martedì 24 dicembre 2013

Il mago e la politica

Il mago e la politica

Disponibile in lettura in formato pdf il mio saggio: Il mago e la politica in P. ARESTA (a cura di), Giordano Bruno, nolano e cittadino europeo, Atti della giornata di studi nel IV centenario del rogo - Grottaglie gennaio 2002, Scorpione ed., Taranto 2004.
ISBN: 9788880991236
E' possibile acquistare il volume anche on line, cliccando qui sotto:

Scorpione editrice

La ballata degli affumicati. Recensione di Alessandro Leogrande


La ballata degli affumicati

Taranto /Ilva Nel libro di Nistri le radici del disastro di oggi

di Alessandro Leogrande

tratto da: Corriere del Mezzogiorno, 17 dicembre 2013, p. 13

L'ultimo libro di Roberto Nistri, “La ballata degli affumicati” (appena pubblicato dalle baresi Edizioni dal Sud) è una carrellata nella storia recente della città di Taranto. Parafrasando Churchill, si potrebbe dire che Taranto è uno di quei posti che producono più storia di quanta ne possano digerire; ed è questo, forse, uno dei motivi che spiega la copiosa produzione libraria, recente e meno recente, intorno al racconto delle sue vicende. Ci sono stati libri riusciti e libri meno riusciti, libri scritti a distanza (spesso eccessiva) e libri che nascono dalle sue viscere. Nistri è uno dei maggiori interpreti dei fatti accaduti in riva allo Jonio nel Novecento: la gran parte dei suoi libri nasce da un corpo a corpo costante, complesso con la sua città. “La ballata degli affumicati” si colloca quindi su una lunga scia: appena un anno fa, ad esempio, era uscito per Scorpione “Tarentinità. Un'identità residua”. Nella “Ballata” si parla molto degli ultimi due anni di vita cittadina, dell'esplosione del caso Ilva e del nodo irrisolto salute-lavoro, del sistema Riva creatosi dentro e fuori la fabbrica. È una cronaca ragionata degli eventi che aiuta a raccogliere quanto, nella velocità del loro susseguirsi, rischia di andare smarrito. Ma la parte più interessante del libro è forse la prima, quella in cui viene ripercorsa la nascita del siderurgico, la costruzione di quella che il sociologo Domenico De Masi ha chiamato la “fabbrica più moderna del mondo più arretrato”. Molti dei mali tarantini si annidano nel cuore del Novecento, e per capire perché la vicenda appare oggi tanto intricata bisogna (anche) puntare gli occhi nel passato: non è vero, lascia intendere, Nistri che le uniche responsabilità del disastro ambientale siano quelle di “colonizzatori” venuti da fuori. Una parte di città non ha solo voluto la fabbrica: ha tratto vantaggi proprio da “quella” fabbrica, costruita in quel modo, ai bordi della città. “A distanza di mezzo secolo”, scrive Nistri, “ancora ci si chiede secondo quale logica volpina sia stato possibile posizionare un monstruum di tal fatta bocca a bocca con lo spazio abitato. Una costruzione all’incontrario: con l’area a freddo, meno inquinante, posizionata lontana dall’abitato, mentre l’area a caldo, la più tossica, veniva installata a ridosso delle case, tutte preesistenti all’insediamento, come il vecchio cimitero.” Intorno alla vendita dei suoli si scatenò una lotta feroce tra due cordate di imprenditori edili che attraversò il potere democristiano dell'epoca e le classi dirigenti della città. Nistri fa tutti i nomi, oggi in parte dimenticati, di quella storia decisiva. Altro dettaglio ben sottolineato nel libro: la percezione dell'inquinamento non è un fatto recente. Già nell'aprile del 1971 si tenne un convegno sul tema “Inquinamento ambientale e salute pubblica”, in cui l’assessore regionale Giovanni Di Lonardo proclamava: “Non accettiamo questa industrializzazione in maniera indiscriminata, senza salvaguardare la vita e la salute dei nostri concittadini”, mentre venivano presentate relazioni sulle emissioni notturne e sullo stato, già allora compromesso, del Mar Piccolo. Sempre nel 1971, Antonio Cederna scriveva un articolo, “Taranto strangolata dal Boom”, in cui stigmatizzava la cementificazione selvaggia e definiva quello tarantino “un processo barbarico d’industrializzazione. Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”. Era possibile costruire un siderurgico diverso, e soprattutto una città diversa, intorno a quel medesimo siderurgico. Ma le cose sono andate diversamente, anche perché Taranto è stata spesso laboratorio della peggior politica del Meridione. Nell’aprile del ’77 veniva diffuso sul settimanale “Dialogo” un allarmante dossier sulla nocività, curato dal dottor Luigi Colapietro dell’Ospedale SS. Annunziata. Nel 1978 Marcello Cometti pubblicava un'inchiesta sull’inquinamento su “Produttività jonica”, mentre su “Rinascita” usciva un reportage di Paolo Forcellini, il quale, recatosi al rione Tamburi, annotava: “Il fetore del gas si sente già a distanza anche in una automobile con i finestrini chiusi”. A esplodere trent'anni dopo è un viluppo sociale-economico incancrenitosi decennio dopo decennio. Nel passaggio dal pubblico al privato, poi, molti fattori del quadro complessivo si sono ulteriormente aggravati, e per certi versi la fabbrica è divenuto un luogo ancora più impenetrabile. Oggi che può aprirsi una nuova fase, qualsiasi cosa voglia farsi di Taranto e della sua fabbrica, bisognerà ricordare la storia che ha generato una delle più gravi crisi ambientali che l'Italia ricordi. Quella storia è specchio dell'Italia e del suo funzionamento, e di come molte analisi lucidamente espresse nei decenni passati siano rimaste inascoltate.

giovedì 19 dicembre 2013

La ballata degli affumicati. Recensione di Gaetano De Monte


La ballata degli affumicati

Ovvero il racconto della città mutante, nell’ultimo libro di Roberto Nistri

di Gaetano De Monte


La ballata degli affumicati, è il titolo dell’ultimo pamphlet di Roberto Nistri, - storico,
filosofo, giornalista - da pochi giorni nelle librerie, Edizioni Dal Sud. Un diario di bordo, riconosce
lo stesso autore, scritto all’ombra della grande mammella siderurgica. Ma non solo. Perché nelle
centinaia di pagine scarse che compongono il libro, gonfio di citazioni filosofiche, letterarie, di film
e di canzoni, oltre la cinquantennale storia della fabbrica di morte che la fa da sfondo, c’è, in
massima parte, il racconto antropologico del cittadino di Taranto e della sua Provincia. Certo anche
e soprattutto nel rapporto con l’Ilva, la grande madre velenosa, ora. La grande balia statale, in un
tempo che sembra non sia mai stato vissuto, ma che in realtà ancora perdura.
Più che un libretto di storia, o un saggio di filosofia, è un’opera di antropologia, dunque, l’ultima
fatica dell’ex professore dell’Archita. Almeno a voler dare a quella parola, il senso proprio datole
dai sostantivi greci dalla quale deriva. Ovvero, άνθρωπος, ànthropos = "uomo" e λόγος, lògos = nel
senso di "studio". Quindi come discorso attorno all’uomo, visto da una molteplicità di angolature:
dal punto di vista sociale, culturale, fisico e dei suoi comportamenti nella società, quella tarantina in
generale, la siderurgica, nel particolare. Due, che fino a qualche anno fa erano legate da un
matrimonio che sembrava dovesse essere indissolubile, quello tra la fabbrica e la Città di Taranto,
appunto. Un sodalizio entrato in una fase di profonda frattura, forse irreversibile; anche se, non si sa
bene se per qualche prodigio di natura materiale o deficit culturale, la storia d’amore tra i veleni e
Taranto, - ne siamo certi - continuerà.
Almeno fino a quando non si conteranno su di un palmo una mano gli autori tarantini dal pensiero
lungo come lo storico Roberto Nistri, che nella Ballata degli Affumicati non si limita, e non si
arroga, il diritto di fare il punto, ma traccia delle linee: di fortuna, di movimento, di fuga. Teorizza
una cartografia dell’esodo per cercare di venire fuori da quella che definisce, “ la città mutante”.
Perché, scrive Nistri, citando Alessandro Baricco, “non si cambia nulla se non si acquisisce la
capacità di uccidere qualcosa. Non si costruisce quello che noi sogniamo come futuro se non
riusciamo, eterni mammoni, a staccarci da qualcosa che pure è stata parte di noi”. Dalla grande
mammella a cui Taranto doveva le ragioni del suo benessere, ed ora, i motivi di un disastro.
Bisogna saper osare, lascia intendere il Nistri degli ultimi anni, seduto rigorosamente dalla parte del
torto. Ed è per questo, forse, che il Professore ama ripetere, spesso, una citazione dal film francese
“L’odio”, diretto dal regista Mathieu Kassovitz: “questa è la storia di un uomo che cade da un
palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio
si ripete: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Ma il problema non è la caduta, è l’atterraggio,
si concludeva così, la scena iniziale di quel film; metafora perfetta per la parabola di Taranto e della
sua industrializzazione malata. Che lo storico usa per ribadire che occorre una rivolta del pensiero,
capace di riaprire il tempo. Per farla finita con lo stato di eccezione permanente. Con aziende dal
governo caporalesco. Con fabbriche di morte dall’identità preistorica, senza precedenti nella storia
delle relazioni industriali, in Italia.
Quasi un grido di dolorosa colpevolezza è quello che lancia l’autore verso la fine del pamphlet: il
pessimismo del presente, qui, lascia il posto all’analisi della bellezza perduta: “perchè apparteniamo
all’ultima generazione che ha vissuto, combattuto e amato sotto un cielo di Taranto non trafitto
dalle ciminiere. Perché abbiamo visto scomparire lidi e paesaggi omerici”. E ancora, “perché
abbiamo visto, ingoiato dall’Iri, dissolversi un patrimonio di 80 anni di cantieristica, l’unica
fabbrica che realmente poteva essere convertita dal navalmilitare alla nautica da diporto”. Parole
dure come pietre quelle che usa Nistri, per raccontare le biografie di alcuni uomini che hanno
condizionato, speculando, il nostro recente passato; uno di loro, viene raccontato, attraverso la
figura, dai più poco conosciuta, di immobiliarista, anche se in realtà faceva un altro mestiere. Di lui
è stato scritto che allo stesso tempo “poteva essere il Prefetto, il Sindaco, il Presidente della Camera
di Commercio, il Presidente dell’Associazione Industriali”. Peccato che avrebbe dovuto essere un
prete, innanzitutto. L’arcivescovo Guglielmo Motolese, che certo Nistri non considera il tarantino
del secolo, come invece, anni fa, lo incoronò, al termine di un sondaggio, un giornale locale. Con
buona pace della storia e della verità, evidentemente. Di un non tarantino, precisamente un toscano,
ma decisivo nelle vicende dell’industrializzazione, lo storico ne disegna nel libro il profilo di un
personaggio positivo: Alessandro Fantoli, dirigente Iri, poco più che trentenne che aveva militato
nella Resistenza in Toscana, descritto come un funzionario con la schiena dritta, illuminato,
cresciuto alla scuola di Adriano Olivetti, che si era trovato a giocare una scabrosa partita con vari
affaristi locali, prima di lasciare la città, richiamato dai democristiani romani, a loro volta sollecitati
da quelli martinesi, capeggiati dal fratello dell’arcivescovo, deputato Dc. Sarà pur vero che la storia
non si nutre di ipotesi, ma, forse se avessimo avuto più Fantoli e meno Motolese, avremmo avuto
una cittadinanza meno affumicata, chissà, sembra essere questo, il morale della favola. Per il resto
rimane l’antico, atavico dilemma, andare o restare. Di una cosa però Nistri, appare convinto, che “la
storia sarà raccontata da quelli che ritornano e da quelli che non ritornano”. Come dire che sarà la
fuga a dominare il prossimo secolo dei tarantini, “abbronzati e salati abitanti di un posto pieno di
tutto quello che manca”. E, comunque, “anche se non rimane nulla, è sempre bello scialare fra i due
mari”, ballando la danza degli affumicati.

