mercoledì 5 novembre 2014

Taranto nella grande guerra. Sul palcoscenico della grande storia



Piazza Giordano Bruno nel 1913

Taranto nella grande guerra. Sul palcoscenico della Grande storia

di 
Roberto Nistri

© Roberto Nistri 2014. Tutti i diritti sono riservati.




      1. Sul palcoscenico della Grande Storia

       Taranto assisteva, arrendevole e compiaciuta, alla progressiva militarizzazione della sua economia e del suo territorio, come ha scritto Matteo Pizzigallo. La macroscopica presenza dell’insediamento industriale continuava a modificare le coste, le altimetrie del suolo, fagocitando al suo interno masserie, chiese e ville signorili, condizionando il disegno della città e le direttrici della sua impetuosa crescita. Taranto subiva una espansione demografica tra le più imponenti d’Italia, con flussi provenienti dalle aree rurali e importazioni di manodopera specializzata (cfr. (Giuliano Lapesa, Taranto dall’Unità al 1940). La struttura industriale della città veniva ad essere cospicuamente amplificata, nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra, dalla installazione dei Cantieri Navali “Franco Tosi”,  sulla spiaggia a nord del Mar Piccolo:  una società di Legnano con  strutture di ben altro rilievo rispetto ai modesti  cantieri Frontini  (1903 - 1906) e   Salerni (1906 - 1915).  I tempi erano acceleratissimi: mentre il cantiere si stava ancora approntando,  venivano già stipulati i contratti per le prime ordinazioni della Marina italiana. Si trattava di due sommergibili da 277 tonn. e dieci dragamine da 200 tonn. Nel 1915 veniva completato il primo sommergibile.
      Il 4 giugno 1916, dalla scalo improvvisato sul quale era stata impostata cinque mesi prima, veniva varata,  alla presenza del Duca degli Abruzzi,  la prima nave interamente costruita nello stabilimento:  il rimorchiatore “Villa Cortese” per i servizi dello stesso Cantiere.  Presenziava il Duca degli Abruzzi e veniva offerto dal   Moderno Caffè  Greco ricco champagne frappè.  Seguivano in breve tempo due sommergibili e dieci dragamine. L’impresa era abbastanza  “protetta”: si agganciava al complesso navalmeccanico tarantino, utilizzando strutture già esistenti (bacini, pontoni…) ottenute in prestito dal Regio Arsenale,  nel quadro di una prospettiva bellicista ed espansionista. Nel 1915 sarebbe stato completato il primo sommergibile. Un ottimo affare per Tosi , che già produceva per la Marina motori navali nei suoi cantieri di Legnano. Un impianto del genere non esisteva in tutto l’arco dello Jonio e nel basso Adriatico. I terreni venivano concessi a prezzi molto accessibili e le commesse erano garantite.
      Si trattava di investimenti che sicuramente non andavano nella direzione di una auspicata diversificazione produttiva, ma anzi la monocultura dipendente tarantina risultava perpetuata e tonificata, con le solite attività satellitari di tipo metalmeccanico, finalizzate alle esigenze  del “Mare Militare”  ed  estranee al libero mercato. Con i Cantieri veniva indotto  nel tessuto sociale  un forte incremento di   manodopera, caratterizzata da un antagonismo sociale che non trovava riscontri nelle maestranze del Regio Arsenale, ben garantite e influenzate dalla ideologia della “grande famiglia”. Si trattava comunque della più grande concentrazione operaia del Mezzogiorno, non priva di iniziativa anche nelle piccole ditte, come gli operai della  Brambilla che, nel pieno dell’ondata militarista, scioperavano per un aumento salariale, ottenendo risultati dopo due giorni di agitazione. Nel 1914,  durante la “settimana rossa” veniva  proclamato lo sciopero dei ferrovieri, sostenuto anche da alcuni portuali e mitilicultori. Fallita l’iniziativa,  il fuochista socialista Luigi Guidetti raggiungeva i rivoltosi di Ancona, inseguendo un sogno insurrezionale destinato a dissolversi,  mentre già rombavano i cannoni.

      2. Si apriva il Grande Gioco

      Nella fase di preludio alla grande mattanza si era aperto il Grande Gioco dei posizionamenti più o meno occulti, nella guerra sotterranea dei soldi e degli agenti segreti, che non pochi  danni dovevano procurare in terra jonica. Mussolini era stato il primo a saltare il fosso, passando dalla neutralità all’interventismo.  Il nuovo giornale, il “Popolo d’Italia” era stato, se non proprio “lanciato”, per lo meno vigorosamente sostenuto da sovvenzioni provenienti dal Governo francese:  prima 15.000, poi versamenti mensili di 10.000 franchi,  inviati  dal ministro socialista francese Marcel Sembat.   Benito finiva per accumulare 100.000 franchi e cercava di accaparrarsi anche rubli dello zar,  per l’attacco che alcuni interventisti di sinistra volevano portare ad una caserma austriaca,  per creare un casus belli.
        In quella frenetica giostra,  molte speranze e timori si concentravano sulla figura del neoeletto Giacomo Della Chiesa, il poco conosciuto  Benedetto XV, le cui simpatie politiche non risultavano ancora chiare alle potenze belligeranti che, comprensibilmente, cercavano di attrarlo nella propria orbita,  anche con sostegni economici: il nuovo Papa si era ritrovato con le casse vuote e senza l’ “obolo di San Pietro”, in quanto la guerra stava azzerando i contributi di pellegrini e turisti. Da subito tedeschi e austriaci si attivavano con cospicue donazioni attraverso le banche svizzere. Per il Papa la linea di condotta più sensata doveva essere quella del neutralismo italiano che,  nel  fatale 1914, manteneva ancora un certo consenso. Benedetto XVI lo avrebbe ricordato come “ uomo della pace”, preoccupato per la “inutile strage” e soprattutto per l’aggressività montante nei confronti dell’amata cattolicissima Austria. Gli austriaci avevano un elenco di parlamentari sul loro libro paga, il cui voto poteva essere influenzato con cinque milioni. Già nell’aprile del 1915 il governo italiano prendeva atto che il Santo Padre era schierato con gli Imperi centrali. I finanziamenti germanici dovevano durare fino alla fine della guerra. Quello che non  era  prevedibile, era la disgraziata circostanza che il Papa dovesse personalmente invischiarsi  in una spy story  molto tormentata:   analoga  a quella, certo molto meno incresciosa, di  un Benedetto del secolo dopo.  
      Secondo John Pollard, Benedetto, al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, veniva preso da autentica angoscia ( Il papa sconosciuto , Ed. San Paolo, 2001).  I  francesi  chiamavano Giacomo Della Chiesa non il “Papa della pace”, ma  il “papa crucco”, le pape Bosche.  In Vaticano girava disinvoltamente un diplomatico accreditato presso l’ambasciata tedesca a Roma, residente a Lucerna e attivo organizzatore di una rete di spie e informatori operanti in Italia.  Quel Franz von Stockhammern che si era addirittura intrufolato di notte nel Vaticano,   eludendo ogni sorveglianza, per arruolare Benedetto nel suo piano clandestino. Ma nell’ombra si muoveva un personaggio di più alto livello.
      Giovanni Della Chiesa   aveva conosciuto il giovane e aitante Rudolph  Gerlach come allievo all’Accademia dei Nobili Ecclesiastici e lo aveva preso a benvolere, non sapendo (?) del suo contatto con l’Evidenzbureau, il servizio informazioni austroungarico: una fitta rete di rapporti segreti i cui fili erano manovrati proprio dal suo più stretto collaboratore. John Pollard    suppone che Benedetto “avesse uno speciale affetto” per Gerlach . Era  Un uomo dalla personalità affascinante,  entrato anche nelle grazie della  ex regina Maria Sofia di Napoli, dipinta da D’Annunzio come l’Arcigna aquiletta bavara.  Nel conflitto  era schierata attivamente nei confronti dell’Impero germanico e dell’Austria-Ungheria, nella speranza di un ripristino del Regno delle Due Sicilie: sospettata di coinvolgimento in atti di spionaggio e sabotaggio, forse per questo veniva denominata  la “regina degli anarchici”.  Non mancava  tuttavia di visitare i campi dei prigionieri italiani, che  non capivano chi fosse quella signora che parlava napoletano-tedesco e distribuiva sigari e bonbon.  (Arrigo Petacco).  Tempo dopo sarebbero stati arrestati tre deputati (Adolfo Brunicardi, Enrico Buonanno e Luigi Dini) del giro di donna Sofia e soprattutto di Gerlach, il monsignore “cameriere”, dalle cui mani passavano tutti i documenti riservati.
       Proprio nella fase in cui l’Italia stava per schierarsi con l’Intesa,  si  potevano mettere a rischio le già difficili relazioni tra lo Stato italiano e il Vaticano. Il fidato consigliere, ben  assestato nella corte papalina  , aveva già allestito la più fitta rete di servizi segreti operante in Europa. Si prodigava  con ingenti fondi in difesa della neutralità, finanziando giornali e gruppi di pressione favorevoli al non intervento, come   “La Vittoria”,  “Il bastone” e “Il Corriere d’Italia”,  che riceveva da Berlino ben 22.000 lire al mese.   Nella  sua postazione privilegiata  il signor G.  raccoglieva informazioni di prima mano e agiva in accordo con un  intermediario governativo, il barone Carlo Monti.  Aveva utilizzato grosse somme di denaro ricevute dal barone Franz von Stockhaammern,   Fino alla fine della guerra il Vaticano (le cui casse languivano) avrebbe incassato dai tedeschi somme favolose tramite banche svizzere, in particolare dal  Credit Suiss. Quanto al governo italiano, si era reso conto ben presto che il papato si era definitivamente schierato dalla parte degli Imperi centrali. Veniva attivata una ambasciata inglese proprio per neutralizzare l’invadenza germanofila. L’arcispia Stockaammern si era addirittura intrufolato nottetempo in Vaticano, eludendo la sorveglianza della polizia italiana e delle guardie svizzere. Nel finale di partita  Gerlach, da maggio 1915  considerato la superspia del Kaiser nel Vaticano, distribuiva cinque milioni di lire a membri della curia, giornalisti e politici.  Anche gli austriaci avevano un elenco di parlamentari italiani sul loro libro paga, nella centrale di Zurigo.
      Veniva dichiarata guerra all’Austria, con imbarazzo da parte del Governo, ma soprattutto del Vaticano. Per la prima volta erano costretti a interloquire: quasi un abbozzo di “riconciliazione”.  Intanto  l’aitante aristocratico dai modi brillanti,   che aveva  accesso a documenti riservatissimi, era solo agli inizi di una stupefacente carriera.   Gerlach   aveva già informazioni precise sul numero dei soldati presenti in Francia e nei Dardanelli. Ormai in guerra contro l’Italia, il  Barone bavarese carpiva tutti i segreti militari e passava le notizie ai servizi di  Intelligence attraverso i corrieri postali del Vaticano. I servizi austriaci conoscevano in anticipo tutti i piani italiani, prima e dopo l’entrata in guerra.  Gli agenti di  G. avrebbero presto sabotato officine, fabbriche e arsenali a Cengio,  Genova, Livorno, Terni, La Spezia… Il prezzario del sabotaggio era di 300.000 per un sommergibile, 500.000 per un incrociatore, un milione di lire per una corazzata. I soldi per gli attentati erano depositati presso una banca di Lugano.

