' arcivescovo Motolese, per discutere una Lettera pastorale sul problema dei giovani. Prendemmo l'iniziativa per spassarcela un poco, ma c'erano anche motivi seri. Chi aveva frequentato il movimento sin dall'inizio poteva avvertire alcune cose che in seguito, nel 1971, vennero scientificamente elaborate in un' inchiesta apparsa su "Rassegna italiana di sociologia": il 44% dei gruppi extra istituzionali attingevano i propri seguaci esclusivamente dal mondo cattolico, il 20% da quello marxista e il 15% da entrambi. Il confronto poteva quindi essere interessante. Ma, come mettemmo il naso in quell'inquietante adunanza, ci passò tutta la fantasia. Qualcuno aveva dato segni di sgomento all' ingresso della nostra gagliarda combriccola, ma a noi era mancato veramente il fiato: atmosfera soffocante, facce grigie, parole così pesanti che, appena pronunciate, rotolavano sotto le sedie. Moderatore: Giannino Acquaviva. Ci venne immediatamente voglia di tornar a riveder le stelle.
Dal fondo del salone chiesi ad alta voce di poter intervenire e, preso il microfono, contestai quell' anacronistico discorso sui giovani, totalmente cieco e sordo di fronte all'agitazione che era in corso, la più grande rivoluzione giovanile della storia.
Dopo questa tirata, prende il microfono Acquaviva e cosa dice? "Vorrei tanto sapere quali voti ha sul suo libretto quello studente". Ci congedammo rumorosamente da lui e da tutto quell'egregio sinedrio. Ma, in verità, c'ero rimasto di stucco. Con quello che accadeva dall'Europa agli Stati Uniti, dal Vietnam al Giappone, di che cosa s'interessava Acquaviva? Dei voti miei. Il culto dell'inessenziale: una caratteristica tutta tarantina. Indichi la luna e ti guardano il dito.
Ultimo esempio, dal libro di Acquaviva sul Fascismo. Vengono promulgate le leggi razziali, ma non è grosso il problema "relativo agli ebrei: a Taranto, si viene a sapere, ce n'è una quindicina, ma si tratta di persone perfettamente integrate che non danno perciò alcuna preoccupazione". In verità gli ebrei non davano preoccupazioni a nessuno da nessuna parte ed erano ovunque perfettamente integrati (anche nel partito fascista). Sembra invece che siano stati i fascisti a dare qualche preoccupazione agli ebrei, tanto da provocare una loro disintegrazione. E questo è l'essenziale. Per la storia. Non per Giannino Acquaviva che avviò la sua lunga carriera di giornalista aprendosi un varco proprio come specialista in antisemitismo. Quelli erano tempi...
giovedì 9 maggio 2013
Il balilla in collina
"Il balilla in collina"
di Roberto Nistri
© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Corriere del Giorno", 10 gennaio 1998
L'immagine dell' infanzia aggredita e mortificata, comune denominatore degli sterminati scenari di sopraffazione e avvilimento che avvolgono la luccicante vetrina della società opulenta, rimane sempre un criterio forte per chiamare a giudizio la Storia maiuscola, quel grande fiume della prepotenza che sui libri di scuola celebra i suoi trionfi travolgendo i dimenticati, i tanti "piccoli" senza nome. Speriamo che lo studio del '900 faccia finalmente entrare nelle scuole anche un romanzo come " La storia" di Elsa Morante, che tanti dibattiti e polemiche suscitò nel momento della sua pubblicazione, nel 1974. L'autrice opponeva alla Storia con la S maiuscola la vicenda minuscola, ma tragica, delle "cavie", che non sanno il perché della loro morte, o dei "piccoli" del Vangelo di Luca: la maestra elementare calabrese Iduzza e il suo bambinello Useppe, annientati dalla guerra e dal dopoguerra, erano gli "emarginati dalla storia" ("terza specie", secondo la Morante, rispetto ai ricchi che si nutrono "a spese dei poveri", e ai poveri che tendono "a pigliare il posto dei ricchi"), rappresentanti di un mondo "necessariamente e come fatalmente subalterno, perchè non ha neppure la coscienza di esserlo" (Romano Luperini).