martedì 1 ottobre 2013

Taranto dal 1943 al 1945: la difficile transizione nella Nuova Italia






Taranto dal 1943 al 1945: la difficile transizione nella Nuova Italia

Edizione ampliata di Taranto 1943-1945 apparso a stampa in “Taranto democratica”, Scorpione, Taranto 2013, pp. 33-49. Vietato utilizzare quest’opera senza il consenso dell’Autore.


© Roberto Nistri 2013.Tutti i diritti sono riservati.


                                                                                                                           Roma, 8 settembre

       Il Governo Italiano, riconosciuta l’ impossibilità di continuare l’ impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, Comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.
                                                                                                                             Pietro Badoglio



1)  La fine della guerra

     Il giorno in cui gli italiani “cambiarono guerra” , non venne vissuto dai tarantini in maniera traumatica. Una nottata di dolore era stata quella tra il 26 e il 27 agosto, quando il capoluogo aveva subìto una pioggia di bombe. La testimonianza del generale medico Alfonso Leone avrebbe fornito un cupo  quadro d’insieme sulle conseguenze dell’attacco aereo, durato circa mezz’ora nell’area ferroviaria sul rione Tamburi, colpendo anche gli scambi ferroviari di Punta Rondinella di fronte all’Ospedale e il nodo stradale fra Taranto e la Calabria.   In quell’area i tedeschi avevano organizzato un accampamento mimetizzando sotto gli alberi di un grande uliveto un parco di automezzi.  Le bombe causarono diverse vittime per il crollo di case popolari, ma il triste bilancio si accresceva con l’ultimo  bombardamento che  investiva la città il 29 agosto.  Nel periodo successivo Taranto veniva  risparmiata dagli anglo-americani, intenzionati a preservare gli impianti della base navale, per poterli poi utilizzare per lo sbarco.
       L’8 settembre del ’43 la cittadinanza tarantina visse l’annuncio dell’armistizio in maniera del tutto anomala rispetto al resto del paese: malgrado la presenza in Mar Grande delle corazzate Doria, Duilio e Giulio Cesare, con tre incrociatori, torpediniere e sommergibili, non venne sparato un solo colpo. Nella tarda serata due motosiluranti tedesche chiesero l’autorizzazione a lasciare il porto di Taranto, non prima di essersi rifornite di mine magnetiche nei depositi di Buffoluto. Gli occupanti avevano tuttavia cercato di minare il ponte girevole e le banchine del canale di accesso a Mar Piccolo. Il medico militare Alfonso Leone ha ricordato  di aver visto, qualche giorno prima dell’8 settembre, una squadra di scalpellini intenti a preparare, con evidente voluta lentezza, le buche sulle due sponde del canale, destinate ad accogliere le cariche di tritolo. Fortunatamente mancò il tempo per portare a termine l’operazione, ma un mezzo navale tedesco riuscì  a seminare mine nella rada di Mar Grande. Reparti germanici avrebbero tentato, senza riuscirvi, di penetrare nell’area dell’Arsenale militare. Il comandante tedesco si accordò con l’ammiraglio Brivonesi per una tranquilla dipartita notturna dei suoi 250 militari e così i tarantini, dal prefetto Innocenti al commissario al Comune Pampillonia, andarono a dormire, cullati dalla loro buona sorte.
      A 37 chilometri da Taranto, a Castellaneta, i tedeschi in fuga causarono le prime violenze. La piccola patria di Rodolfo Valentino si trovò, dal 9 all’11 settembre, alla mercè delle truppe germaniche che requisirono armi, automezzi e viveri. Per tagliare l’avanzata verso Bari alle forze inglesi che stavano sbarcando a Taranto, i tedeschi sabotarono il tratto ferroviario, tagliarono i cavi elettrici, piantarono mitragliatrici perfino nel cimitero. I castellanetani, guidati dal podestà Gabriele Semeraro, riuscirono a mettere in salvo scorte di farina e di zucchero, nonché casse di medicinali. L’11 settembre vi furono i primi scontri fra tedeschi e anglo-americani. I cittadini misero a punto un piano di difesa aggregando soldati e volontari ma,  infuriando la battaglia alle porte del paese, vennero uccise 25 persone. Tra esse tre soldati e il colonnello Salvatore Argentina di Francavilla Fontana.
        A Taranto,  poche ore dopo la partenza degli occupanti, arrivarono gli “altri”: alle 6,30 a Porta Napoli,  il parroco di San Cataldo, Guglielmo Motolese, venne bloccato da alcuni soldati canadesi che gli requisirono la Topolino. Intanto il fuggiasco Vittorio Emanuele - capo supremo di un esercito nei cui confronti si era macchiato di alto tradimento, abbandonandolo in balìa del nemico -  dopo aver lasciato i nostri soldati armistiziati e senza ordini di fronte ai carri armati tedeschi (nella difesa di Roma moriva il tarantino Massimo De Palma)  si affrettava per arrivare il giorno 10 a Brindisi,  capitale provvisoria dell’Italia libera. Nella città bimare, alle  17,30 del giorno 9,  le navi alleate entravano in Mar Grande. Verso la mezzanotte l’Abdiel, uno degli incrociatori inglesi che si accingeva alle operazioni di attracco,  saltava in aria a circa mille metri dal Castello aragonese, per l’attivazione di una mina, riportando gravi perdite. L’incidente rallentava lo sbarco angloamericano, per la necessaria opera di sminamento.  Per la Taranto “perla del Regime” e “città tre volte fascista”, liberata prima della Liberazione, iniziava un dopoguerra tutto particolare, mentre il resto della penisola doveva ancora affrontare i giorni dell’ira e del dolore.
       Quanto al fascismo jonico, esso era praticamente defunto prima ancora della nascita del governo Badoglio: nel giugno del ’43 i gerarchi tarantini, durante un’ispezione per la consegna del grano agli ammassi, venivano colti in flagrante chiancareddata:  una inopportuna abbuffata con “il nemico alle porte”, che giustificava il feroce sarcasmo inglese del “Daily Telegraph”. La direzione del Fascio veniva azzerata e ricostituita il 24 luglio, ma il giorno dopo il dittatore era gà deposto.  Il maresciallo Amalfitano, della squadra politica della questura, chiudeva la Federazione e si portava a casa le chiavi. Il 26 luglio il direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il tarantino squadrista Pupino Carbonelli,  faceva capire ai lettori di essere l’unico italiano non informato della fine del Regime. Quando veniva convinto dagli altri redattori  che non era più il caso di elogiare il Duce, Carbonelli scompariva dalla circolazione. Il 28 luglio la “Gazzetta” si decideva finalmente a comunicare la caduta del fascismo.  A Taranto il Prefetto non registrava “alcun turbamento dell’ordine pubblico”.  “La guerra ufficialmente era finita, mentre continuava” (Emilio Lussu).