      3. L’incisiva presenza dei Nazionalisti

       Proprio a Taranto si levavano  le prime voci in favore della guerra, con la “Libera Parola” e la “Voce del Popolo”. “Il Nazionalista di Taranto” era, tra l’altro, l’unico giornale a prendere sin dall’inizio posizione contro austriaci e tedeschi, mentre la stampa nazionalista auspicava in genere l’intervento accanto gli imperi centrali. Si dichiarava per l’intervento sin dall’8 agosto 1914: “La guerra va accettata come una necessità e come un dovere per mantenere ed accrescere la civiltà che rappresentiamo”.  A Taranto era presente una robusta  componente della Associazione Nazionalista Italiana (ANI) e si faceva anche sentire un drappello di futuristi.  “L’idea nazionale” simpatizzava per la Germania, riceveva la visita del socialdemocratico tedesco Sudekum, volto a incoraggiare una campagna nazionalista perché l’Italia onorasse i suoi impegni verso la Triplice. Ma ai nazionalisti l’Austria non andava bene come alleata. A un certo punto l’interventismo italiano propendeva in misura maggioritaria al fianco dell’Intesa e  alla fine quello che importava era il “bagno di sangue” rigeneratore. I nazionalisti si adeguavano.  Non mancava il sostegno della Fiat, della Terni e dei fabbricanti di armi.  Nelle campagne cresceva intanto il malumore per il caroviveri e anche tale pressione spingeva speculatori e agrari verso un rapido superamento del neutralismo. 
       I nazionalisti si mobilitavano a Taranto prima che altrove: già nel novembre 1914 si segnalavano scontri fra nazionalisti e socialisti, ma incidenti più proccupanti si verificavano il 15 febbraio 1915,  quando alcuni giovani nazionalisti manifestavano contro il Consolato germanico, provocando una contromanifestazione dei neutralisti e determinando tafferugli e arresti. La città si preparava alla guerra. Il 30 ottobre si registravano, alla presenza del sovrano,  imponenti esercitazioni navali che, per lo scoppio prematuro di una granata, causavano la morte di un guardiamarina  e quattro uomini di equipaggio.
       Dalle classi subalterne,   soprattatto nel contado, non si registravano segnali di grande entusiasmo. I socialisti, malgrado affollati comizi, come quelli  tenuti nel mese di febbraio dall’ on. Campanozzi a Taranto, Castellaneta, Ginosa, Palagianello, Francavilla Fontana,  non si impegnavano più di tanto. In un rapporto del Prefetto di Lecce si poteva leggere che “il 20 aprile 1915 a Lecce la maggioranza delle classi dirigenti è per la guerra (…) e così a Taranto e a Brindisi”. A Taranto il “blocco d’ordine” non incontrava   difficoltà nel coagularsi attorno al sostegno a Salandra:  una volontà  di guerra beneaugurante per l’economia tarantina.  I finanziamenti  per l’industria navalmeccanica erano cospicui,   c’era quasi  piena occupazione e non pochi lavoranti dei campi si arrangiavano, fra città e campagna,  con piccole attività  di ambulanti.
      Nelle giornate del “maggio radioso” l’indignazione contro Giolitti prendeva un carattere popolare: un corteo di 3.000 persone il 16 maggio percorreva le vie cittadine inneggiando a Salandra con musiche, bengali, e bandiere distribuite dai consolati “amici”.  La musica della R. Marina percorreva le vie della città vecchia al suono di inni patriottici, seguita da gran folla di popolani e di donne plaudenti.  Da molte finestre venivano lanciati fiori ai marinai. Al palazzo dell’Ammiragliato una commissione con l’arcivescovo Cecchini pregava l’Ammiraglio Cerri di trasmettere al Sovrano i voti augurali del popolo. Il 23 maggio due navi tedesche, la “Goeben” e la “Breslau” erano alla fonda nelle acque di Mar Grande . Si saggiava il campo per una pacifica sfida calcistica. Si prevedeva una grande affluenza di spettatori, ma  certe scadenze  imponevano un prudente rinvio dell’incontro a data da destinarsi. La guerra veniva dichiarata  e la città era ormai “Piazzaforte marittima in istato di resistenza”.

      4. La piazzaforte militare

     Taranto era la Base navale più importante e al contempo il rifugio più sicuro per la flotta interalleata italiana, francese e inglese, con la sede del 9° Reggimento Fanteria. Mentre il Comando Militare provvedeva alle opere di fortificazione e di difesa nello Jonio e nel basso Adriatico, la popolazione civile si organizzava in vari comitati. Funzionava da subito la Croce Rossa per la raccolta della lana, per i degenti, per un servizio d’informazioni. Veniva aperta una Casa del Soldato e un dispensario diretto dal dott. Lucio Moro. Prontamente le signore si distinguevano nella raccolta di offerte d’oro e d’argento, comprese alcune elargizioni inusuali.  Due funzionari sanitari attuavano con successo l’idea di raccogliere offerte per la guerra nelle case da the.  Raccolte 1934 lire e altre oblazioni una tantum,  i due patrioti si compiacevano perché tutte le tenutarie delle case di piacere esistenti in Taranto e le donne ad esse iscritte, avevano con entusiasmo risposto all’appello con magnifica solidarietà patriottica. Abbiamo constatato che il tesoro dei sentimenti morali non è spento in quelle disgraziate travolte dai marosi della vita” (cfr. “Voce del popolo”, 20 novembre 1915).  Intanto, “al cospetto del Mare jonio”, il commendator Criscuolo tromboneggiava inesausto: “ A te, o re, duce della nuova epopea, questo popolo acclama… l’armi levando, i volti , per gloria lucenti passano, d’assalto e fuoco e di vittoria allegri”.
      Martina Franca era la prima cittadina in terra d’Otranto ad istituire la tessera dell’annona e a costituire un Comitato di assistenza civile per le famiglie bisognose dei chiamati al fronte. 50 giovani martinesi non sarebbero tornati, ma gli amministratori si impegnavano in molteplici opere pubbliche, dalla costruzione del teatro alla sistemazione di piazze e giardini, per dar lavoro ai disoccupati. A Grottaglie ben 225 uomini non fecero ritorno Si era comunque installata una struttura militare che doveva giovare alla cittadinanza, e cioè l’aereoscalo Mario Arlotta, dal nome del giovane aviatore scomparso nel mare Adriatico.
       La mattina del 24 maggio partivano da Massafra 500 militi, accompagnati dalla fanfara di Peppino Tedesco. Alla stazione di Taranto, mentre si caricavano i muli requisiti dalle autorità militari, il consigliere don Peppantonio Scarano elevava il morale dei partenti e dei familiari. Nella serata iniziava l’oscuramento e in caso di attacchi aerei le campane della torre dell’orologio dovevano suonare grazie al guardiano della torre: il signor Cosimo Pranzo, con il suo fucile da caccia a tracolla. Ogni giorno partivano tradotte cariche di soldati, dirette al fronte. Il 6 luglio arrivava la notizia del primo caduto di guerra massafrese, Cosimo Sasso. Il 12 agosto, sulla linea ferroviaria Taranto-Napoli, nel tratto del ponte sul fiume Patemisco, quattro individui travestiti da monaci,  con donne al seguito, si  aggiravano con aria sospetta. I militari freddavano due di loro, mentre gli altri si dileguavano a nuoto. Girava la voce  che fossero spie austriache, ma erano due poveracci in compagnia di donnine: uno dei due era il Frate Antonio con la barba rossa, pseudo-eremita che menava vita avventurosa nelle grotte di Mottola. Il 10 maggio 1917 arrivava da Mottola un altro Messia,  che garantiva la fine della guerra per il 17 maggio e se ne ripartiva con le bisacce piene di ogni bene.  Intanto tutti si rivolgevano al “barbiere letterato”,  per rispondere alle lettere dal fronte. Ai colombi domestici bisognava tagliare le ali, perché non si confondessero con i piccioni viaggiatori,  usati come “portaordini” militari. Il 7 febbraio 1916 si inaugurava l’Acquedotto Pugliese con l’inaugurazione in piazza Giordano Bruno: scaturiva faticosamente un primo zampillo d’acqua del Sele. Il 3 aprile  giungeva a Massafra una lettera sfuggita alla censura, in cui il bersagliere Rocco Ladiana, dal settore carsico di Tolmino, ammetteva che l’osso “era troppo duro da spolpare”.
      Durante la guerra Taranto, l’unico porto di grande ampiezza e l’unico cantiere completamente attrezzato in prossimità della zona dell’attività bellica, funzionava da base principale per le forze navali. Non era teatro di guerra (non subiva  nessun attacco per mare né si segnalavano incursioni di aerei nemici)  di esso era però il retroscena. Le operazioni sul mare avevano come punto di riferimento le due basi navali di Brindisi e Taranto.  Il mar piccolo ospitava la flotta da guerra italiana e alcune unità navali inglesi di sostegno, mentre l’Arsenale provvedeva ai nuovi impianti di armi, agli adattamenti dei nuovi sistemi protettivi, alle continue riparazioni necessarie al naviglio silurante. Veniva riparato lo scafo del piroscafo “Orione”, squarciato da un siluro,  e quello del cacciatorpediniere francese “Brory”, danneggiato dallo scoppio di una mina. Veniva ricostruita la prua del caccia francese “Boutefeu” , che era stata danneggiata da un investimento in mare,  e così quella de C.T. “Chinery”. Riparazioni venivano fatte anche allo scafo del piroscafo “Bulgaria”, raggiunto da un siluro, mentre veniva ricostruita la prora del C.T. “Carini” e riparata la cisterna “Giove”. Di grande rilievo tecnico erano interventi come quello effettuato nel dicembre 1916 di recupero, ricostruzione e riallestimento di un sommergibile posamine tedesco, autoaffondatosi durante le attività di rilascio di mine nelle acque di Taranto. A causa  dell’urto contro una mina, il sommergibile si spaccava in due tronconi,  e dopo gli interventi di riparazione veniva consegnato alla Regia Marina e ribattezzato “XI”. La difesa era potenziata con mine e ostruzioni. Vigilavano aerei , idrovolanti e dirigibili.   La città fungeva da capolinea e centro di smistamento per le spedizioni in Grecia,  Albania, Macedonia e Montenegro (cfr. Vito Antonio Leuzzi, La grande guerra in Puglia, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 16 ottobre 2014).
      Si scriveva una bella pagina con il salvataggio dell’esercito serbo, dopo la sconfitta inflitta da austriaci e tedeschi al  re Pietro. Dalla metà di dicembre 1915 al 24 febbraio del 1916,  furono trasportati dall’una all’altra sponda dell’Adriatico 260 mila uomini.  Impegnativo doveva essere il trasporto di 50 mila uomini a Salonicco, estrema ala orientale dell’esercito interalleato. Il secondo seno di mar Piccolo diveniva il porto della nuova intendenza per l’armata d’Oriente, sulle cui rive, fra Buffoluto e Cimino sorgevano città effimere, baracche di lamiere ondulate che contenevano in media 40.000 uomini.  L’andirvieni incessante dei convogli di piroscafi e navi di scorta motivava la nascita di giganteschi accampamenti,  dove si avvicendavano decine di migliaia di giovani di varia estrazione, in una babele di lingue.