Ma anche la storiografia più rigorosa, che ha imparato ormai ad avvalersi criticamente delle testimonianze "minime" e delle tradizioni orali, può reperire nel diario di un bambino un autentico patrimonio di documentazione civica. Così un diario di vita scolastica, compilato dal piccolo Antonio Amatulli quando frequentava la quarta elementare nel 1931/32, costitui-
sce il filo conduttore di una preziosa ricerca di microstoria municipale, pubblicata dalla Scorpione Editrice:" Quando eravamo balilla. Frammenti degli anni '20 e '30 a Mottola". Un nutrito gruppo di studiosi (R. Colucci D'Eredità; A. Amatulli, S. N. Maglie, T. Errico, D. Scapati, P. Lentini, R. Mandorino, V. Fumarola, A. De Santo, S. Caragnano) ha lavorato sapientemente su testi e immagini, restituendo tutta la sua ricchezza e la sua complessità, in un sempre difficile equilibrio fra localismo e globalismo, ad una situazione esemplare di fascismo rurale nel Mezzogiorno.
Così Antonio descrive il primo giorno di scuola: "Alzandomi questa mattina mi sentivo molto più allegro perché pensavo alla scuola. Al suono della sirena mi sono incamminato per la strada e pò in gondrato tutti i miei vecchi compagni di classe. Ci siamo salutati romanamente e poi endrati in una nuova aula abbiamo ritrovato il nostro amato professore". È costui il vero destinatario della traballante grammatica di Antonio: la stesura del diario quotidiano è una pratica largamente diffusa nella scuola primaria dell' epoca fascista, "una sorta di indiretto controllo sulla ortodossia politica ed ideologica della famiglia e dell' ambiente sociale dello scolaro" (S. Maglio).
L'ossequio al regime è garantito: "Oggi il nostro maestro in classe ci à fatto una conferenza sui benefici che l'Italia faceva alle altre Nazioni. A' liberato la Francia che oggi non doveva essere alla luce del mondo, come anche la Siberia, ed altre Nazioni aleate. Ma adesso la Francia, la Siberia, unite con le altre N azione, sono i più terribili nemici dell' Italia, dopo avergli salvato la vita". Con sicura soddisfazione del maestro, la conclusione è perentoria: "Doveva essere allora il nostro amato Duce come adesso per comandare tutto" (20 maggio 1932).
Autentica è l'esultanza per l'inaugurazione della fontana monumentale posta in piazza Plebiscito: "hanno venuto tanti Fascisti forestieri, dopo e venuto il Prefetto e siamo andati a benedire la fontanina. Mentre il Parago la benedetta la commara apresa una bottiglia scimpagnia la peso al collo di un pescio, gli adato un urto e la bottiglia si è rotta, allora la fontanina si a messo abbuttare acqua. In piazza era tutto alluminato che sembrava un paradiso. Evviva il nostro Duce che cià data la basa principale del nostro paese".
Con sincerità emerge anche la miserella condizione sociale del piccolo Amatulli. La madre vedova e disoccupata, con a carico sei figli in tenera età, non si può permettere di regalargli un gelato o di riempirgli la calzina il giorno della Befana: "lo era tanto aflitto perché la mia madre non mià potuto cresimare per mancanza del vestito nuovo". Pure riesce a tirare fuori senza fiatare qualche spicciolo per la "Croce Rossa": presiede la raccolta dei fondi il potente ras fascista Giuseppe Turi (la cui figura viene attentamente ricostruita da Sergio Maglio in alcuni capitoli di notevole cura storiografica).