2 )  L’occupazione alleata

      Dopo lo sbarco dei carri armati, la città cominciava a riempirsi di angloamericani, neozelandesi, australiani, canadesi, francesi, polacchi, algerini, marocchini, sudafricani, indiani, greci, con l’inevitabile  requisizione del cinquanta per cento delle case e dell’ottanta per cento degli edifici pubblici: occupati prima gli alberghi, le ville, gli appartamenti dei gerarchi fascisti e dei cittadini più ricchi, poi gli appartamenti comuni, in primis quelli dotati di stanza da bagno. In due o tre ore bisognava abbandonare mobili e biancheria e il town-major, a titolo di consolazione, suggeriva soltanto di supporre che una bomba avesse distrutto ogni casa. In città risultavano distrutte 800 abitazioni e duemila vani erano danneggiati.  Gli angloamericani si sistemavano nel Palazzo degli Uffici, con requisizione e sgombero del liceo “Archita”:  tutta la suppellettile veniva ammucchiata nel mercato di via Alfieri. I polacchi si sistemavano in Piazza Bettolo, i marocchini sul “monte delle vacche” presso Viale Virgilio,  gli indiani in via Duca di Genova. Gli inglesi occupavano anche il convento di S. Antonio, a ridosso della Villa Peripato: ivi veniva installata una piscina in cemento armato  for officiers only.
      La città era in preda al caos.  Quasi tutti i negozi erano chiusi e mancavano gli articoli di più largo consumo. Tutti i traffici si esercitavano in case e portoni. Rapidamente sorgevano efficienti organizzazioni per il commercio di farina, sigarette, coperte, scarpe, scatole di burro, di carne, di formaggio sottratte ai magazzini degli alleati. Nei pressi del ponte i grandi carri militari dovevano rallentare o fermarsi e la “roba” veniva fatta sparire in un baleno e inghiottita nei vicoli a opera delle bande di  panarijdde, ragazzini lesti e organizzati.  A nulla valevano le requisizioni dei red caps e i cartelli di off limits posti nei punti d’ingresso della città vecchia. Le varie forme di prostituzione e di violenza sessuale non si discostavano purtroppo da quelle ricorrenti nelle altre zone dell’Italia “liberata”. Gli incidenti più frequenti venivano provocati dai soldati inglesi ubriachi e un comportamento particolarmente aggressivo caratterizzava le truppe franco-marocchine. I problemi dovevano ulteriormente aggravarsi per la gran quantità di profughi che cominciavano a pervenire dalle zone di guerra  (già duemila alla fine di novembre, con una consistente presenza di ebrei). Per tempo si era provveduto alla installazione di un ospedale.
      Soddisfare la fame era il pensiero dominante:  si dava la caccia al pane bianco, alla polvere di piselli, al  corned beef.  Le ragazze partecipavano a feste da ballo mentre fratelli o fidanzati attendevano pazientemente fuori dai locali, nella speranza di rimediare qualche scatoletta.  Intanto cresceva una umorale e rozza offensiva nei confronti del commerciante “affamatore”. Eppure quella Taranto così degradata vantava un grande punto di forza: era l’unica città italiana ad aver mantenuto intatto il proprio impianto industriale.


    3 )  L’orgoglio dell’industria militare

      Come già nel primo dopoguerra,  solo gli arsenalotti e i cantierini continuavano a tenere alto il loro protagonismo sociale. Dall’8 settembre 1943 al 31 luglio 1945 venivano riparate ben 1846 navi:  621 della Marina da guerra alleata, 1022 mercantili, 203 piroscafi nazionali in servizio alleato, centinaia di unità da guerra italiane. Per circa 2.100 interventi si arrivavano a contare punte di 13.000 operai e 2.000 impiegati. I lavori venivano eseguiti a tempo di primato per ogni unità riparata. Le autorità navali britanniche si profusero in elogi e ampi riconoscimenti ai tecnici e alle maestranze dell’Arsenale e del Cantiere Tosi per la perizia professionale dimostrata, in particolare per la riparazione della  Abercrombie.  Il porto di Taranto sostenne per venti mesi l’iniziativa militare, garantendo anche il rimpatrio di decine di migliaia di militari italiani:  furono aperte le porte dell’Arcivescovado e venne installato il Campo di “S. Andrea”. 
     In questo Campo furono internati tra il febbraio e il maggio 1946, sotto il controllo inglese, circa diecimila prigionieri italiani: si andava da prigionieri catturati prima dell’ 8 settembre a internati appartenenti alle forze nazi-fasciste, fino ai cosiddetti “recalcitranti”: componenti delle Brigate Nere, della Legione  “Muti”, della X Mas , della “Folgore” e dei repubblichini del maresciallo Graziani. Dalla fine del ’45, man mano giungevano oltre 20.000 ex prigionieri provenienti da India, Kenia, Egitto, Sud Africa, Inghilterra. Era penoso il pellegrinaggio di parenti che giungevano da varie parti d’Italia per cercare contatto con propri congiunti.  Un campo provvisorio veniva allestito in un uliveto alla periferia di Taranto, per accogliere centinaia di ebrei di diversa nazionalità e slavi. Mentre andava esaurendosi l’impegno bellico, fra settembre e novembre  del 1945, si dovette  fronteggiare anche il flagello della peste.


 4 )  Il Comitato di Liberazione Nazionale

       La componente operaia, con il suo alto peso specifico nell’economia cittadina, con alle spalle un’antica tradizione organizzativa e una opposizione non eclatante ma comunque onorevole al regime fascista, aveva le carte in regola per guidare la transizione al postfascismo. “Rossi ed esperti”,  si diceva. A questa componente dovevano fare riferimento i capi delle organizzazioni politiche e popolari, per lo più confinati e fuoriusciti, che dopo lunghi anni di lontananza o di reclusione dovevano riorientarsi in una realtà magmatica e scombussolata. Del rinnovamento politico avrebbe dovuto farsi carico il Comitato di Liberazione Nazionale che tuttavia a Taranto non aveva liberato niente e nessuno e poteva solo collaborare con gli angloamericani. Non mancavano le discussioni, come quelle sulla toponomastica: in genere vennero ripristinati i toponimi del periodo pre-fascista, ma piazza Giordano Bruno non riuscì a riconquistare la sua vecchia targa. Il filosofo abbruciato dovette cedere il toponimo a Maria Immacolata.
       Nominato commissario al Comune l’avvocato Agilulfo Caramia, nel settembre del ’43 si costituiva il C.L.N.  nella tipografia del liberale Nicola Pappacena: presenti, oltre al proprietario del locale, Drago e Solari per i socialisti, Voccoli e Renzulli per i comunisti, Santulli per gli azionisti, D’Elia e Pierri per i democristiani. L’unico “intellettuale” del gruppo a godere di un certo prestigio culturale era  Ciro Drago, direttore del Museo, al cui interno aveva costituito clandestinamente una prima cellula del  C.L.N.  ospitando, su interessamento del comunista Voccoli, il senatore Palermo, perseguitato politico, responsabile per il Mezzogiorno della formazione dei Comitati. Al Drago si affiancavano i comunisti Latorre e La Sorsa, i cattolici Mastronuzzi e Sgarrone, il Lamanna per il Partito d’Azione (la consistenza dei socialisti e azionisti era quasi irrilevante).  Da parte loro i liberali si consideravano i legittimi rappresentanti della borghesia cittadina e gli eredi della tradizione municipale prefascista: tale componente doveva inevitabilmente riprodurre le vecchie fazioni rissose e personalistiche,  con un prevedibile approdo al partito de “L’Uomo Qualunque”.


 5 )  I cattolici in politica

     La Democrazia Cristiana sorgeva presso la sede della Fuci ma faticava a far emergere un gruppo dirigente che avesse una qualche memoria storica del vecchio Partito Popolare. Aveva tuttavia un sicuro punto di riferimento nel giornale “Giustizia sociale”: otto numeri fra il 28 novembre 1943 e il 16 gennaio 1944.  Il direttore responsabile era una figura abbastanza eccentrica nel panorama politico municipale, il medico e poeta Michele Pierri.  Ex marxista, uscito dal carcere fascista nel 1934,  aveva elaborato una forma di cattolicesimo di sinistra e aveva cercato di organizzare un gruppo di “opposizione illegale cattolica”, promuovendo nel 1944 un collegamento con la tendenza nazionale capeggiata da Franco Rodano.  Le idee progressiste di Pierri costituirono la base programmatica del primo nucleo democristiano,  alquanto radicale a giudicare dal manifesto  (pubblicato su “Giustizia sociale” del 28 novembre)  con cui il nuovo partito si presentava ai lavoratori:  “ La Democrazia cristiana, volendo realizzare nel campo sociale i principi di giustizia e di amore che sono contenuti nel Vangelo, intende restituire ad ogni lavoratore la dignità e la libertà economica calpestata dal capitalismo, facendo partecipare tutti i lavoratori  (…)  al possesso della proprietà  (…)  socializzando cooperativamente il grande capitalismo  (…).  Con tale base d’indipendenza economica, la Democrazia cristiana intende costruire uno Stato democratico,  che dia effettiva indipendenza sociale e politica ad ogni lavoratore e lo liberi dal timore di ritorni alla soggezione del capitalismo sotto qualsiasi forma”.  “La moltitudine dei proletari bisognosi - si legge nell’organo della sezione jonica della Dc - e il grandissimo esercito dei braccianti della campagna, ridotti a un’infima condizione di vita” pongono la necessità che  “in avvenire i capitali guadagnati non si accumulino se non con equa proporzione presso i ricchi,  e si distribuiscano con una certa ampiezza fra i prestatori d’opera”.
      In quel momento,  principale terreno d’intervento della propaganda democristiana era quello dell’ineguaglianza sociale,  affrontata non soltanto sul piano della redistribuzione della ricchezza, ma anche su quello dei rapporti di produzione. Partecipazione agli utili e ai capitali nei settori aziendali,  sviluppo della proprietà terriera tramite l’organizzazione di cooperative di credito, produzione e consumo,  erano i capisaldi del programma lanciato sulle colonne del tarantino “Giustizia sociale”,  che trovava riscontro nell’organo della Dc barese, “Il Risveglio”, che nel gennaio del ’44 avvertiva gli industriali che  “da un problema di ricchezza si passerà nel secondo dopoguerra a un problema di collaborazione nella produzione”.  Risultava robusta l’influenza del popolarismo sulla stampa, ma emergevano forti differenziazioni fra i gruppi dirigenti: non a caso nel ’46, con l’emarginazione della corrente popolarista, dovevano concludersi le vicende del barese “Risveglio” e del tarentino “Corriere jonico”.
       Se la Dc trovava difficoltà a inventarsi quasi dal niente un gruppo dirigente, il Partito comunista aveva buone credenziali per porsi alla testa dello schieramento antifascista: era l’unico partito ad aver conservato durante tutto il ventennio una opposizione organizzata al Regime, mantenendo solide radici nella classe operaia dell’Arsenale e dei Cantieri  (l’unica componente solida in una città allo sbando)  e potendo offrire l’esperienza di tre generazioni di dirigenti antifascisti da Voccoli a Latorre a De Falco. Malgrado la dabbenaggine dei gerarchi, succubi del salentino Starace o del foggiano Caradonna, il fascismo jonico non era stato un “regime da operetta”. Il suo volto più violento si era manifestato già nel luglio del ’21 con l’assassinio dell’operaio dei Cantieri “Tosi” Raffaele Favia e il 28 aprile del ’22 con l’uccisione del comunista Giuseppe Migliaresi. I comunisti potevano vantare quadri dirigenti temprati da una fiera opposizione, non scalfita dalla persecuzione e dalla prigionia: Odoardo Voccoli era stato condannato due volte dal Tribunale Speciale, prima a 12 e poi a 4 anni di carcere. Suo figlio Wsevolod era morto in carcere, come Alessandro Volta, Antonio De Valeris e i fratelli Mellone (condannati a 10 anni di carcere, Francesco moriva nel ’28 e Federico nel ’36).