5. Fra esotismo e servitù militari

       Non considerando il favoleggiare del poeta Carrieri su asciutti ufficiali britannici, col casco bianco e i favoriti, maestosi indiani coi turbanti di seta, piccoli giapponesi indaffarati e sfuggenti, sultani, belle donne, pirati… Rimangono belle pagine di Vito Forleo  sulla pittoresca internazionalità militare di Taranto: “Certo, quei marinai britannici natanti nell’immensità dei loro pantaloni, quei marinai della Repubblica che ostentavano sul berretto la nappina rossa… Vaste pennellate di kaki e di blu orizzonte si distendevano sul nostro austero grigioverde… E poi gonnellini di high-landers scozzesi, turbanti d’indiani , facce gialle d’annamiti, facce nere di malgasci,  si offrivano, impreveduti e gratuiti  ‘numeri d’attrazione’, alla curiosità della cittadinanza. Di così vasta e impetuosa ondata esotica, a guerra finita, che cosa rimase? Quasi nulla. Un Caffè degli alleati  in una strada eccentrica; qualche insegna con la scritta: Automobiles, marchez au pas; un posteggiatore che per le fumose taverne della banchina di Cariati andava massacrando it’s a long way to Tipperary” …
      Truppe franco-inglesi, provenienti anche dalle lontane colonie dell’India e del Tonchino, dopo una sommaria preparazione alla vita di trincea, venivano dislocate ai vari fronti, imbarcate per Salonicco o trasportate per ferrovia verso la Francia . Munito di biglietto per Salonicco, in realtà un argonauta senza meta,  giungeva a Taranto uno svogliato  soldato: il grande Alberto Savinio che, alcuni decenni dopo,  avrebbe onorato il “Premio Taranto”. “Mi sento coperchiato da un’ombra: l’ombra di una tettoia, la tettoia di una stazione: la stazione di Taranto!  Lo scrittore riconosceva su quella enorme boa armata il ponte dei due mari,  “potente e trinato che, se apre l’abbraccio, dà libero volo alla flotta di battaglia, e se lo chiude, la raccoglie tutta nell’interno ventre liquido”.  Con il suo occhio ciclopico Savinio percepiva e dipingeva il fascino “mostruoso” dei terramaricoli, dei pesci-quasi uomini, dei “tritoni bimbi” che guizzavano nel canale, a pochi passi da una “nidiata di meretrici , irte sui tacchi rossi alti come trampoli, beccheggianti davanti alle porticine buie ”. Si coglieva immediatamente la comica fisionomia di una città duale, quella nuova  con una gota rasata e quella vecchia con la faccia   non rasata. Al momento della inutile partenza, l’argonauta veniva salutato da una frotta di sfottenti sirene cha cantavano ritornelli da operetta, “sporgendo le poppe brillanti dal mare… in un sogno profumato di vento e di sale”.  In seguito Savinio avrebbe dichiarato: “ Io ho vinto la guerra, sono rimasto vivo!”. Nello stesso periodo ad Udine usciva semiclandestino Il porto sepolto in cui Ungaretti, che nel secondo dopoguerra doveva prodigarsi a Taranto nelle più belle battaglie culturali, lui che aveva combattuto in trincea, poneva in primo piano l’uomo-fante in una condizione di assoluta precarietà

      6. Boom economico e paralisi  civile a Taranto

      La città che anni addietro sembrava scivolata fuori dalla storia, si affacciava invece al centro del palcoscenico internazionale, crocevia della storia più grande e più folle, la guerra. Per provvedere ai nuovi impianti di armi, agli adattamenti dei nuovi sistemi protettivi, alle continue riparazioni di un naviglio silurante già logorato dalla guerra di Libia, attraeva come una calamita soldati da tutte le parti del mondo ma anche una nuova leva di tecnici e maestranze dal circondario e da tutta Italia. In Arsenale si lavorava a pieno ritmo anche di notte. Un vero e proprio boom economico, con uno straordinario rigonfiamento del tessuto urbano, pagato inevitabilmente con il totale asservimento alla militarizzazione. Anche la pesca nelle acque dello Jonio veniva vietata. Pagava soprattutto la città vecchia, con la stazione ferroviaria, i magazzini generali e il porto mercantile,  isolata dal ponte girevole tenuto aperto in permanenza,  per timore di atti di sabotaggio che, inutilizzandolo, avrebbero impedito l’entrata e l’uscita delle navi. Il 16 marzo 1916 il sommergibile tedesco “U.C.12” esplodeva nelle acque di Taranto, presso l’isola di S.Paolo, mentre posava le torpedini destinate a far saltare le unità navali italiane. Il timore degli attentati era ragionevole, considerando che il 27 settembre 1915, nel porto di Brindisi, la corazzata Benedetto Brin era saltata in aria.

       7. Alba di sangue a Brindisi

       La guerra infuriava da quattro mesi in Europa e Brindisi rappresentava un importantissimo teatro per le operazioni militari. Erano da poco passate le ore 8.00 del mattino di lunedì 27 settembre 1915.   Un buon numero di persone assistevano all’alzabandiera e ascoltavano marcette militari. In quel momento si registrava un boato terrificante che faceva tremare l’intera città. La nave era esplosa e la forza d’urto aveva proiettato in alto, per molti metri, poveri corpi straziati di marinai. Del contrammiraglio Rubin  De Cervin si reperivano solo alcuni brandelli. Sulla corazzata esplodeva il deposito di munizioni e un forte incendio si sviluppava su tutta la nave che affondava lentamente, formandosi un letto nel fango molle. Qualche incertezza nel conteggio, ma si parlava di 456   vittime ,  scomparse o irriconoscibili. Esclusa l’eventualità di una azione di sommergibili nemici, in quanto il porto era chiusa da una rete metallica risultante integra ai successivi controlli, le alternative erano secche: o si trattava di una incredibile dabbenaggine per la maldestra disposizione della “Santabarbara” presso la sala motori oppure si trattava di un attentato.  Si ventilava la paternità di un sabotaggio da parte di  austriaci e tedeschi, forti di un attivo sistema spionistico. Quattro inchieste  reticenti producevano un pugno di mosche. Nomi di presunti colpevoli sparivano dalle carte, documenti importanti finivano strappati o mutilati. Insabbiamento generale di indagini mai rese pubbliche “per non dare vantaggio al nemico”.
       A distanza di un secolo quei morti chiedono ancora giustizia.  Rimane la medaglia d’oro ad un ufficiale che, sebbene colpito dall’esplosione e lanciato in mare con gravissime ustioni, si prodigava in operazioni di salvataggio, fino a giungere morto in ospedale. In seguito sarebbero stati condannati tre marinai  e un caporale in un contesto molto confuso. Il 16 marzo 1916 un tale Cesare Merlatti, detenuto nelle carceri di Ancona per spionaggio, riferiva al tenente dei carabinieri Enrico Locatelli alcune rivelazioni avute da un certo Benser intorno al disastro. Diceva che un tale Itasark, messosi a Venezia d’accordo con due albergatori tedeschi, per mezzo di essi avrebbe trovato un marinaio di Mestre, il quale, dietro compenso di 85 mila lire, con un ordigno a forma di orologio, avrebbe fatto saltare in aria la nave, riuscendo a mettersi in salvo. Veniva avviata l’istruttoria, ma il 10 luglio si dichiarava il non luogo a procedere contro tutti gli imputati, per insufficienza di prove. Intanto il marinaio Vezio Diamantini, rinchiuso nelle carceri di S. Elmo con Achille Moschini, denunciava il suo compagno per confidenze su una rete di sabotatori.
       Si appurava che un altro imputato, Giorgio Carpi, prima e durante la guerra, aveva ricevuto denaro dal nemico. Il commerciante Vincenzi era latitante, forse ucciso dai tedeschi in quanto doppiogiochista. Il commissario di P.S. Cimmaruta e il capo furiere Criscuolo, venivano  prima condannati, poi assolti per mancanza di prove. Il Tribunale Militare condannava Giorgio Carpi ,  Achille Moschini  e Guglielmo Bartolini alla fucilazione nella schiena. La pena si commutava in ergastolo e alla fine sarebbe subentrata la grazia.   Carpi e  Moschini dovevano anche rifondere i danni all’avvocato Rocco, che si era costituito parte civile per la morte del figlio Oberdan, avvenuta a bordo della sfortunata nave (Saverio La Sorsa).   La grazia ai prigionieri doveva subentrare in tutt’altra fase storica, durante la piena riconciliazione fra l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler.  Pezzi grossi erano rimasti nell’ombra e,  ancora nel 1925 il regime copriva l’ex ufficiale della Regia Marina, tale Cesare Santoro, accusato di complicità per l’affondamento della “Leonardo”

8. Guerra di spie

       Testimonianza della scrittrice Rina Durante:  Si racconta che a Otranto si era visto lampeggiare  sui bastioni, qualche minuto prima di un bombardamento. Qualcuno ancora oggi crede di sapere che a fare i segnali fu un giovane di trent’anni che faceva però il doppio gioco. A Tricase circolavano due strani personaggi, certamente al servizio dello spionaggio tedesco, uno, e l’altro del controspionaggio inglese… Un mio parente era ufficiale di cavalleria presso la piazzaforte di Taranto quando, a un ballo della Marina conobbe una splendida donna che aveva un leggero accento straniero. Lei accettò di trascorrere con lui ore indimenticabili, ma al mattino era scomparsa lasciando un biglietto: ‘Dimenticami, la mia vita è così strana’… Il giorno dopo, il 2 agosto 1916, la Leonardo da Vinci saltava in aria nel porto di Taranto. Giovani biondi dalla nuca altera, belle dames sans mercì, siluette dall’ancheggio sapiente turbavano le coscienze dei nostri nonni” :  Guerra di spie, in “ Quotidiano”, 31 maggio 1984; Guerra nell’Adriatico, 24-31 maggio 1984.
       Sulla stampa francese e statunitense il ciambellano Gerlach veniva indicato come l’artefice dei sabotaggi , che avevano provocato l’affondamento delle due più grandi corazzate italiane.
 Per cogliere qualche sprazzo di verità  bisognava  mettersi sulle piste  di monsignor spione,   i cui intrighi dovevano essere sventati solo dalla mirabile operazione Zurigo.
   Il 23 giugno 1917, l’ineffabile Rudolph Gerlach veniva condannato all’ergastolo da un tribunale militare italiano per “aver comunicato notizie militari allo spionaggio nemico”. Sul prelato pesava un corpo di imputazioni pesanti. Era accusato di tirare le fila di una importante rete di spionaggio internazionale organizzata da Berlino e Vienna.   C’era ovviamente il suo zampino nella oscura vicenda della Benedetto Brin, dopo appena quattro mesi dall’inizio delle ostilità. Eppure La Segreteria di Stato e lo stesso Pontefice tentarono di bloccare il provvedimento giudiziario. Alcuni mesi prima del verdetto, il 6 gennaio 1917 il monsignor barone veniva scortato sino alla frontiera, accomodandosi nella neutrale Svizzera su un treno confortevole. Il Vaticano si era premurato di pagare una munifica parcella all’avvocato della spia del Kaiser.   “Benedetto fra le spie”  accusava una improbabile  macchinazione massonica in combutta con i servizi francesi.  Fra faccendieri e femmes fatales,  era la vicenda di Taranto e della “Leonardo Da Vinci” che aveva fatto scoperchiare il pentolone nero.