In una provincia che nel ventennio non riesce ad esprimere una forte e caratterizzante leadership politica, dove anzi lo scontro fratricida tra i clan dei gerarchi legati ai vari potentati pugliesi si protrae senza fine, l' avv. Turi si segnala fra i pochi protagonisti di un qualche rilievo. Di estrazione liberale, con passeggere simpatie per i socialisti, si lega subito al Fascio mottolese (il primo ad essere costituito nel Circondario di Taranto), viene eletto per acclamazione segretario federale del P.N.F. di Terra Jonica, nel '27 è il primo Podestà di Mottola e nel '29 viene nominato primo Preside della Provincia dello Jonio.
La sua folgorante carriera viene troncata agli inizi del '39 dalle furibonde lotte di fazione, in sintonia con il declino del suo referente nazionale, Achille Starace. Grazie al suo peso politico, Mottola ha goduto di un potenziamento reale della sua rete di servizi pubblici ed infrastrutture civili. Pur rimanendo sostanzialmente in una condizione di sottosviluppo economico e sociale, il paese sulla collina elabora miticamente l'età del'oro" ormai conclusa, mentre il castello di carte del regime è ormai prossimo al suo inglorioso crollo. Nel suo diario il balilla Antonio aveva mostrato di saper affrontare le miserie e i dolori del quotidiano, grazie alla speranza che "se Dio vuole ci farà campiare condizione".
di Roberto Nistri
© Roberto Nistri. Tutti i diritti sono riservati. Opera già edita a stampa in "Corriere del Giorno", 10 gennaio 1998
L'immagine dell' infanzia aggredita e mortificata, comune denominatore degli sterminati scenari di sopraffazione e avvilimento che avvolgono la luccicante vetrina della società opulenta, rimane sempre un criterio forte per chiamare a giudizio la Storia maiuscola, quel grande fiume della prepotenza che sui libri di scuola celebra i suoi trionfi travolgendo i dimenticati, i tanti "piccoli" senza nome. Speriamo che lo studio del '900 faccia finalmente entrare nelle scuole anche un romanzo come " La storia" di Elsa Morante, che tanti dibattiti e polemiche suscitò nel momento della sua pubblicazione, nel 1974. L'autrice opponeva alla Storia con la S maiuscola la vicenda minuscola, ma tragica, delle "cavie", che non sanno il perché della loro morte, o dei "piccoli" del Vangelo di Luca: la maestra elementare calabrese Iduzza e il suo bambinello Useppe, annientati dalla guerra e dal dopoguerra, erano gli "emarginati dalla storia" ("terza specie", secondo la Morante, rispetto ai ricchi che si nutrono "a spese dei poveri", e ai poveri che tendono "a pigliare il posto dei ricchi"), rappresentanti di un mondo "necessariamente e come fatalmente subalterno, perchè non ha neppure la coscienza di esserlo" (Romano Luperini).
Ma anche la storiografia più rigorosa, che ha imparato ormai ad avvalersi criticamente delle testimonianze "minime" e delle tradizioni orali, può reperire nel diario di un bambino un autentico patrimonio di documentazione civica. Così un diario di vita scolastica, compilato dal piccolo Antonio Amatulli quando frequentava la quarta elementare nel 1931/32, costitui-
sce il filo conduttore di una preziosa ricerca di microstoria municipale, pubblicata dalla Scorpione Editrice:" Quando eravamo balilla. Frammenti degli anni '20 e '30 a Mottola". Un nutrito gruppo di studiosi (R. Colucci D'Eredità; A. Amatulli, S. N. Maglie, T. Errico, D. Scapati, P. Lentini, R. Mandorino, V. Fumarola, A. De Santo, S. Caragnano) ha lavorato sapientemente su testi e immagini, restituendo tutta la sua ricchezza e la sua complessità, in un sempre difficile equilibrio fra localismo e globalismo, ad una situazione esemplare di fascismo rurale nel Mezzogiorno.