6)  Le forze social-comuniste e i sindacati

        Si avviava prontamente la riorganizzazione e la sede del Partito veniva aperta il 21 novembre del ’43, in via Berardi n. 79:  “entrando per la prima volta, dopo  dopo vent’anni di vita clandestina e perseguitata, in una sede ufficiale nostra, rivedendo alla luce le nostre rosse bandiere ed i nostri fatidici simboli - che nascondemmo lungamente alle perquisizioni degli sgherri della reazione - un’onda di commozione ci è salita al cuore”.  Si formavano le cellule di partito e organismi come il Fronte della Gioventù e l’Unione Donne Italiane. Attraverso figure come Giuseppe Latorre, commissario provinciale dei sindacati dell’Industria,  i comunisti fornivano al movimento una proposta assai moderata e legalitaria, mirata a non esasperare le lotte rivendicative,  puntando piuttosto sul consolidamento dell’organizzazione sindacale in fabbrica.  Fra il ’43 e il ’48  l’organizzazione sindacale conosceva a Taranto il vertice della propria rappresentatività, mentre i partiti erano ancora impegnati in processi di omogeneizzazione interna.  Nel gennaio del ’44 si costituiva in Arsenale uno spaccio aziendale con adeguate attrezzature e mezzi di trasporto. Si avviava anche la gestione del cinema  “Cral Arsenale”, un centro culturale che doveva assolvere ad una funzione anche sociale e ricreativa,  e di un arenile fornito di cabine in muratura per i bagni lungo la litoranea per S. Vito. Si moltiplicavano anche le pratiche di assistenza e previdenza.        
      Quando gli operai del  “Tosi” scioperarono per reclamare cospicui aumenti salariali, con fatica i dirigenti sindacali evitarono possibili violenze.  Il 30 aprile 1944 in Arsenale si registrarono momenti di nervosismo: gli operai avevano smantellato fasci littori ed espressioni “artistiche” del regime,  sostituendoli con simboli del lavoro, simboli che diedero fastidio ad alcuni ufficiali nostalgici, che determinarono l’intervento di marinai armati di moschetti e baionette. La mattina del 1° Maggio del ’44  falci e martelli di dimensioni gigantesche e slogan antifascisti istoriavano le pareti delle officine.  Malgrado le intimidazioni di alcuni colpi di moschetto, una bandiera rossa sventolava sulla tettoia della navata centrale,  per celebrare la giornata internazionale del lavoro.     Nel mese di giugno, gli arsenalotti attuarono il primo vero sciopero a causa del costante rincaro dei prezzi.  Dopo  più di venti anni si apriva una trattativa fra l’Amministrazione e i rappresentanti dei lavoratori.  Imponente fu il comizio tenuto in Arsenale da Giuseppe Di Vittorio nel giugno del ’44, seguito da un tratto di Mar Piccolo verso i Cantieri Navali, con l’equipaggio che cantava l’Inno dei lavoratori e l’ Internazionale.  L’8 settembre del 1944 veniva ricevuta in Arsenale una delegazione sindacale anglo-americana.
       La sofferenza sociale doveva comunque dar luogo a moti di protesta che talvolta scavalcavano con irruenza tanto le rappresentanze politiche quanto i limiti della legalità,  come nei tumulti scoppiati il 2 febbraio 1944.  Un corteo di 3000 operai, in larga parte dei Cantieri, assaliva la Prefettura rompendo i cordoni della polizia e delle forze armate, scovando ricche e ben occultate scorte di prosciutti, formaggi, sacchi di farina e caffè.  Ancora più esasperati, i manifestanti si misero alla caccia del prefetto Soprano, un vecchio arnese del fascismo che a Napoli, il 23 settembre del ’43, aveva costretto i giovani, pena la fucilazione, ad eseguire lavori forzati agli ordini dei tedeschi.
      Il prefetto, tirato fuori da uno sgabuzzino dove si era nascosto, venne trascinato a forza alla testa del corteo e in piazza Carmine, vedendolo sfinito, i dimostranti lo misero su una carriola. Solo l’intervento dei dirigenti comunisti riuscì ad evitare il peggio ed il misero potè trovare rifugio nella chiesa del Carmine, sostenuto dalle robuste braccia di un appuntato. Significativamente i soldati e marinai accorsi non spararono neanche un colpo, fidando sull’autorevole intervento dei dirigenti operai. Il prefetto si dimise e nel mese di marzo, alla presenza di 500 lavoratori dei Cantieri, venne costituita la Camera del Lavoro. I lavoratori del “Tosi” si diedero anche un organo di stampa: “Lo Scalo”, redattore Franco Candelli.


7)   La vischiosa transizione

       Il 9 maggio 1944 Ciro Drago veniva con decreto prefettizio nominato Sindaco, ma il C.L.N. menava vita assai grama. Un tentativo di dibattito veniva suscitato dal giornale  “Forze Nuove”, nato il 19 ottobre del ’44 come organo del  C.L.N.  della provincia, diretto da Michele Pierri, ma il tessuto della generica unità antifascista si andava sfilacciando. Le divergenze emergevano con sempre maggiore chiarezza e cominciavano ad evidenziarsi schieramenti ben distinti. La tradizionale componente laica e liberale si faceva sedurre dalla sirena qualunquista: la  “Voce del Popolo” dell’8 gennaio 1945 presentava il “nuovo grande settimanale italiano ‘ L’Uomo qualunque’ (…)  che interpreta magistralmente il pensiero della stragrande maggioranza degli italiani” e questo mentre nel resto del paese,  i partigiani stavano combattendo l’ultima sanguinosa battaglia per aggiustare gli errori dei padri e conquistare all’Italia il passaporto per la libertà.
      Nel successo dell’  “Uomo Qualunque”, il giornale diretto da Guglielmo Giannini dopo la  caduta del fascismo,  umori e veleni dell’oscuro ventennio si mescolavano a paure e diffidenze per una democrazia ancora sconosciuta. Giannini si può considerare a buon diritto il profeta dell’antipolitica:  grande istrione, una sera a Cagliari incantò una piazza trascinando 30mila persone a cantare in coro Dove sta Zazà.
     Mentre al nord si selezionava sul campo di battaglia la formazione di una nuova classe dirigente,
in un contesto come quello tarantino di  “altro dopoguerra”, la transizione politica presentava caratteri sempre più vischiosi e gattopardeschi. Le misure,  avviate dal Comando Alleato, di epurazione degli ex camerati che avevano commesso “azioni delittuose” e di  defascistizzazione come rimozione dalle cariche acquisite per  “meriti fascisti”,  non vennero applicate con mano pesante. Non subirono alcun fastidio zelanti propagandisti della cultura di Regime come il preside del Liceo classico Luca Claudio - come ha scritto Francesco Terzulli,  aveva per tempo  distrutto  materiali compromettenti dell’epoca fascista - e l’ispettrice Maria Luigia Quintieri che,  per tutto il Ventennio era stata considerata l’unico vero “uomo forte” dello sgangherato Fascio tarantino. Come ha ricordato il vecchio fascista Peppino Marzullo, il comportamento del presidente del Comitato di epurazione Voccoli “non fu vendicativo”.
      In un dattiloscritto datato 16 novembre 1983  (Sezione “Mandragora” del Msi)  si cita l’esistenza, fra il 15 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, di un Fascio clandestino sovvenzionato da una nobildonna per sostenere le famiglie dei carcerati. Citati come aderenti: Marzullo, Giudetti, Paragona, Priore, Blandamura, Catapano, Paddeu, Caggia, Buzzerio, Cavani, Pierri della X Mas. Quasi tutti gli ex camerati poco compromessi riuscirono senza difficoltà a mimetizzarsi negli ambienti conservatori e qualunquisti. Il periodico democratico-liberale “La Rinascita” considerava addirittura l’epurazione come la  “malattia del secolo”.