      9. Lo scrittore e la sua ombra

      Chi era Archita Valente? Nato a Taranto il 13 settembre del 1875, doveva morire nel tetro penitenziario di Avellino,  nel novembre del 1918. Scrittore dalla personalità complessa e contraddittoria, tendente a un qualche romantico maledettismo, i suoi amici romani non lo avrebbero mai considerato un “genio del male”,  dal fascino tenebroso dell’agente segreto votato al plotone d’esecuzione. Allievo del liceo Archita di Taranto, tra l’estremo scorcio dell’ottocento e i primi del  novecento, veniva contagiato dall’intensa attività di una eccezionale stagione teatrale.  Al Politeama Alhambra, al Marconi, all’Eden , al Paisiello, nella sua città venivano rappresentati Carlo Veneziani e Cesare Giulio Viola. Il tarantino Lucio Ridenti entrava nella compagnia di Ermete Novelli e nel 1915 si faceva avanti il conterraneo Filippo Surico. A Roma, del tutto indisponibile agli studi di giurisprudenza,  Archita viveva gli ultimi fuochi della belle epoque,  fra la Sala Umberto e l’Ambra Jovinelli, dove D’Annunzio cominciava a cimentarsi come cronista mondano e la regina del Tabarin era la grande diva Anna Fougez, la superba icona degli anni Venti, al secolo la tarantina Annina Pappacena Laganà.
      Sotto il segno dannunziano,  nel 1899 Valente pubblicava una modesta raccolta di novelle, ma un “dramma sociale” intitolato Gli ultimi saranno i primi, veniva proibito dalla Prefettura. Assiduo frequentatore di teatri, biondo, alto e muscoloso, gioviale e amicone, Valente era l’eterno provinciale che rimaneva sempre ai bordi. Frequentava giri importanti: Marinetti e Pirandello, Scarfoglio e Serao; non invitato da alcuno, Archita  interveniva ogni sera, grosso, beato, ridente, riempiendo con la corpulenta persona tutt’un tavolino… Voglioso di respirare atmosfere letterarie, non si curava di essere inerme bersaglio di continue frecciate ironiche, come ha scritto Ettore Panareo. Lucio D’Ambra raccontava di un tiro mancino giocato alle spalle di Archita, che aveva organizzato al Caffè Aragno un banchetto per venti persone, le quali si assentavano malignamente,  mentre il tapino si risolveva a pasteggiare solitario a capotavola, offrendo gratuitamente cibo a una ventina di passanti. Archita Valente non si arrendeva e riusciva a far girare sue opere con la prestigiosa compagnia di Ermete Zacconi, sembra anche a Parigi e a Taranto. Continuava a macinare libri e testi teatrali, ma le critiche erano sempre implacabili. Anche la moglie gli creava impicci: amante del direttore del gaz Pouchain, dopo l’improvvisa morte di questi, si doveva accollare il pagamento di un mobile donato e non pagato. Ridotto in condizioni disagiate,  nel biennio precedente lo scoppio della guerra,  su di lui calava il silenzio. Quando si venne a sapere delle macchinazioni di Archita, i letterati del gruppo romano rimasero attoniti. Il poeta trilussa componeva un sardonico epigramma: “Quello tradiva? Mi stupisco assai/ che avesse intelligenza col nemico/ se con gli amici non ne aveva mai”. La figura del buontempone tarantino si era ridotta a quella di “demone meschino”.

10. L’agente segreto

      Una mattina di aprile del 1916 (l’annus terribilis della Leonardo Da Vinci) il controspionaggio italiano riceveva la visita dell’avvocato Antonio Celletti, amico dello scrittore tarantino Archita Valente,  sempre alle prese con strani pacchi ricevuti da sconosciuti e molto attento agli annunci de “Il Giornale d’Italia”, in particolare le “Rubriche per cuori solitari”.  Lo scrittore jonico, sempre attaccato al tavolo da gioco, perdeva somme di denaro troppo al di sopra delle sue possibilità.  Inizialmente la polizia si mostrava scettica e si limitava a sospendere il passaporto di Valente, già remunerato come ex informatore. In realtà Archita aveva accettato di passare informazioni ai tedeschi  in cambio di un cospicuo assegno mensile e di diversi premi per incarichi speciali. Con il suo codice segreto,  lo scrittore poteva comunicare che lo ZIO= Generale Cadorna era in viaggio= offensiva militare…  “ZINGARA TI AMA” oppure “ZINGARA FARA’ TARDI”. Un codice cifrato che veniva decodificato oltre le Alpi. Valente, privato del passaporto,  pregava  l’amico Grassi  di portare a Lucerna alcune lettere per il Barone Stockhammern, l’ormai noto spione.  Grassi doveva presentarsi al Barone declamando Nel mezzo del cammin di nostra vita.  In realtà Celletti, in accordo con la polizia italiana,  prendeva il posto di Grassi, all’insaputa di Valente.  Veniva accolto da Mario Pomarici, giornalista italiano filotedesco,  che riferiva anche del ruolo di Valente, esperto operatore di messaggi in codice.  Veniva fuori il nome di Rudolf Gerlach come il principale agente , nonchè l’avvocato Giuseppe Ambrogetti , spedizioniere del Vaticano e vari cardinali e vescovi. Ritornato a Roma Celletti denunciava Valente,  che veniva rilasciato ma lungamente sorvegliato, mentre cercava di abborracciare una sorta di doppio gioco riguardo “piste clandestine”  in Italia e Svizzera, che lui avrebbe seguito come ex informatore,  per poter  fornire rivelazioni al Governo italiano…  Londra, Parigi e Washington già propendevano per le fucilazioni, ma con il Vaticano occorreva prudenza. Valente parlava come un fiume in piena, indicando proprio in Ambrogetti colui che gli recapitava lo stipendio mensile. Valente veniva accusato di aver ricevuto un sussidio mensile di 3.000 lire per la stampa del giornale “Il bastone” fino al dicembre 1916, da parte dell’ineffabile Gerlack. Con l’acquisizione dei cifrari di Zurigo venivano smascherati i sabotatori della “Brin” e della “Leonardo”. Quaranta arresti in Italia. la sorte di Valente era segnata. Veniva condannato a trent’anni. Proprio analizzando il “caso Valente”, Carlotta Latini ha ragionato sulla “giustizia di eccezione”,  che permetteva ai militari di applicare il codice penale dell’esercito anche nei riguardi dei borghesi,  come nei casi di “disfattismo minuto”.  L’avvocato Giuseppe Ambrogetti, agente speciale della Curia per i trasferimenti di denari tedeschi, imputato per alto tradimento doveva scontare tre anni di galera. Condanna per intelligenza col nemico,  anche senza intenzione di tradire. Pomarici si rifugiava in Svizzera . Il consigliori del Papa  veniva condannato in contumacia,  ma si allontanava verso la Svizzera su un vagone di prima classe.  Valente veniva accusato di alto tradimento: mentre Pomarici si rifugiava in Svizzera. Valente aveva tradito il mandato di informatore , per aver ricevuto 3.000 lire  per  il giornale “La Vittoria”. Nel trattato di Londra firmato da Sonnino veniva aggiunta una clausola segreta, l’articolo 15, su richiesta di Londra, Parigi e San Pietroburgo, che impediva l’intervento del Vaticano o di qualsiasi funzionario della Santa sede, in una futura conferenza di pace.

10. La notte di Taranto

       La notte del 2 agosto 1916, il Mar Piccolo di Taranto pareva una foresta, con gli alberi della prima squadra azzurrati dal mascheramento notturno. Era una notte senza luna e afosa. Verso le 23.00 La “Leonardo Da Vinci” veniva scossa da un rombo sordo che saliva dal fondo. Lo scafo tremava ed esplosioni sempre più frequenti squassavano il ventre della nave. Alle 23.40 l’esplosione spaccava la “Leonardo” in tanti crateri, con un rombo che percorreva l’aria per molte miglia. Fiamme altissime illuminavano la notte e i marinai venivano inghiottiti nelle voragini prodotte dagli scoppi. Alle 24.45 la corazzata si capovolgeva. Uno scoppio del deposito munizioni aveva fatto saltare in aria e quindi affondare in mar Piccolo la più potente delle sei dreadnoughts di cui era composta la prima “squadra da battaglia” della flotta italiana. La nave si capovolgeva e s’immergeva, lasciando fuoriuscire dall’acqua, per cinque metri, la chiglia puntata verso il cielo illuminato dai riflettori. Trovavano la morte 227 membri dell’equipaggio e 21 ufficiali. La commissione d’inchiesta accertava senza alcun dubbio la natura dell’attentato e non mancava di evidenziare alcune deficienze del servizio di bordo, nella sorveglianza della piazzaforte e in certi particolari riguardanti la disciplina dell’armata. Testimonianza del prof. Giacinto Peluso:  “con papà al fronte, la notte del 3 agosto 1916 fummo svegliati verso le 23 da uno scoppio tremendo che scosse la città dalle sue fondamenta. Di quelle ore apocalittiche noi ricordiamo un cielo rosso come quello che ora si vede in direzione del ‘siderurgico’, tante grida e tanto, tanto pianto. Dal balcone della nostra abitazione nel Vico Statte che affacciava, a causa del dislivello, al di sopra delle terrazze dei palazzi della via Di Mezzo, si spaziava su tutto il Mar Piccolo gremito di navi italiane ed alleate. L’unità colpita era la corazzata ‘ Leonardo  da Vinci’, una unità davvero temibile con le sue 26mila tonnellate di stazza, 13 cannoni da 305 disposti in cinque torri blindate, che si inabissava dopo essersi capovolta e si adagiava sul basso fondale con la carena che affiorava dalla superficie del mare. La città vecchia era particolarmente interessata perché parecchi marinai imbarcati sulla  ‘Leonardo’ erano tarantini’. Nel nostro vico, per esempio, abitava un sottufficiale con moglie e tre figli in tenera età e lasciamo immaginare le scene di disperazione quando,  in un baleno si conobbe il nome dell’unità”.  L’immane detonazione era stata avvertita anche a Massafra, con un grande bagliore che illuminava a giorno la zona e i paesi circostanti. Veniva fissata la taglia di centomila lire per chi riusciva a scoprire i dinamitardi. Si trovavano coinvolti un commissario di P.S. e un commerciante latitante (probabilmente liquidato dai servizi nemici in quanto doppiogiochista). Dalle carte trafugate a Zurigo emergeva il ruolo delle superspie e venivano scoperti ed arrestati 40 informatori e sabotatori residenti in Italia. La commissione d’inchiesta presieduta dall’ammiraglio Napoleone Canavero non riusciva a cavare un ragno dal buco.  Giungeva un plico sigillato dal Ministero della Marina, che doveva contenere le prove della colpevolezza e le cause dell’affondamento, ma la commissione non aveva il potere di aprire il plico, che veniva requisito, censurato e inviato alla magistratura. Una trionfale retata di spie e un pugno di mosche (Luigi Bazzoli).  Un vile attentato, dicevano tutti! Dati i tempi, nel 1917 , i  signori Vile decidevano bene di cambiare il nome in Villa.