Così Antonio descrive il primo giorno di scuola: "Alzandomi questa mattina mi sentivo molto più allegro perché pensavo alla scuola. Al suono della sirena mi sono incamminato per la strada e pò in gondrato tutti i miei vecchi compagni di classe. Ci siamo salutati romanamente e poi endrati in una nuova aula abbiamo ritrovato il nostro amato professore". È costui il vero destinatario della traballante grammatica di Antonio: la stesura del diario quotidiano è una pratica largamente diffusa nella scuola primaria dell' epoca fascista, "una sorta di indiretto controllo sulla ortodossia politica ed ideologica della famiglia e dell' ambiente sociale dello scolaro" (S. Maglio).
L'ossequio al regime è garantito: "Oggi il nostro maestro in classe ci à fatto una conferenza sui benefici che l'Italia faceva alle altre Nazioni. A' liberato la Francia che oggi non doveva essere alla luce del mondo, come anche la Siberia, ed altre Nazioni aleate. Ma adesso la Francia, la Siberia, unite con le altre N azione, sono i più terribili nemici dell' Italia, dopo avergli salvato la vita". Con sicura soddisfazione del maestro, la conclusione è perentoria: "Doveva essere allora il nostro amato Duce come adesso per comandare tutto" (20 maggio 1932).
Autentica è l'esultanza per l'inaugurazione della fontana monumentale posta in piazza Plebiscito: "hanno venuto tanti Fascisti forestieri, dopo e venuto il Prefetto e siamo andati a benedire la fontanina. Mentre il Parago la benedetta la commara apresa una bottiglia scimpagnia la peso al collo di un pescio, gli adato un urto e la bottiglia si è rotta, allora la fontanina si a messo abbuttare acqua. In piazza era tutto alluminato che sembrava un paradiso. Evviva il nostro Duce che cià data la basa principale del nostro paese".
Con sincerità emerge anche la miserella condizione sociale del piccolo Amatulli. La madre vedova e disoccupata, con a carico sei figli in tenera età, non si può permettere di regalargli un gelato o di riempirgli la calzina il giorno della Befana: "lo era tanto aflitto perché la mia madre non mià potuto cresimare per mancanza del vestito nuovo". Pure riesce a tirare fuori senza fiatare qualche spicciolo per la "Croce Rossa": presiede la raccolta dei fondi il potente ras fascista Giuseppe Turi (la cui figura viene attentamente ricostruita da Sergio Maglio in alcuni capitoli di notevole cura storiografica).
In una provincia che nel ventennio non riesce ad esprimere una forte e caratterizzante leadership politica, dove anzi lo scontro fratricida tra i clan dei gerarchi legati ai vari potentati pugliesi si protrae senza fine, l' avv. Turi si segnala fra i pochi protagonisti di un qualche rilievo. Di estrazione liberale, con passeggere simpatie per i socialisti, si lega subito al Fascio mottolese (il primo ad essere costituito nel Circondario di Taranto), viene eletto per acclamazione segretario federale del P.N.F. di Terra Jonica, nel '27 è il primo Podestà di Mottola e nel '29 viene nominato primo Preside della Provincia dello Jonio.
La sua folgorante carriera viene troncata agli inizi del '39 dalle furibonde lotte di fazione, in sintonia con il declino del suo referente nazionale, Achille Starace. Grazie al suo peso politico, Mottola ha goduto di un potenziamento reale della sua rete di servizi pubblici ed infrastrutture civili. Pur rimanendo sostanzialmente in una condizione di sottosviluppo economico e sociale, il paese sulla collina elabora miticamente l'età del'oro" ormai conclusa, mentre il castello di carte del regime è ormai prossimo al suo inglorioso crollo. Nel suo diario il balilla Antonio aveva mostrato di saper affrontare le miserie e i dolori del quotidiano, grazie alla speranza che "se Dio vuole ci farà campiare condizione".
Iscriviti a:
Post (Atom)