 8)  Esaurimento del C.L.N

     Il blocco delle sinistre si riconosceva, dal giugno del ’45, nel giornale  “Unità Proletaria”, con una campagna per la salvaguardia degli impianti industriali, la riconversione degli apparati produttivi dall’industria di guerra a quella di pace, con il relativo passaggio dall’una all’altra delle maestranze specializzate, mentre erano in atto processi di smantellamento e di espulsione della manodopera,  soprattutto femminile, dal processo produttivo. Per la prima volta l’8 marzo 1945, su iniziativa di una operaia di Buffoluto, Matilde Pignatelli della direzione sindacale, si tennero assemblee in diversi reparti femminili, illustrando il significato della Giornata Internazionale della Donna.
     Il partito cattolico tendeva a polarizzare il fronte moderato, con una rapida mutazione nel giro di pochi mesi. Le idee generose e forse ingenue di Michele Pierri venivano progressivamente accantonate. Quella eredità era ancora avvertita nel  “Corriere Jonico” uscito il 13 gennaio del ’45 con un editoriale intitolato Rinnovarsi,  ma nella primavera il gruppo di Pierri, Mandrillo, Amoruso, Manganella, Di Noia, Curci, Vinciguerra, era ormai emarginato. La leaderschip della Dc jonica veniva assunta dal  “colonialista” Domenico Latanza, proveniente da Tecazzè, che in anni successivi doveva coerentemente transitare nelle schiere neofasciste.
       Il C.L.N. concludeva la sua storia con il comizio del 25 aprile in piazza della Vittoria.  Già nascevano a Taranto e in provincia (Martina Franca, Massafra, Palagianello…) le prime sezioni di partigiani che ritornavano alle loro case e non mancavano di onorare i caduti. Nel 2010 Mario Gianfrate ha rievocato sul  “Corriere” alcuni eroici tarantini, come il sottotenente Cataldo Zingaropoli che, arruolatosi nella formazione partigiana  “Garibaldi”, cadde in uno scontro all’arma bianca a Sangiaccato il 16 novembre 1943;  il capitano medico Antonio Quagliati che, al rientro dalla Grecia, si pose in contatto con gruppi partigiani ma, catturato dalle SS , venne trucidato nel campo di Buchenwald;  nello stesso campo morì Cataldo Blasi, mentre a Dachau morirono Luigi Balsamo, Pietro  Di Roma e Michele Schiavone; a Gusen Costantino Basile, Alfonso Fratini, Alessandro Massante, Francesco Moschettini, Giuseppe Riccardi, Floriano Buccolieri. Uccisi dai nazisti furono anche il capitano Celestino Basile e Domenico Carucci. Una lapide posta nel 1947 ricorda gli uomini del Cantiere “Tosi” caduti durante la Resistenza. Deportati a Mauthausen: Pericle Cima, ingegnere; Alberto Giuliani, perito tecnico; Carlo Grassi, tubista; Francesco Orsini, tornitore; Angelo Santambrogio, operaio; Antonio Vitali, tubista; Ernesto Venegoni, modellista. Caduti in combattimento: Dante Galeazzi, meccanico; Gaspare Calini, fabbro; Luigi Ciapparelli, operaio; Elio Colombo, impiegato; Gaetano Colombo, tornitore; Marcello Colombo, disegnatore; Adelmo Marinoni, tubista; Ernesto Musazzi, manovale.  

                                                                      ***

       Fra i non pochi antifascisti tarantini che parteciparono alla Resistenza , si ricordano belle   figure di patrioti esemplari.  Mario Gianfrate ha rievocato il ruolo esercitato dal giovane Franco Basile nelle file socialiste delle “Brigate Matteotti”. Si distinse nella battaglia di Tuscania, nel viterbese, lanciandosi arditamente in un assalto contro i reparti tedeschi, scagliando bombe a mano contro le loro postazioni. Nello scontro cadde trafitto dai colpi di mitragliatrice nemica. Ha scritto di lui Beno Gessi, il comandante della Brigata, poi divenuto sindaco di Tuscania: “Con entusiasmo e coraggio visse le ultime ore della sua giovinezza, confondendo la sua sorte con quella dell’Italia, per cancellare l’infamia di oltre vent’anni di oppressione”.

                                                                       ***
     Di rilievo i tre partigiani Pandiani: Bernardo, Pietro e Laura, nati a Taranto da Enrico e Addolorata Pisani.  Venivano da una famiglia di tradizioni garibaldine: il nonno aveva partecipato alle Cinque giornate di Milano, dove era rimasto ferito, poi alla difesa di Roma nel 1849.  Bernardo Pandiani, professore di matematica, ferito in Libia, operò come vicecomandante della brigata Giustizia e Libertà sul fronte dell’Appennino tosco-Emiliano. Gli venne conferita la Medaglia d’argento per aver collocato mine anticarro su una rotabile frequentata da colonne tedesche e per aver salvato dall’accerchiamento un presidio partigiano, respingendo i ripetuti attacchi tedeschi e recuperando quadrupedi , armi e materiali. Anche la sorella Laura ebbe a militare nella Brg. “Giustizia e Libertà” - Montagna, con il riconoscimento di Partigiana dal 27 novembre 1943 alla Liberazione.
       Il fratello Pietro,  ufficiale d’artiglieria,  inviato in Spagna nel 1936, venne poi spedito in Libia dove restò ferito come il fratello. In cura presso l’Istituto Rizzoli di Bologna, il professor Oscar Scaglietti, antifascista, fece loro conoscere Mario Jacchia  (medaglia d’oro alla memoria)  che li informò sul Partito d’Azione e fece loro conoscere Mario Bastia,  altro martire della Resistenza bolognese,  Pietro Foschi e Gianguido Borghese.
     Da questa piccola cerchia nacque la brigata Giustizia e Libertà che, oltre a Gaggio Montano e Castel d’Aiano, agì a Lizzano in Belvedere, Fanano e Ronchidos, sotto il comando di Pietro Pandiani (Captain Peter).  La formazione era ininterrottamente impegnata in quotidiani combattimenti dal luglio all’ottobre 1944.  Durante l’assalto a Monte Belvedere,  il 12 dicembre 1944 perse la vita Antonio Giuriolo,  di cui scrisse Luigi Meneghello in “Piccoli maestri” .  Testimonianza di Francesco Berti Arnoaldi,  Liceale al Galvani di Bologna: “Il 24 giugno salii alla chiesetta di Ronchidoso. Lì,  in una sorta di foresteria,  presto mi raggiunsero una trentina di compagni di liceo.  Più tardi giunse il capitano Pietro Pandiani, un ufficiale che aveva combattuto a Tobruk.  C’era un bel clima da stato nascente, il capitano era deciso, determinato.  Trenta ragazzi e un capitano: l’immagine stessa della Resistenza. Formammo la brigata  GL - Montagna, l’unica nel bolognese”.
      Pietro Pandiani il 21 aprile 1945 entrava a Bologna alla testa dei suoi uomini.  Venne riconosciuto partigiano con il grado di tenente colonnello dall’11 ottobre 1943 alla Liberazione. In quella brigata militava anche il giornalista Enzo Biagi,  che ha lasciato un commosso ricordo del partigiano tarantino:  “ Il capitano Pietro, per noi giovani uomini di Giustizia e Libertà, è stato non solo uno straordinario comandante, ma anche un esempio di rigore, di pulizia, di modestia. Voleva proteggerci, e non solo dai pericoli della guerra, ma anche dagli equivoci della politica, dalle furbizie delle piccole strategie, dai compromessi disinvolti. Ha vissuto con rara coerenza: quando tutti, o quasi, hanno avuto l’occasione di ottenere qualche beneficio, lui non ha chiesto nulla. Non è stato un reduce ‘di professione’. Non ha fatto carriera. Non ha cercato né gli hanno dato un buon posto. Lo ha conservato, però, nel cuore dei suoi vecchi ragazzi, e il tempo, e i fatti che ci assalgono, rendono più acuto il rimpianto”.


Bibliografia

La Marina Italiana nella lotta per la Liberazione, Ministero Marina, 1945.
A. DEGLI ESPINOSA, Il Regno del Sud, Roma, 1946.
M. DILIO, Puglia antifascista, Bari, 1977.
F. LEMMA, L’Arsenale di Taranto fra cronaca e storia, Bari, 1981.
V. ZACCHINO, La Resistenza in Puglia nel 1943, Galatina (Lecce), 1983.
F. DE RINALDI, La stampa democratica pugliese negli anni della Resistenza e della Costituente,     Bari, 1984.
AA. VV., Taranto da una guerra all’altra, Taranto, 1986.
R. NISTRI - F. VOCCOLI, Sovversivi di Taranto, Taranto, 1987.
AA. VV., Bari e la Puglia negli anni della guerra 1940-1945, IRRSAE, Bari,1995.
A. LEONE, Taranto tra guerra e dopoguerra: il minamento della rada di Mar Grande (1943) e l’episodio epidemico di peste bubbonica (1945) in “Cenacolo”, N.S. XII (XXIV), 2000.
A. CERVELLERA, Arsenalotti, Taranto, 2010.
R. A. PETRELLI, L’Arsenale Marittimo Militare di Taranto, Perugia, 2005.
AA. VV., Taranto dagli ulivi agli altiforni, due tomi, Taranto, 2007.
V. A. LEUZZI - G. ESPOSITO, In cammino per la libertà. Luoghi della memoria in Puglia (1943-1956), Bari, 2008.
M. GIANFRATE, La follia della guerra e il nostro tributo di sangue, in “Corriere del Giorno”, 10 giugno 2010.
E. BIAGI,  I quattordici mesi. La mia Resistenza, Milano, 2010.
M. GIANFRATE, Le Brigate Matteotti e un eroe tarantino, in “Corriere del Giorno”, 22 aprile 2012.
V. A. LEUZZI,  Bombe su Taranto,  in “La Gazzetta del Mezzogiorno”,  27 agosto 2013.
F. BERTI ARNOALDI,  8 settembre 1943,  in “la Repubblica” -  Bologna,  8 settembre 2013.