11. Il colpo di Zurigo

      Dipanata, almeno parzialmente, la rete informativa dei servizi tedeschi, si decideva un attacco
frontale alla centrale di Zurigo nella sede del Consolato austriaco, dove il Console Mayer aveva in dotazione fondi illimitati per i sabotaggi. Il Ministero della Marina non doveva risultare coinvolto.  Il capitano di Vascello Marino Laureati e il Capitano di Corvetta Pompeo Aloisi organizzavano  una squadra di specialisti,  compredente anche un abilissimo scassinatore di professione, Natale Papini. Nella notte di Carnevale del 22 febbraio 1917 si raggiungeva la cassaforte, utilizzando sedici chiavi per aprire sedici porte. La 17° porta non era prevista. Bisognava provvedere a tempo di record e si ritentava nella notte del 24, sabato grasso. Si lavorava durante tutta la notte, sfidando anche un gettito di gas venefico. Si riusciva al fine a impadronirsi dei codici cifrati e dell’elenco completo delle spie austriache in Italia. Veniva anche prelevata una ingente somma di denaro che passava al controspionaggio della Marina. Forzata la cassaforte, si acquisiva una relazione completa sull’affondamento della “Leonardo” e sui piani per far saltare la “Giulio Cesare”. Due valigie di documenti con la lista completa di tutte le spie agenti in Italia, fra i quali Archita Valente,  complice nella distruzione della “Leonardo da Vinci” .  Da quella operazione veniva tratto un film di Lionello De Felice: Senza bandiera, prodotto nel 1946, ma uscito solo nel 1951. In seguito sarebbe stato prodotto anche uno sceneggiato in tre puntate per RAI 1.

12.  Verso il dopoguerra

      Coprifuoco, oscuramento totale, requisizioni di locali,  strozzavano sempre di più le libertà individuali e collettive. Lo stato di eccezione recava in grembo i futuri gravi problemi della smobilitazione e della riconversione,  da una economia di guerra a una di pace, nel quadro di una mentalità ormai congelata. Soltanto il ceto operaio aveva visto crescere il proprio prestigio,  acquistando una posizione centralissima nella vita cittadina. Si costituivano cooperative di ogni genere,  per fronteggiare i prezzi proibitivi dei generi alimentari e delle case. Nel 1916 veniva inaugurato il Bacino Ferrati,  adibito prevalentemente al recupero sommergibili. Nel 1917 venivano carenate 500 navi da guerra e 60 piroscafi, con un indotto francamente sproporzionato. Mentre a Taranto era in corso di demolizione la ringhiera in ferro della Villa,  il 22 maggio 1917, dopo  11 mesi di prigionia trascorsi nel campo di Mathausen, grazie allo scambio di mutilati ed invalidi fra l’Italia e l’Austria, veniva rimpatriato a Massafra il sottotenente Cosimo Licurgo. Il 2 luglio il fante Davide Sorrentino, forse finto pazzo per non andare al fronte, si denudava e attraversava Massafra con la baionetta per ammazzare il Capitano, ma veniva fatto rinsavire da alcuni fruttivendoli. Nell’agosto 1916 la “Voce del Popolo” aveva pubblicato  una documentazione dell’Ufficio del Lavoro che indicava Taranto, fra tutte le città d’Italia con il primato del rincaro dei generi di prima necessità, con aumento del 48%  per cento. Grossi affari per gli speculatori, rispetto e invidia per i navalmeccanici,  ma livore antioperaio espresso dai ceti medi e piccolo borghesi che vedevano scadere il loro tenore di vita. Durante tutti gli anni di guerra, i socialisti  tenevano alta la loro bandiera con il battagliero giornale “Grido del popolo” che sosteneva in particolare i lavoratori del mare. Non mancava una propaganda antimilitarista in Arsenale a opera di Cataldo Mongelli, Paolo Illuzzi, Umberto Boccuni, Cosimo Zito e Francesco Ippolito. Nel 1918 si registrava il primo sciopero del dopoguerra dei giovani allievi dell’Arsenale per l’abolizione del lavoro domenicale. La richiesta veniva accolta, ma gli organizzatori venivano duramente puniti. Il 21 ottobre 1918 a Massafra si segnalavano molti ammalati di “Spagnola”, la febbre micidiale che doveva procurare più morti della guerra.  Il 4 novembre giungeva il bollettino della Vittoria. Nel Salento,  a Taranto si registrava il minor numero di caduti: 227. Una strada cittadina ricorda un autentico eroe, il Maggiore Angelo Berardi,  che allo scoppio della guerra conquistava subito una medaglia d’argento. Per la bravura dimostrata in numerose azioni, si poneva alla testa dei piloti di dirigibile e veniva fregiato di nuova medaglia d’argento, della croce di guerra belga e di quella italiana. La fase più intensa della sua attività seguiva la ritirata di Caporetto. Volava infaticabile tutte le notti per colpire con le sue bombe i ponti sul Tagliamento  e sulla Livenza , sulle arterie del Trentino e le balze alpine. Compiva 18 ore di volo consecutive e batteva il record mondiale d’altezza per dirigibile. Nell’agosto del ’18 rovesciava sul nemico, con dieci ardite azioni una enorme quantità di esplosivi. Durante l’azione decisiva, dall’alto poteva assistere alla tremenda disfatta degli austriaci. Per ironia della sorte, il grande aviatore doveva incontrare la morte sul golfo di Taranto, scomparendo in un viaggio da diporto, per ricongiungersi con la famiglia.
      Durante tutta la guerra, il cantante tarantino Enzo Tacci, esponente di punta del canzoniere napoletano e del “cafè-chantant” ai tempi di Gilda Mignonette, si era prodigato con innumerevoli spettacoli che si davano nelle immediate retrovie, negli ospedaletti da campo del fronte… In una lettera in data 25 marzo 1927,  E.A. Mario gli scriveva: “Caro Tacci, tu sei il cantore della “Leggenda del Piave”, della canzone che era il grido d’una aspirazione,  che faceva sognare una rinascita. Canta ancora, se questa è la tua missione”. E questa rimase fino alla fine la sua missione.

***

       Il 21 febbraio 1919 il Comando in capo del Dipartimento marittimo decretava la fine dello “Stato di resistenza”. Nel mese di novembre,  concerto ai giardini Peripato con la Banda della Marina e la Banda inglese. In Puglia i caduti in guerra erano 28.195: a Bari 4.572; a Barletta 6.394; a Foggia 5.287; a Lecce 6.953; a Taranto 4.989.
      Della più audace impresa del controspionaggio italiano, il caso Zurigo, non è rimasta traccia documentale. A seguito di un film uscito nel 1955, alcuni protagonisti  raccontavano qualcosa sulle pagine della “Domenica del Corriere”, del 20 marzo 1955. Nel 1954 in Parlamento si era discusso di un possibile intervento a favore dell’ “agente scassinatore” Papini, malato e ridotto alla fame, ma tarde furono grazie divine. L’unico documento superstite, conservato in Archivio, è una ricevuta riguardante una cassettina di latta con i  gioielli di proprietà del Mayer, cavallerescamente restituiti dagli italiani. Leggibile una iscrizione: Frida e Rudolph, sposi.
       I dossier concernenti la “Benedetto Brin” (vittime 400) e la “Leonardo Da Vinci” (vittime 249) rimanevano indefinitivamente secretati e, fra i maneggi dell’autorità militare e di quella politica, andavano  praticamente distrutti. Documenti importanti  erano stati strappati o mutilati (Luigi Bazzoli). I molti inquisiti del “caso Brindisi” dovevano essere fucilati nella schiena, poi condannati all’ergastolo e infine graziati. Per il sabotaggio della “Leonardo” erano stati assolti per insufficienza di prove una decina di imputati .
      Gerlach, “la spia venuta dal Vaticano”, veniva decorato dal Kaiser Guglielmo II  a Berlino e dall’imperatore Carlo I a Vienna . Benedetto XV si spegneva il 22 gennaio 1922, dopo essersi tormentato per l’imbroglio del “cameriere”.  A metà degli anni ’30, l’astuto bavarese si ritrovava ancora a trafficare nel Bel Paese, nostalgicamente desideroso di un qualche  Souvenir d’Italy. Sia pure in ritardo,  la polizia fascista si accorgeva di quello strano condannato all’ergastolo e monsignor spione preferiva scomparire di nuovo.  Abbandonata la carriera ecclesiastica, riceveva  onorificenze da diverse nazioni per i servizi prestati. Adottava lo stile di vita dell’uomo d’affari cosmopolita e conduceva a Davos “vita di secolare convivenza” con una contessa. Moriva in Gran Bretagna nel 1945, dove aveva vissuto sotto falso nome, collaborando con i servizi segreti di Sua Maestà.
      Archita Valente, sepolto nel carcere duro di Avellino, poneva fine ai suoi giorni precipitando nel vuoto da una finestra. Circostanza anche questa non priva di ombre. Era il 7 novembre 1918.
Quattro giorni dopo, l’11 novembre, in una Taranto festante per la fine vittoriosa della guerra, Marietta De Vincentis, madre del suicida, seguiva la sorte del figlio, anch’essa precipitandosi da una finestra. Come scriveva Enzo Panareo: “tutto come in uno di quegli scadenti drammi borghesi, dei quali Archita Valente era stato appassionato, anche se sfortunato, autore”.

      Tra le canzoni in voga ce n’era una portata al successo dalla tarantina Anna Fougez , che sembrava interpretare uno stato d’animo collettivo: l’orrore per la guerra, per il sangue versato sulle trincee del Carso e lungo le sponde del Piave. Il ritornello faceva così:

Cuore, so che vuoi goder
So che vuoi per te rose d’ogni color
Ma le rose rosse no, non le voglio veder…


Testi di riferimento:

Saverio La Sorsa, La Puglia e la guerra  mondiale, Ed.Casini, Bari-Roma 1928.
Enzo Panareo,  Archita Valente: dalla letteratura allo Spionaggio, “Sallentum”, Anno , n.IV, n. 3.
La più audace impresa del controspionaggio italiano nella prima guerra mondiale, “ Storia illustrata”, Settembre 1969, n.142.
Aa.vv.  La Città al borgo, Mandese editore, Taranto 1983.
Fernando Ladiana e Espedito Jacovelli, Massafra e la Grande Guerra, Cspcr Massafra, 1984.
Nino Bixio Lo Martire, I Cantieri Navali di Taranto, Coop.19 luglio, Taranto 1990.
Roberto Nistri, Civiltà dell’industria, Scorpione editrice,  Taranto, 1988
Corrado Pasquali, 1914-1918, L’armata silente, Bolzano 2004.
Rosa Alba Petrelli, L’Arsenale Marittimo Militare di Taranto, Perugia, 2005.
David Alvarez, I servizi segreti del Vaticano, Newton Compton editori, Roma, 2008.
Eric Frattini,  L’entità, Fazi Editore, Roma, 2009.
Aa.vv.  I Cantieri Tosi, Fondazione Michelagnoli, Taranto, 2013.
Annibale Paloscia,  Benedetto fra le spie, Mursia editore, 2013.
Filmografia:
Lionello De Felice, Senza bandiera, prodotto nel 1946  uscito nel 1951.
Adolfo Fenoglio, Accadde a Zurigo,  Sceneggiato in tre puntate puntate su Rai 1, 1981.

martedì 4 novembre 2014

Didattica della Shoa all' "Archita"

Didattica della Shoa all' "Archita"


Già edito a stampa in "Galaesus", XXXV, 2011-2012

© Roberto Nistri 2011.Tutti i diritti sono riservati.

di Roberto Nistri

Alla realizzazione del Memoriale che ricorda gli italiani morti ad Auschwitz, voluto dall’associazione degli ex deportati, parteciparono negli anni Settanta grandi nomi della cultura. Due di loro, Primo Levi e l’architetto Lodovico di Belgiojoso, nei lager nazisti erano stati prigionieri. Il memoriale era stato pensato per parlare al cuore più che alla testa: il visitatore camminava nella claustrofobica spirale di Belgiojoso, leggeva il testo di Primo Levi, ascoltava Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz di Luigi Nono e guardava le tele simboliste di Pupino Samonà. Purtroppo l’installazione, già chiusa dall’estate 2011, ora rischia anche lo smantellamento, grazie al disinteresse del governo Berlusconi e all’ottusa ostilità di Piotr Cywinski, direttore del museo sorto nel campo (1). Forse per alcuni politici Auschwitz è qualcosa che riguardi solo la Polonia. Invece di celebrare il Giorno della Memoria nella data simbolo del 27 gennaio, quando le avanguardie sovietiche liberarono il primo campo di sterminio dove erano stati uccisi un milione e mezzo di ebrei (una data del calendario civile europeo trasferita nel calendario nazionale) sarebbe stato più istruttivo per gli italiani ricordare il 16 ottobre 1943, il giorno della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma con la complicità dei fascisti, una data nazionale. Così hanno fatto i francesi, dedicando  la giornata alla memoria di quel 16 luglio 1942, quando da Parigi vennero deportati 13.000  ebrei e ne tornarono solo 25 (basterebbe la durezza di  questi numeri, rigorosamente censiti, per mandare a ramengo le ciarle dei negazionisti). Senza ipotizzare omissioni malintenzionate, si conferma la perdurante superficialità e trascuratezza italica nei riguardi della “topografia sacra” della Shoah, considerando bastevole la rituale maratona televisiva delmarketing memoriale . 
Siamo sempre più convinti che, in barba alla retorica delle mille “agenzie di formazione”, la scuola pubblica rimanga l’istituzione principe della protezione della Memoria e della riflessione filologica sulla realtà della Storia, che non è un supermarket dove si possa pescare a caso. A questo proposito è bene evitare l’indebita confusione fra la Memoria, insostituibile serbatoio del pathos e del racconto, ma sempre liquida e selettiva (“la memoria è una formidabile falsaria”, ha scritto Antonio Tabucchi) e la certificazione della Storia, senza la quale i ricordi si sfaldano e diventano pasto per le jene della falsificazione. La memoria motiva l’attività storica, la storia corregge la memoria. I testimoni devono continuare a parlare, ma noi abbiamo il dovere di rielaborare le loro voci anche per misurarci con il presente. Perché da quella storia non siamo fuori, e con il suo codice di violenza occorre ancora fare i conti. Si continua a giocare con il pop razzismo e la caccia all’untore è sempre aperta.

***

Da parte dei governi democristiani degli anni ’50 la preoccupazione prioritaria era quella di occultare piuttosto che svelare. Alla Germania di Adenauer si chiese di fare di tutto per insabbiare le indagini sul massacro delle Fosse Ardeatine: “Non appena il primo criminale di guerra tedesco verrà consegnato”, avvertì in una missiva un diplomatico italiano, “arriverà una valanga di protesta da ogni paese che richiede l’estradizione di criminali di guerra italiani”, per i misfatti perpetrati in Jugoslavia, in Albania, in Grecia. La complicità tedesca venne garantita e anche per questo i sopravvissuti alle stragi naziste ancora oggi attendono invano dalla Germania giustizia e risarcimento (2).
Negli anni del dopoguerra, nelle aule del Liceo “Archita” di Taranto, vigeva un motto residuale dell’Ancient regime: “Qui non si parla di politica”. Un ingenuo lettore dei nostri giorni potrebbe pensare che, dopo la caduta di un governo dispotico e la conquistata libertà di parola e di pensiero, si sprigionasse una fame democratica di conoscenza e discussione. Naturalmente non accadeva nulla di tutto ciò: la scuola e anche la famiglia non erano disponibili a trasmettere alla generazione postfascista adeguati strumenti di comprensione riguardo l’ultimo tratto di strada, dalla sconfitta di una guerra scellerata alla occupazione degli Alleati. Per quanta riguarda la questione ebraica, su scala internazionale, fino ai primi anni Sessanta (il processo ad Eichmann è del 1962) quel passato prossimo che si chiamava Shoah abitava dentro silenzi e sguardi muti, volti che si giravano dall’altra parte. Una certa consapevolezza poteva maturare a Taranto solo nelle famiglie degli antifascisti e dei perseguitati politici, quasi tutti operai dell’Arsenale e dei Cantieri Tosi, data l’inesistenza di significative presenze antifasciste di estrazione borghese. Ma negli istituti superiori anche il termine “operaio” risultava sospetto. Professori e genitori condividevano un tacito agnosticismo, temendo che certi argomenti potessero turbare la normalità scolastica o costituissero addirittura un pericolo per l’ordine costituito (3). Quel corpo docente non era “cattivo”, era stato così costruito da una Storia: la storia di una Taranto “perla del Regime” e città “tre volte fascista”, la storia di una Liberazione e di un “altro dopoguerra” non comparabile con la tragica epopea della Resistenza armata al Nord, dove nel fuoco della battaglia si formava una nuova classe dirigente.
Le differenze politiche non furono solo quelle derivanti dal diverso carattere dell’occupazione angloamericana rispetto all’occupazione tedesca, anche quelle tra una parte d’Italia dilaniata dalla guerra interna tra fascisti e partigiani e l’altra , nel Sud, dove il sistema dei partiti si costituì con l’adesione in larga parte sospetta di Comitati di Liberazione che non avevano liberato nessuno: da una parte il cielo pulito di un nuovo Risorgimento, dall’altra una transizione alquanto vischiosa e gattopardesca, con il qualunquismo come stato d’animo endemico. Emblematica rimane la figura del Reduce, icona immortale di Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria, con la sua smania di raccontare ma ridotto al silenzio dalla generale volontà di rimozione: nun penzammo a guaie. Tutte le scuole faticavano ad uscire dal cono d’ombra del Ventennio: quello era il personale, il sistema burocratico, il modo di pensare.
Nel liceo “Archita”, in particolare, aveva avuto modo di spadroneggiare una dirigenza “fascistissima” che fu autentico baluardo del Regime, nell’ora propizia per opportunisti zelanti, carrieristi nella scuola e nel giornalismo, acchiappamedaglie con poca fatica e a scapito dei perseguitati. Ma si può comprendere, sine ira et studio, come la vicenda postbellica, esaurito il vento del Nord, dovesse spingere il paese verso una democrazia fragile e paurosa, ancora inquinata dalla permanenza  dell’autoritarismo dentro le istituzioni, dentro lo Stato, dentro le persone, sempre nella puerile attesa di “uomini della provvidenza”. Bisognerà attendere don Milani e il ’68, perché un giovane potesse di nuovo sentirsi “cittadino sovrano”. Gli anni ’50 e ’60 trascorsero onorevolmente, fra studi certamente severi e ampi spazi per la goliardia. Non mancavano spunti di “maccartismo” nei confronti di due docenti di storia e filosofia, i fratelli Luigi e Raffaele Trento, tenuti d’occhio per i loro trascorsi antifascisti: due schietti liberalsocialisti ma etichettati tout court  come comunisti, perché erano gli unici a far studiare in classe la Costituzione, introdotta ufficialmente nelle scuole solo negli anni Sessanta e largamente ignorata per “mancanza di tempo”.
Non mancavano iniziative extracurriculari come giornali studenteschi e “Cenacoli” interni e anche esterni all’Istituto (4). Il biglietto da visita del liceo era l’annuario “Galaesus”, dalla periodicità non sempre costante, ma fedele ad un format abbastanza paludato nei contributi dei docenti come degli allievi: una sorta di bollettino della vita d’Istituto che non doveva travalicare certi confini. Ancora nel fascicolo VI  del 1975, il preside Tommaso Pignatelli avvertiva che “non è intendimento della presidenza, né è istituzionalmente possibile, trasformare la presente pubblicazione in autentica rivista culturale”. Tali preoccupazioni dovevano condannare Galaesus ad una grigia sopravvivenza, considerando la condizione particolarmente surriscaldata della Scuola in quegli anni (5). Nel decennio ‘75- ‘85 si avvertivano alcuni segnali di apertura al “mondo esterno” (memorabile la battaglia in difesa del fiume Galeso) pur dovendo attendere la fine del secolo per far circolare nella scuola alcuni segnali di presenza sul territorio della Grande Industria.