sabato 7 settembre 2013

Didattica della Shoah all’ “Archita”


Didattica della Shoah all’ “Archita”

di Roberto Nistri

in "Galaesus", n. XXXV 

     Alla realizzazione del Memoriale che ricorda gli italiani morti ad Auschwitz, voluto dall’associazione degli ex deportati, parteciparono negli anni Settanta grandi nomi della cultura. Due di loro, Primo Levi e l’architetto Lodovico di Belgiojoso, nei lager nazisti erano stati prigionieri. Il memoriale era stato pensato per parlare al cuore più che alla testa: il visitatore camminava nella claustrofobica spirale di Belgiojoso, leggeva il testo di Primo Levi, ascoltava Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz di Luigi Nono e guardava le tele simboliste di Pupino Samonà. Purtroppo l’installazione, già chiusa dall’estate 2011, ora rischia anche lo smantellamento, grazie al disinteresse del governo Berlusconi e all’ottusa ostilità di Piotr Cywinski, direttore del museo sorto nel campo (1). Forse per alcuni politici Auschwitz è qualcosa che riguardi solo la Polonia. Invece di celebrare il Giorno della Memoria nella data simbolo del 27 gennaio, quando le avanguardie sovietiche liberarono il primo campo di sterminio dove erano stati uccisi un milione e mezzo di ebrei (una data del calendario civile europeo trasferita nel calendario nazionale) sarebbe stato più istruttivo per gli italiani ricordare il 16 ottobre 1943, il giorno della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma con la complicità dei fascisti, una data nazionale. Così hanno fatto i francesi, dedicando  la giornata alla memoria di quel 16 luglio 1942, quando da Parigi vennero deportati 13.000  ebrei e ne tornarono solo 25 (basterebbe la durezza di  questi numeri, rigorosamente censiti, per mandare a ramengo le ciarle dei negazionisti). Senza ipotizzare omissioni malintenzionate, si conferma la perdurante superficialità e trascuratezza italica nei riguardi della “topografia sacra” della Shoah, considerando bastevole la rituale maratona televisiva del marketing memoriale .

     Siamo sempre più convinti che, in barba alla retorica delle mille “agenzie di formazione”, la scuola pubblica rimanga l’istituzione principe della protezione della Memoria e della riflessione filologica sulla realtà della Storia, che non è un supermarket dove si possa pescare a caso. A questo proposito è bene evitare l’indebita confusione fra la Memoria, insostituibile serbatoio del pathos e del racconto, ma sempre liquida e selettiva (“la memoria è una formidabile falsaria”, ha scritto Antonio Tabucchi) e la certificazione della Storia, senza la quale i ricordi si sfaldano e diventano pasto per le jene della falsificazione. La memoria motiva l’attività storica, la storia corregge la memoria. I testimoni devono continuare a parlare, ma noi abbiamo il dovere di rielaborare le loro voci anche per misurarci con il presente. Perché da quella storia non siamo fuori, e con il suo codice di violenza occorre ancora fare i conti. Si continua a giocare con il pop razzismo e la caccia all’untore è sempre aperta.

                                                                   ***

     Da parte dei governi democristiani degli anni ’50 la preoccupazione prioritaria era quella di occultare piuttosto che svelare. Alla Germania di Adenauer si chiese di fare di tutto per insabbiare le indagini sul massacro delle Fosse Ardeatine: “Non appena il primo criminale di guerra tedesco verrà consegnato”, avvertì in una missiva un diplomatico italiano, “arriverà una valanga di protesta da ogni paese che richiede l’estradizione di criminali di guerra italiani”, per i misfatti perpetrati in Jugoslavia, in Albania, in Grecia. La complicità tedesca venne garantita e anche per questo i sopravvissuti alle stragi naziste ancora oggi attendono invano dalla Germania giustizia e risarcimento (2).

     Negli anni del dopoguerra, nelle aule del Liceo “Archita” di Taranto, vigeva un motto residuale dell’ Ancient regime: “Qui non si parla di politica”. Un ingenuo lettore dei nostri giorni potrebbe pensare che, dopo la caduta di un governo dispotico e la conquistata libertà di parola e di pensiero, si sprigionasse una fame democratica di conoscenza e discussione. Naturalmente non accadeva nulla di tutto ciò: la scuola e anche la famiglia non erano disponibili a trasmettere alla generazione postfascista adeguati strumenti di comprensione riguardo l’ultimo tratto di strada, dalla sconfitta di una guerra scellerata alla occupazione degli Alleati. Per quanta riguarda la questione ebraica, su scala internazionale, fino ai primi anni Sessanta (il processo ad Eichmann è del 1962) quel passato prossimo che si chiamava Shoah abitava dentro silenzi e sguardi muti, volti che si giravano dall’altra parte. Una certa consapevolezza poteva maturare a Taranto solo nelle famiglie degli antifascisti e dei perseguitati politici, quasi tutti operai dell’Arsenale e dei Cantieri Tosi, data l’inesistenza di significative presenze antifasciste di estrazione borghese. Ma negli istituti superiori anche il termine “operaio” risultava sospetto. Professori e genitori condividevano un tacito agnosticismo, temendo che certi argomenti potessero turbare la normalità scolastica o costituissero addirittura un pericolo per l’ordine costituito (3). Quel corpo docente non era “cattivo”, era stato così costruito da una Storia: la storia di una Taranto “perla del Regime” e città “tre volte fascista”, la storia di una Liberazione e di un “altro dopoguerra” non comparabile con la tragica epopea della Resistenza armata al Nord, dove nel fuoco della battaglia si formava una nuova classe dirigente.

      Le differenze politiche non furono solo quelle derivanti dal diverso carattere dell’occupazione angloamericana rispetto all’occupazione tedesca, anche quelle tra una parte d’Italia dilaniata dalla guerra interna tra fascisti e partigiani e l’altra , nel Sud, dove il sistema dei partiti si costituì con l’adesione in larga parte sospetta di Comitati di Liberazione che non avevano liberato nessuno: da una parte il cielo pulito di un nuovo Risorgimento, dall’altra una transizione alquanto vischiosa e gattopardesca, con il qualunquismo come stato d’animo endemico. Emblematica rimane la figura del Reduce, icona immortale di Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria, con la sua smania di raccontare ma ridotto al silenzio dalla generale volontà di rimozione: nun penzammo a guaie. Tutte le scuole faticavano ad uscire dal cono d’ombra del Ventennio: quello era il personale, il sistema burocratico, il modo di pensare.

     Nel liceo “Archita”, in particolare, aveva avuto modo di spadroneggiare una dirigenza “fascistissima” che fu autentico baluardo del Regime, nell’ora propizia per opportunisti zelanti, carrieristi nella scuola e nel giornalismo, acchiappamedaglie con poca fatica e a scapito dei perseguitati. Ma si può comprendere, sine ira et studio, come la vicenda postbellica, esaurito il vento del Nord, dovesse spingere il paese verso una democrazia fragile e paurosa, ancora inquinata dalla permanenza  dell’autoritarismo dentro le istituzioni, dentro lo Stato, dentro le persone, sempre nella puerile attesa di “uomini della provvidenza”. Bisognerà attendere don Milani e il ’68, perché un giovane potesse di nuovo sentirsi “cittadino sovrano”. Gli anni ’50 e ’60 trascorsero onorevolmente, fra studi certamente severi e ampi spazi per la goliardia. Non mancavano spunti di “maccartismo” nei confronti di due docenti di storia e filosofia, i fratelli Luigi e Raffaele Trento, tenuti d’occhio per i loro trascorsi antifascisti: due schietti liberalsocialisti ma etichettati tout court  come comunisti, perché erano gli unici a far studiare in classe la Costituzione, introdotta ufficialmente nelle scuole solo negli anni Sessanta e largamente ignorata per “mancanza di tempo”.

     Non mancavano iniziative extracurriculari come giornali studenteschi e “Cenacoli” interni e anche esterni all’Istituto (4). Il biglietto da visita del liceo era l’annuario “Galaesus”, dalla periodicità non sempre costante, ma fedele ad un format abbastanza paludato nei contributi dei docenti come degli allievi: una sorta di bollettino della vita d’Istituto che non doveva travalicare certi confini. Ancora nel fascicolo VI  del 1975, il preside Tommaso Pignatelli avvertiva che “non è intendimento della presidenza, né è istituzionalmente possibile, trasformare la presente pubblicazione in autentica rivista culturale”. Tali preoccupazioni dovevano condannare Galaesus ad una grigia sopravvivenza, considerando la condizione particolarmente surriscaldata della Scuola in quegli anni (5). Nel decennio ‘75- ‘85 si avvertivano alcuni segnali di apertura al “mondo esterno” (memorabile la battaglia in difesa del fiume Galeso) pur dovendo attendere la fine del secolo per far circolare nella scuola alcuni segnali di presenza sul territorio della Grande Industria.

                                                                  ***

     Negli anni Ottanta, sotto la presidenza di Franca Schembari,  l’istituto si aprì decisamente alle istanze del territorio (in quegli anni “territorio” era la parola magica per rendere la scuola centro propulsore delle dinamiche civili, magari collaborando con “Italia nostra”, con la Sovrintendenza ai beni culturali, con gli “Amici dei musei”. La rivista “Galaesus” ampliò di molto il ventaglio delle collaborazioni, con il concorso di ex alunni. Nel fascicolo XI  un gruppo di studenti della III D si impegnarono in un lavoro collettivo, Educazione civica, storia locale, metodologia della ricerca, focalizzando le questioni concernenti la vicenda del fascismo a Taranto, imparando a scrivere su ciò che non è già conosciuto, senza rimasticare cibi precotti. Per la prima volta venne affrontata la storia municipale usando il metodo della ricerca scientifica (senza la quale la storia si riduce a retorica) consultando i documenti presenti negli Archivi di Stato di Lecce e di Taranto , dove forse si conserva ancora tale ricerca).