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Negli anni Ottanta, sotto la presidenza di Franca Schembari,  l’istituto si aprì decisamente alle istanze del territorio (in quegli anni “territorio” era la parola magica per rendere la scuola centro propulsore delle dinamiche civili, magari collaborando con “Italia nostra”, con la Sovrintendenza ai beni culturali, con gli “Amici dei musei”. La rivista “Galaesus” ampliò di molto il ventaglio delle collaborazioni, con il concorso di ex alunni. Nel fascicolo XI  un gruppo di studenti della III D si impegnarono in un lavoro collettivo, Educazione civica, storia locale, metodologia della ricerca,focalizzando le questioni concernenti la vicenda del fascismo a Taranto, imparando a scrivere su ciò che non è già conosciuto, senza rimasticare cibi precotti. Per la prima volta venne affrontata la storia municipale usando il metodo della ricerca scientifica (senza la quale la storia si riduce a retorica) consultando i documenti presenti negli Archivi di Stato di Lecce e di Taranto , dove forse si conserva ancora tale ricerca).
In “Galaesus” XVI (1991-1992) si presentava un corposo dossier, Il sonno della ragione generamostri. Riflessioni sul razzismo. Si trattava di una lettura ragionata del materiale documentario, fornito dalla stampa, sulla tragica escalation delle manifestazioni di razzismo in Europa e in Italia (dall’austriaco Haider alla Lega Nord) durante tutto il corso del 1992, annus horribilis. Gli studenti avevano anche partecipato ad una manifestazione promossa dall’Arci di Taranto, in occasione della presentazione del libro di Laura Balbo e Luigi Manconi, I razzismi possibili. Nell’anno successivo “Galaesus” rendeva conto della relazione  Il razzismo: dalle definizioni alle forme individuali e di gruppo, tenuta dal sociologo Nino Aurora all’assemblea studentesca del 30 gennaio 1993, coordinata dal prof. Roberto Nistri. In “Galaesus” XVIII (1993-1994) la prof. Adalgisa Villani presentava un saggio sull’Etnocentrismo mentre la prof. Loredana Flore inaugurava un progetto sulla Cultura della non-violenza.
In occasione del 50° anniversario della Liberazione, “Galaesus” XIX rendeva conto di un intervento sulla Resistenza di Roberto Nistri,  una ricerca sulla memoria orale, La guerra e il ricordo, a cura della prof. Giovanna Percaccio, una relazione dell’alunna Giovanna Carofiglio su Razzismo eantisemitismo. Di rilievo la manifestazione del 15 maggio 1995, nel Salone di rappresentanza dell’Amministrazione Provinciale, curata dal prof. Francesco D’Elia: La Resistenza narrataattraverso i canti.
1995-1996 La scuola promuoveva il progetto Educazione alla mondialità (coordinatrice prof.
Loredana Flore. Sotto la presidenza di Tommaso Anzoino, nel 1996-97 la prof. Adalgisa Villani curava un importante corso di aggiornamento su Cultura, alterità e linguaggio con docenti dell’Università di Bari: Francesco Fistetti, Augusto Ponzio, Patrizia Calefato, Susan Petrilli (atti in “Galaesus” XXI). Il 18 dicembre 1997 la scuola ospitava Elisa Springer, scrittrice sopravvissuta ai campi di sterminio. In “Galaesus”XXII, sulla scorta del romanzo La storia di Elsa Morante, si ragionava sul fascismo commentando un diario di vita scolastica, compilato dal piccolo Antonio Amatulli quando frequentava la quarta elementare nel 1931/32 a Mottola. Nel fascicolo XXIII (1998-99) gli allievi, coordinati dai docenti Mario Bosco, Maria Pia Intelligente e Roberto Nistri, presentavano una robusta trattazione dell’Olocausto: Le persecuzioni razziali e i campi diconcentramento. Nel maggio del 2000 la scuola organizzava un incontro con il partigiano Angiolo Gracci, comandante della brigata “Vittorio Sinigaglia”.
La riflessione su fascismo e razzismo si arricchiva nel 2000-2001 con un cineforum sul ventennio mussoliniano, con l’incontro con l’ufficiale tarantino Alfredo De Stefano, uno dei pochi superstiti della tragedia di Cefalonia (4 aprile 2001) e con Leone Fiorentino, deportato ad Auschwitz (26 aprile 2001) con un vasto corredo di scritti sul Giorno della Memoria. Nell’anno seguente veniva proposto un altro cineforum sull’Italia in guerra, con un cospicuo progetto interdisciplinare guidato da Loredana Flore: Educare alla pace, alla memoria, alla legalità. Nel 2002 allestimento di mostre fotografiche, incontri con Amos Luzzatto, presidente delle comunità Ebraiche Italiane e con il regista tarantino Emidio Greco. Dicembre 2002: nel Giorno della Memoria incontro con Vitantonio Leuzzi e Francesco Terzulli, rispettivamente presidente ed esponente della Società Italiana degli studi sull’Antifascismo e l’Italia contemporanea. 17 marzo 2003: dibattito organizzato nel Salone della Provincia su La memoria della Shoa, con Clotilde Pontecorvo, esponente della  Comunità ebraica di Roma. Perché ricordare? Con contributi di docenti interni ed esterni.
Il fascicolo XXVIII rende conto del lavoro coordinato da Roberto Nistri e Francesco Terzulli sull’internamento fascista in Puglia, e le polemiche su antisemitismo e antisionismo. Il 27 gennaio 2005 viene proiettato il film Rosenstrasse di M. Von Trotta. Il Giorno della Memoria 2006 venne dedicato a Elisa Springer, con la conferenza di Francesco Terzulli: Una memoria femminile dellaShoa. Da segnalare anche l’incontro con la deportata Mirella Stanzione. Terzulli collabora anche al fascicolo XXXI di “Galaesus” (2006-2007) con un corposo saggio su Primo Levi, mentre l’anno successivo don Franco Mazza commemora la figura di Etty Hillesum. Nel 2010 la giornata della memoria venne dedicata da Roberto Nistri al Porrajmos: lo sterminio degli zingari nella notte più buia del Novecento. Il 26 gennaio 2011 Francesco Terzulli e Giuseppina Cacudi hanno relazionato ampiamente su Ebrei in Puglia negli anni ‘40. Come provvisoria conclusione segnaliamo il progetto “Cultura della Memoria” curato dalle professoresse Loredana Flore e Adalgisa Villani, con la collaborazione della docente Francesca Poretti: il 27 gennaio 2012 Daniele De Luca, Docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università del Salento, ha relazionato nel Salone di Rappresentanza dell’Amministrazione Provinciale sul tema Alle radici della Shoah. Dall’antigiudaismo all’antisemitismo.

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Questa quasi completa rassegna della produzione culturale del liceo “Archita” sulla tematica dellaShoah  dal 1992 al 2012 (un impegno storico che supera nel tempo il ventennio fascista) può essere intesa come una sorta di riscatto, un impegno onorato nella volontà di cancellare le pagine nere delle leggi razziali che appestarono tutte le scuole dell’epoca, ma è soprattutto il riconoscimento di una elaborazione culturale, in chiave rigorosamente costituzionale e repubblicana, che ha coinvolto senza soste generazioni di studenti, gruppi di docenti, artisti e operatori culturali, con spirito di generosa collaborazione. Consideriamo di altissima qualità il materiale documentario accumulato, che dovrebbe essere immesso in rete anche con il patrocinio delle pubbliche amministrazioni. C’interessa sottolineare il peculiare esprit che ha caratterizzato questa operazione cognitiva che, quasi istituzionalmente, a pieno titolo si può considerare una solida tradizione nella vita d’Istituto : il principio che la vera cultura è sempre battaglia culturale, contro l’indifferentismo, la mistificazione, l’assassinio della memoria. Vale l’imperativo categorico del Non mollare, la costruzione di Materiali Resistenti contro l’industria della dimenticanza organizzata, quella che George Steiner definisce la civiltà ad amnesia programmata. La lotta per la verità è la passione di Sisifo, la fatica di ricominciare sempre da capo. Il nemico è sempre all’attacco, soprattutto da quando si è sdoganata la liberalizzazione selvaggia del mercato della memoria (equivalente dell’universale mercato del lavoro). La cultura del cosiddetto Postmodernismo, sostenendo che non contano i fatti  e che tutto è interpretazione ( ermeneutica si dice nel linguaggio culto) ha  funzionato come alibi per le cause più strampalate e malintenzionate: tutto fa brodo per tenere in piedi una volgare politica-spettacolo televisiva, facendo audience a spese di una Storia imprigionata in una corrida di lazzi e pernacchie (6).
Per fortuna questa filosofia è in fase di deperimento pressocchè ovunque, dall’Europa agli Stati Uniti, grazie al ritorno di un sano Realismo che restituisce alla storiografia le sue buone ragioni. Senza l’accertamento dei fatti, senza la filologia, la storia sarebbe solo retorica, bassa cucina della menzogna per i negazionisti dell’Olocausto, i maldicenti del Risorgimento, gli spregiatori della Resistenza e della Costituzione. Dai tempi di Lorenzo Valla, che denunciò il grande falso che giustificava il potere temporale della Chiesa, la filologia primeggia come imbattibile arma della verità e smascheramento dell’impostura. Concedere una patente di buona fede ai negazionisti dell’Olocausto sarebbe come permettere ai teorici della della Terra Piatta di condizionare il corso degli studi di astronomia. Dovremmo seriamente discutere l’ipotesi che nei campi di concentramento nazisti non venne mai ucciso alcun ebreo, e che i pochissimi che vi morirono spirarono per infarto del miocardio, dato che – come celia Umberto Eco – le SS li nutrivano con cibi ad alto contenuto di colesterolo? (7).
La riflessione sulla Shoah, sui massacratori e i loro epigoni, offre ai giovani una straordinaria occasione per misurarsi con il problema massimo, quello del Male: a nulla vale ripetere l’esorcismo  del  Mai più se questa “aiuola che ci rende tanto feroci” è sempre l’universale bellum omnium contra omnes,  dalla prepotenza del bulletto alla sopraffazione del despota: homo hominilupus. L’Olocausto è una incancellabile lezione dove vittime, carnefici e testimoni entrano in scena illustrando il peggio, e il meglio, di cui gli esseri umani sono capaci. La “banalità del male” è il tema suggerito da Hannah Arendt  a proposito del processo ad Eichmann: una formula accattivante, ma anche fuorviante, considerando che il tema di gran lunga più intrigante è quello della “seduzione del male”, dal  Faust al Grande Inquisitore (8).
La dimensione smisurata dell’Olocausto conferisce al massacro degli ebrei il carattere della straordinarietà e della esemplarità: un paradigma imperituro. Ma proprio il vortice dei numeri può essere un rischio per la didattica della Shoah; si ha bisogno di recuperare un punto di vista sulla singolarità: un corpo, un viso, un nome che non si perda nel delirio nazista della quantità. InSchindler’s List Spielberg si è cimentato con la doppia distanza della persecuzione di massa e del dettaglio singolare. In un film girato in un gelido bianco e nero, ha adottato l’ espediente di orientare il nostro sguardo su una bambina dal cappotto rosso, tirata fuori dal mucchio per due volte, come deportata e come buttata nella carretta degli ammazzati, una figura adottata come rappresentante della totalità sofferente. Adriano Sofri ha colto un’analogia con l’episodio di Cecilia nel capitolo XXXIV dei Promessi sposi. Nel “tristo brulichio” dei corpi abbandonati fra cortei di monatti e carri colmi di sacchi funebri, lo sguardo di Renzo si fissa su un oggetto singolare di pietà: la piccola Cecilia con un vestito bianco, portata dalla madre al carro dei monatti e accomodata su un panno bianco. Nel film e nel romanzo l’intento di individuazione pone quasi una coincidenza fra il cappottino rosso e il vestitino bianco. In una pagina de I sommersi e i salvati di Primo Levi  si racconta che fra i cadaveri di una camera a gas si trovò una ragazza ancora viva e di fronte all’immagine di questa persona quegli uomini abbruttiti rimasero attoniti e rispettosi come i “turpi monatti” manzoniani. Secondo Sofri la fugace citazione di Primo Levi è stata forse la cerniera fra il nostro Manzoni e Steven Spielberg, improbabile lettore dei Promessi sposi ma certamente lettore de I sommersi e i salvati. Piace pensare che le cose siano andate così (9).
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Il testo è stato pubblicato sulla rivista “Galaesus”, n. 35, Taranto 2013.
Seguono allegati