     In “Galaesus” XVI (1991-1992) si presentava un corposo dossier, Il sonno della ragione genera mostri. Riflessioni sul razzismo. Si trattava di una lettura ragionata del materiale documentario, fornito dalla stampa, sulla tragica escalation delle manifestazioni di razzismo in Europa e in Italia (dall’austriaco Haider alla Lega Nord) durante tutto il corso del 1992, annus horribilis. Gli studenti avevano anche partecipato ad una manifestazione promossa dall’Arci di Taranto, in occasione della presentazione del libro di Laura Balbo e Luigi Manconi, I razzismi possibili. Nell’anno successivo “Galaesus” rendeva conto della relazione  Il razzismo: dalle definizioni alle forme individuali e di gruppo, tenuta dal sociologo Nino Aurora all’assemblea studentesca del 30 gennaio 1993, coordinata dal prof. Roberto Nistri. In “Galaesus” XVIII (1993-1994) la prof. Adalgisa Villani presentava un saggio sull’Etnocentrismo mentre la prof. Loredana Flore inaugurava un progetto sulla Cultura della non-violenza.

     In occasione del 50° anniversario della Liberazione, “Galaesus” XIX rendeva conto di un intervento sulla Resistenza di Roberto Nistri,  una ricerca sulla memoria orale, La guerra e il ricordo, a cura della prof. Giovanna Percaccio, una relazione dell’alunna Giovanna Carofiglio su Razzismo e antisemitismo. Di rilievo la manifestazione del 15 maggio 1995, nel Salone di rappresentanza dell’Amministrazione Provinciale, curata dal prof. Francesco D’Elia: La Resistenza narrata attraverso i canti.

     1995-1996 La scuola promuoveva il progetto Educazione alla mondialità (coordinatrice prof.
Loredana Flore. Sotto la presidenza di Tommaso Anzoino, nel 1996-97 la prof. Adalgisa Villani curava un importante corso di aggiornamento su Cultura, alterità e linguaggio con docenti dell’Università di Bari: Francesco Fistetti, Augusto Ponzio, Patrizia Calefato, Susan Petrilli (atti in “Galaesus” XXI). Il 18 dicembre 1997 la scuola ospitava Elisa Springer, scrittrice sopravvissuta ai campi di sterminio. In “Galaesus”XXII, sulla scorta del romanzo La storia di Elsa Morante, si ragionava sul fascismo commentando un diario di vita scolastica, compilato dal piccolo Antonio Amatulli quando frequentava la quarta elementare nel 1931/32 a Mottola. Nel fascicolo XXIII (1998-99) gli allievi, coordinati dai docenti Mario Bosco, Maria Pia Intelligente e Roberto Nistri, presentavano una robusta trattazione dell’Olocausto: Le persecuzioni razziali e i campi di concentramento. Nel maggio del 2000 la scuola organizzava un incontro con il partigiano Angiolo Gracci, comandante della brigata “Vittorio Sinigaglia”.

     La riflessione su fascismo e razzismo si arricchiva nel 2000-2001 con un cineforum sul ventennio mussoliniano, con l’incontro con l’ufficiale tarantino Alfredo De Stefano, uno dei pochi superstiti della tragedia di Cefalonia (4 aprile 2001) e con Leone Fiorentino, deportato ad Auschwitz (26 aprile 2001) con un vasto corredo di scritti sul Giorno della Memoria. Nell’anno seguente veniva proposto un altro cineforum sull’Italia in guerra, con un cospicuo progetto interdisciplinare guidato da Loredana Flore: Educare alla pace, alla memoria, alla legalità. Nel 2002 allestimento di mostre fotografiche, incontri con Amos Luzzatto, presidente delle comunità Ebraiche Italiane e con il regista tarantino Emidio Greco. Dicembre 2002: nel Giorno della Memoria incontro con Vitantonio Leuzzi e Francesco Terzulli, rispettivamente presidente ed esponente della Società Italiana degli studi sull’Antifascismo e l’Italia contemporanea. 17 marzo 2003: dibattito organizzato nel Salone della Provincia su La memoria della Shoa, con Clotilde Pontecorvo, esponente della  Comunità ebraica di Roma. Perché ricordare? Con contributi di docenti interni ed esterni.

     Il fascicolo XXVIII rende conto del lavoro coordinato da Roberto Nistri e Francesco Terzulli sull’internamento fascista in Puglia, e le polemiche su antisemitismo e antisionismo. Il 27 gennaio 2005 viene proiettato il film Rosenstrasse di M. Von Trotta. Il Giorno della Memoria 2006 venne dedicato a Elisa Springer, con la conferenza di Francesco Terzulli: Una memoria femminile della Shoa. Da segnalare anche l’incontro con la deportata Mirella Stanzione. Terzulli collabora anche al fascicolo XXXI di “Galaesus” (2006-2007) con un corposo saggio su Primo Levi, mentre l’anno successivo don Franco Mazza commemora la figura di Etty Hillesum. Nel 2010 la giornata della memoria venne dedicata da Roberto Nistri al Porrajmos: lo sterminio degli zingari nella notte più buia del Novecento. Il 26 gennaio 2011 Francesco Terzulli e Giuseppina Cacudi hanno relazionato ampiamente su Ebrei in Puglia negli anni ‘40. Come provvisoria conclusione segnaliamo il progetto “Cultura della Memoria” curato dalle professoresse Loredana Flore e Adalgisa Villani, con la collaborazione della docente Francesca Poretti: il 27 gennaio 2012 Daniele De Luca, Docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università del Salento, ha relazionato nel Salone di Rappresentanza dell’Amministrazione Provinciale sul tema Alle radici della Shoah. Dall’antigiudaismo all’antisemitismo.

                                                           * * *

     Questa quasi completa rassegna della produzione culturale del liceo “Archita” sulla tematica della Shoah  dal 1992 al 2012 (un impegno storico che supera nel tempo il ventennio fascista) può essere intesa come una sorta di riscatto, un impegno onorato nella volontà di cancellare le pagine nere delle leggi razziali che appestarono tutte le scuole dell’epoca, ma è soprattutto il riconoscimento di una elaborazione culturale, in chiave rigorosamente costituzionale e repubblicana, che ha coinvolto senza soste generazioni di studenti, gruppi di docenti, artisti e operatori culturali, con spirito di generosa collaborazione. Consideriamo di altissima qualità il materiale documentario accumulato, che dovrebbe essere immesso in rete anche con il patrocinio delle pubbliche amministrazioni. C’interessa sottolineare il peculiare esprit che ha caratterizzato questa operazione cognitiva che, quasi istituzionalmente, a pieno titolo si può considerare una solida tradizione nella vita d’Istituto : il principio che la vera cultura è sempre battaglia culturale, contro l’indifferentismo, la mistificazione, l’assassinio della memoria. Vale l’imperativo categorico del Non mollare, la costruzione di Materiali Resistenti contro l’industria della dimenticanza organizzata, quella che George Steiner definisce la civiltà ad amnesia programmata. La lotta per la verità è la passione di Sisifo, la fatica di ricominciare sempre da capo. Il nemico è sempre all’attacco, soprattutto da quando si è sdoganata la liberalizzazione selvaggia del mercato della memoria (equivalente dell’universale mercato del lavoro). La cultura del cosiddetto Postmodernismo, sostenendo che non contano i fatti  e che tutto è interpretazione ( ermeneutica si dice nel linguaggio culto) ha  funzionato come alibi per le cause più strampalate e malintenzionate: tutto fa brodo per tenere in piedi una volgare politica-spettacolo televisiva, facendo audience a spese di una Storia imprigionata in una corrida di lazzi e pernacchie (6).

     Per fortuna questa filosofia è in fase di deperimento pressocchè ovunque, dall’Europa agli Stati Uniti, grazie al ritorno di un sano Realismo che restituisce alla storiografia le sue buone ragioni. Senza l’accertamento dei fatti, senza la filologia, la storia sarebbe solo retorica, bassa cucina della menzogna per i negazionisti dell’Olocausto, i maldicenti del Risorgimento, gli spregiatori della Resistenza e della Costituzione. Dai tempi di Lorenzo Valla, che denunciò il grande falso che giustificava il potere temporale della Chiesa, la filologia primeggia come imbattibile arma della verità e smascheramento dell’impostura. Concedere una patente di buona fede ai negazionisti dell’Olocausto sarebbe come permettere ai teorici della della Terra Piatta di condizionare il corso degli studi di astronomia. Dovremmo seriamente discutere l’ipotesi che nei campi di concentramento nazisti non venne mai ucciso alcun ebreo, e che i pochissimi che vi morirono spirarono per infarto del miocardio, dato che - come celia Umberto Eco - le SS li nutrivano con cibi ad alto contenuto di colesterolo? (7).

     La riflessione sulla Shoah, sui massacratori e i loro epigoni, offre ai giovani una straordinaria occasione per misurarsi con il problema massimo, quello del Male: a nulla vale ripetere l’esorcismo  del Mai più se questa “aiuola che ci rende tanto feroci” è sempre l’universale bellum omnium contra omnes,  dalla prepotenza del bulletto alla sopraffazione del despota: homo homini lupus. L’Olocausto è una incancellabile lezione dove vittime, carnefici e testimoni entrano in scena illustrando il peggio, e il meglio, di cui gli esseri umani sono capaci. La “banalità del male” è il tema suggerito da Hannah Arendt  a proposito del processo ad Eichmann: una formula accattivante, ma anche fuorviante, considerando che il tema di gran lunga più intrigante è quello della “seduzione del male”, dal  Faust al Grande Inquisitore (8).