1. Un delitto italiano

La Shoah è (anche) un delitto italiano: il più vergognoso della nostra storia. L’Italia è stato il solo paese d’Europa in cui un re, legato dal giuramento alla protezione dei suoi cittadini, ha firmato le leggi razziali, mettendo gli ebrei nelle mani dei persecutori. Poteva resistere e non firmare? Certo che poteva. Lo ha fatto il presidente fascista del Parlamento bulgaro, Dimitar Pesev, persuadendo il suo re a non firmare, fermando così la persecuzione nazista. Nessun ebreo bulgare si trovava ad Auschwitz quel 27 gennaio. Ma c’erano i superstiti  1017 cittadini ebrei di Roma. Onore a quei militanti fascisti come Giorgio Perlasca in Ungheria e il questore Giovanni Palatucci di Trieste che, timbrando firme e documenti falsi hanno salvato tante vite. Si poteva fare. Bastava avere l’animo. Altrimenti ancora oggi ci si potrebbe imbattere in una insegnante capace di ridere con i ragazzini per una barzelletta,  come è capitato il 18 dicembre 1999 alla figlia della signora Leda Levi: “Come entrano trenta ebrei in un baule? Semplice, in cenere”.


     
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1) P. FANTAUZZI, Ad Auschwitz un’Italia senza memoria, in “Venerdì di Repubblica”, 6 aprile 2012. Forse anche la Giornata della Memoria è in affanno, anche se ha esteso enormemente la sensibilità sulla Shoah. Indiscusso appare il successo dell’iniziativa sul piano delle celebrazioni e della produzione editoriale, ci si comincia a interrogare sull’efficacia di un anniversario sempre più schiacciato sul “marketing memoriale”. Un consumo veloce e rassicurante. “Una storia usa-e-getta, piegata a un utilizzo autoassolutorio piuttosto che un’indagine perturbante dentro l’orrore che ancora ci appartiene. Un martirologio che rischia di rimanere muto sulle inquietudini del presente” Una data riferita a qualcosa che è accaduto altrove rischia di diventare una non-data, un’occasione di riflessione metafisica, togliendole storia (D. BIDUSSA in S. FIORI, Ricordare stanca, in “la Repubblica”, 26 gennaio 2011).

2) Secondo lo storico tedesco Felix Bohr i governi democristiani sostennero tale linea per non ravvivare la memoria della Resistenza, guidata soprattutto dal Pci, loro avversario politico; cfr. Roma chiese ai tedeschi di insabbiare le indagini sulle Fosse Ardeatine, in “la Repubblica”, 16 gennaio 2012 e Da Marzabotto a Stazzema massacri ancora senza giustizia in “la Repubblica”, 4 febbraio 2012. Sulle colpe dei fascisti italiani, cfr. S. FIORI,  Il volto feroce dei nostri soldati, in “la Repubblica”, 14 aprile 2005 e Misfatti d’Italia,in “la Repubblica”, 3 maggio 2005; cfr. anche  il documentario La guerra sporca di Mussolini su History Channel.

3) Si consideri che ancora il 27 maggio 2010, presso l’Istituto “Belli” di Roma, gli studenti improvvisarono, alla fine di un concerto, le note di Bella ciao davanti ai rappresentanti del ministero dell’Istruzione, pensando di fare cosa gradita e invece scatenando la reazione indignata della preside per tale “atto deplorevole”, uno “sconcertante episodio” che ha gettato “un’ombra di discredito difficile da dissipare, che ha messo in difficoltà la scuola nel suo complesso”, “assumendo iniziative che travalicano i limiti dell’opportunità, della correttezza e del buon gusto”, con conseguente invito ai genitori di scusarsi (cfr. “la Repubblica”, 2 e 7 giugno 2010). Forse la preside si è ricordata che già nel 2002 Marco Tedde, sindaco di Alghero del centrodestra, aveva vietato di suonare Bella ciao alle manifestazioni del 25 aprile (cfr. “Il Giornale”, 22 aprile 2008). Se una canzone quasi istituzionale, un canto di partigiani senza colore politico, in cui si possono riconoscere i democratici di ogni colore politico e le istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Costituzione, ha potuto suscitare una tale buriana, questo dipende da un clima generale di misconoscimento e snaturamento della storia d’Italia, con ricadute polemiche volte a sviare il senso degli eventi. Riemerge periodicamente una pedagogia tartufesca, ostile al libero dibattito e impossibilitata a formare giovani “cittadini sovrani”.

4) Cfr. F. TERZULLI, La  scuola a Taranto tra ricostruzione e accesso di massa (1944-1965), in AA.VV., Taranto dagli ulivi agli altiforni, II tomo,  Taranto 2007, in particolare pp. 125-147.

5)  Cfr. F. TERZULLI, La Scuola negli anni Settanta: un fortino assediato, in AA. VV., L’età dell’acciaio, Taranto, 2011.

6) Sul nuovo Realismo, vedi U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, 1990; Kant e l’ornitorinco, Milano, 1997, M. FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Bari, 2012. Articoli: M. FERRARIS, L’epistemologia è viva, in “Repubblica”, 06/01/2011, Postmoderni o neorealisti? In “Repubblica”, 19/08/2011. Anche E. DOCX, Così tramonta il postmoderno, in “Repubblica”, 03/09/2011; G. DESANTIS, Eco e Putnam, in “Repubblica”, 22/11/2011; D. MARCONI, Il postmoderno ucciso dalle sue caricature, in “Rep”, 03/12/2011; V. SCHIAVAZZI, Su Verità e realismo, in “Rep”, 06/12/2011; F. D’AGOSTINI, Realista e impegnato, in “Rep”, 01/12/2011; U. ECO, Il realismo minimo, in “Rep”, 11/03/2012; M. GOTOR, Che cos’è la verità storica, in “Rep”, 5.1.2012.

7)  U. ECO, “ Ma come sono morti allora quei sei milioni? Di Aids? Di influenza cinese? Per aver riso troppo come Margutte?” in  La Bustina di Minerva, Milano, 2001, p. 45. Cfr. V. PISANTY, L’irritante questione delle camere a gas, Milano, 1998. La malatelevisione ci ha abituato al professore showman, per il quale la storia è performance, spettacolo: bisogna sorprendere il pubblico con la battuta eccitante, il contenuto è secondario e la verità ha uno statuto negoziabile. La malapolitica insegna che bisogna presentarsi sempre con un tono bellicoso e inutilmente aggressivo, improntato al più grande disprezzo verso quanti la pensano diversamente. La battaglia per la verità rimane quella degli umanisti rinascimentali: “furono i primi a impiegare le proprie conoscenze per denunciare la falsità di alcuni documenti, artatamente costruiti e utilizzati per assicurare la stabilità del potere” (A. ASSMANN, Così la Storia ha ritrovato la sua Memoria, in “La Stampa”, 27 gennaio 2010).

8) Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e spontaneamente ci pensiamo “buoni”, escludendo di poterci trasformare in carnefici, cosa invece possibilissima, come leggiamo nel libro di Philip Zimbardo: L’effetto Lucifero, Milano, 2008. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione innata ma per il “sistema di appartenenza” e la “situazione” in cui ci si viene a trovare: c’entra non l’indole, ma il “ruolo” e la “circostanza”. Non basta osservare l’orrore, per rifiutarlo. Bisogna capire come funzionava la macchina: quegli uomini non erano nati crudeli, lo sono diventati. La vera resistenza è quella che si esercita nei confronti del proprio sistema di appartenenza che ci chiede, in ultima istanza, se stare o non stare al gioco. Il pilota americano che sganciò la bomba su Hiroshima ebbe solo a dire: “quello era il mio lavoro”; cfr. U. GALIMBERTI, Siamo tutti figli di Eichmann?,  e S. NIRENSTEIN,  Non esiste la banalità del male in “la Repubblica”, 12 marzo 2008 e 14 gennaio 2010.

9) Cfr. A. SOFRI, Spielberg, Manzoni…,  in “la Repubblica”, 20 febbraio 1999. Gli storici hanno una grande responsabilità. Forse non sono riusciti a costruire una storia problematica e al contempo popolare, senza cedere al modello televisivo con le sue rivisitazioni fantasiose. Il vero rischio è quello della memoria rassicurante: consiste nell’osservare con raccapriccio ciò che accadde allora, rallegrandoci in fondo che oggi quella tragedia non stia capitando a noi. Quello che dobbiamo ricordare è che, mentre qualcuno attraversava l’orrore, c’erano milioni di persone che voltavano altrove lo sguardo. Anche oggi “non ci accorgiamo della crudeltà che accompagna le espulsioni o le vite violente nelle periferie: c’è un lato brutale della nostra quotidianità che abbiamo deciso di espellere dallo sguardo”; D. BITUSSA, cit.