     La dimensione smisurata dell’Olocausto conferisce al massacro degli ebrei il carattere della straordinarietà e della esemplarità: un paradigma imperituro. Ma proprio il vortice dei numeri può essere un rischio per la didattica della Shoah; si ha bisogno di recuperare un punto di vista sulla singolarità: un corpo, un viso, un nome che non si perda nel delirio nazista della quantità. In Schindler’s List Spielberg si è cimentato con la doppia distanza della persecuzione di massa e del dettaglio singolare. In un film girato in un gelido bianco e nero, ha adottato l’ espediente di orientare il nostro sguardo su una bambina dal cappotto rosso, tirata fuori dal mucchio per due volte, come deportata e come buttata nella carretta degli ammazzati, una figura adottata come rappresentante della totalità sofferente. Adriano Sofri ha colto un’analogia con l’episodio di Cecilia nel capitolo XXXIV dei Promessi sposi. Nel “tristo brulichio” dei corpi abbandonati fra cortei di monatti e carri colmi di sacchi funebri, lo sguardo di Renzo si fissa su un oggetto singolare di pietà: la piccola Cecilia con un vestito bianco, portata dalla madre al carro dei monatti e accomodata su un panno bianco. Nel film e nel romanzo l’intento di individuazione pone quasi una coincidenza fra il cappottino rosso e il vestitino bianco. In una pagina de I sommersi e i salvati di Primo Levi  si racconta che fra i cadaveri di una camera a gas si trovò una ragazza ancora viva e di fronte all’immagine di questa persona quegli uomini abbruttiti rimasero attoniti e rispettosi come i “turpi monatti” manzoniani. Secondo Sofri la fugace citazione di Primo Levi è stata forse la cerniera fra il nostro Manzoni e Steven Spielberg, improbabile lettore dei Promessi sposi ma certamente lettore de I sommersi e i salvati. Piace pensare che le cose siano andate così (9).


    
----------------------------------------------------------


1) P. FANTAUZZI, Ad Auschwitz un’Italia senza memoria, in “Venerdì di Repubblica”, 6 aprile 2012. Forse anche la Giornata della Memoria è in affanno, anche se ha esteso enormemente la sensibilità sulla Shoah. Indiscusso appare il successo dell’iniziativa sul piano delle celebrazioni e della produzione editoriale, ci si comincia a interrogare sull’efficacia di un anniversario sempre più schiacciato sul “marketing memoriale”. Un consumo veloce e rassicurante. “Una storia usa-e-getta, piegata a un utilizzo autoassolutorio piuttosto che un’indagine perturbante dentro l’orrore che ancora ci appartiene. Un martirologio che rischia di rimanere muto sulle inquietudini del presente” Una data riferita a qualcosa che è accaduto altrove rischia di diventare una non-data, un’occasione di riflessione metafisica, togliendole storia (D. BIDUSSA in S. FIORI, Ricordare stanca, in “la Repubblica”, 26 gennaio 2011).

2) Secondo lo storico tedesco Felix Bohr i governi democristiani sostennero tale linea per non ravvivare la memoria della Resistenza, guidata soprattutto dal Pci, loro avversario politico; cfr. Roma chiese ai tedeschi di insabbiare le indagini sulle Fosse Ardeatine, in “la Repubblica”, 16 gennaio 2012 e Da Marzabotto a Stazzema massacri ancora senza giustizia in “la Repubblica”, 4 febbraio 2012. Sulle colpe dei fascisti italiani, cfr. S. FIORI,  Il volto feroce dei nostri soldati, in “la Repubblica”, 14 aprile 2005 e Misfatti d’Italia,in “la Repubblica”, 3 maggio 2005; cfr. anche  il documentario La guerra sporca di Mussolini su History Channel.

3) Si consideri che ancora il 27 maggio 2010, presso l’Istituto “Belli” di Roma, gli studenti improvvisarono, alla fine di un concerto, le note di Bella ciao davanti ai rappresentanti del ministero dell’Istruzione, pensando di fare cosa gradita e invece scatenando la reazione indignata della preside per tale “atto deplorevole”, uno “sconcertante episodio” che ha gettato “un’ombra di discredito difficile da dissipare, che ha messo in difficoltà la scuola nel suo complesso”, “assumendo iniziative che travalicano i limiti dell’opportunità, della correttezza e del buon gusto”, con conseguente invito ai genitori di scusarsi (cfr. “la Repubblica”, 2 e 7 giugno 2010). Forse la preside si è ricordata che già nel 2002 Marco Tedde, sindaco di Alghero del centrodestra, aveva vietato di suonare Bella ciao alle manifestazioni del 25 aprile (cfr. “Il Giornale”, 22 aprile 2008). Se una canzone quasi istituzionale, un canto di partigiani senza colore politico, in cui si possono riconoscere i democratici di ogni colore politico e le istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Costituzione, ha potuto suscitare una tale buriana, questo dipende da un clima generale di misconoscimento e snaturamento della storia d’Italia, con ricadute polemiche volte a sviare il senso degli eventi. Riemerge periodicamente una pedagogia tartufesca, ostile al libero dibattito e impossibilitata a formare giovani “cittadini sovrani”.

4) Cfr. F. TERZULLI, La  scuola a Taranto tra ricostruzione e accesso di massa (1944-1965), in AA.VV., Taranto dagli ulivi agli altiforni, II tomo,  Taranto, 2007, in particolare pp.125-147.

5)  Cfr. F. TERZULLI, La Scuola negli anni Settanta: un fortino assediato, in AA. VV., L’età dell’acciaio, Taranto, 2011.

6) Sul nuovo Realismo, vedi U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, 1990; Kant e l’ornitorinco, Milano, 1997, M. FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Bari, 2012. Articoli: M. FERRARIS, L’epistemologia è viva, in “Repubblica”, 6.1.2011, Postmoderni o neorealisti? In “Rep”, 19.8.2011. Anche E. DOCX, Così tramonta il postmoderno, in “Rep”, 3.9.2011; G. DESANTIS, Eco e Putnam, in “Rep”, 22.11.2011; D. MARCONI, Il postmoderno ucciso dalle sue caricature, in “Rep”, 3.12.2011; V. SCHIAVAZZI, Su Verità e realismo, in “Rep”, 6. 12. 2011; F. D’AGOSTINI, Realista e impegnato, in “Rep”, 7.12.2011; U. ECO, Il realismo minimo, in “Rep”,11. 3.2012; M. GOTOR, Che cos’è la verità storica, in “Rep”, 5.1.2012.

7)  U. ECO, “ Ma come sono morti allora quei sei milioni? Di Aids? Di influenza cinese? Per aver riso troppo come Margutte?” in  La Bustina di Minerva, Milano, 2001, p. 45. Cfr. V. PISANTY, L’irritante questione delle camere a gas, Milano, 1998. La malatelevisione ci ha abituato al professore showman, per il quale la storia è performance, spettacolo: bisogna sorprendere il pubblico con la battuta eccitante, il contenuto è secondario e la verità ha uno statuto negoziabile. La malapolitica insegna che bisogna presentarsi sempre con un tono bellicoso e inutilmente aggressivo, improntato al più grande disprezzo verso quanti la pensano diversamente. La battaglia per la verità rimane quella degli umanisti rinascimentali: “furono i primi a impiegare le proprie conoscenze per denunciare la falsità di alcuni documenti, artatamente costruiti e utilizzati per assicurare la stabilità del potere” (A. ASSMANN, Così la Storia ha ritrovato la sua Memoria, in “La Stampa”, 27 gennaio 2010).

8) Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e spontaneamente ci pensiamo “buoni”, escludendo di poterci trasformare in carnefici, cosa invece possibilissima, come leggiamo nel libro di Philip Zimbardo: L’effetto Lucifero, Milano, 2008. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione innata ma per il “sistema di appartenenza” e la “situazione” in cui ci si viene a trovare: c’entra non l’indole, ma il “ruolo” e la “circostanza”. Non basta osservare l’orrore, per rifiutarlo. Bisogna capire come funzionava la macchina: quegli uomini non erano nati crudeli, lo sono diventati. La vera resistenza è quella che si esercita nei confronti del proprio sistema di appartenenza che ci chiede, in ultima istanza, se stare o non stare al gioco. Il pilota americano che sganciò la bomba su Hiroshima ebbe solo a dire: “quello era il mio lavoro”; cfr. U. GALIMBERTI, Siamo tutti figli di Eichmann?,  e S. NIRENSTEIN,  Non esiste la banalità del male in “la Repubblica”, 12 marzo 2008 e 14 gennaio 2010.

9) Cfr. A. SOFRI, Spielberg, Manzoni…,  in “la Repubblica”, 20 febbraio 1999. Gli storici hanno una grande responsabilità. Forse non sono riusciti a costruire una storia problematica e al contempo popolare, senza cedere al modello televisivo con le sue rivisitazioni fantasiose. Il vero rischio è quello della memoria rassicurante: consiste nell’osservare con raccapriccio ciò che accadde allora, rallegrandoci in fondo che oggi quella tragedia non stia capitando a noi. Quello che dobbiamo ricordare è che, mentre qualcuno attraversava l’orrore, c’erano milioni di persone che voltavano altrove lo sguardo. Anche oggi “non ci accorgiamo della crudeltà che accompagna le espulsioni o le vite violente nelle periferie: c’è un lato brutale della nostra quotidianità che abbiamo deciso di espellere dallo sguardo”; D. BITUSSA, cit.