sabato 13 ottobre 2018

Una strada per l'utopia

Disegno di Stefania Castellana

Una strada per l’utopia di Alessandro Leogrande.

Il Kilimangiaro è un monte coperto di neve alto 5.895 metri, e si dice che sia la più alta montagna africana. La sua vetta occidentale è chiamata dai Masai la Casa di Dio. Vicino alla vetta occidentale c’è la carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine. Forse cercava di andare oltre per trovare il suo Dio.
Anche Alessandro cercava sempre di andare più su, ma la Signora Nera lo avvolse in un manto di freddo. Nella sua Taranto lo attende ancora una strada a lui intestata nella lunga marcia verso l’Utopia del giardino felice: Starway to heaven, dove si incontrano tutte le vite degli uomini speciali, quelli che nella Storia sono riusciti almeno una volta a sospendere la pena del vivere, aprendo almeno un varco nell’Eu topos: La casa della gioia. Non dobbiamo mai stancarci di raccontare: una città se non viene raccontata, si addormenta e si spegne.
Diceva Ernesto De Martino: “Gli uomini hanno bisogno di Simboli e di Storie, che non devono morire come lacrime nella pioggia”.
Finché ci sarà ancora una Storia, lungo il sentiero di Alessandro, noi vivremo.

Roberto Nistri, 20 settembre 2018.

giovedì 14 giugno 2018

Dalle macerie. Un ricordo di Alessandro Leogrande


Dalle macerie. Un ricordo di Alessandro Leogrande


di Roberto Nistri
Lo scorso venerdì 1 giugno 2018, a Palazzo di città, veniva presentato un volume collettivo dedicato all’opera e alla memoria di Alessandro Leogrande, il maggiore scrittore tarantino. Sfogliando le pagine del volume “Dalle macerie”, ritornava alla memoria una piccola battaglia culturale fra i due mari, che doveva suscitare un certo scalpore sulla stampa cittadina: la questione dei cosiddetti neo-spartani. Per Alessandro oggetto di una necessaria puntualizzazione storiografica, per lo scrivente la necessità di non mettere in campo altre perniciose burle che i tarantini hanno giocato, contro se stessi, magari imbambolando anche ministri e senatori vogliosi di passerelle.
Agli inizi del secolo nuovo, l’amico Alessandro rimaneva perplesso di fronte all’improvvisa
passione dei tarantini per i culti Spartani: “La cultura è sempre rivolta al futuro, se vuole essere
vitale, anche quando recupera i fili più o meno sotterranei che legano il futuro al passato, non dovrebbe farlo con astrusi revanscismi o passatismi… Un vagheggiamento rivolto non all’Atene dei filosofi e dei tragediografi, ma alla Sparta grigia e militarista, che in Grecia riscuote successo solo presso i fanatici nazisti di “Alba dorata” (Corriere del Mezzogiorno del 23 Agosto e 21 novembre 2014).
Il mito di Sparta era stato coltivato da Hitler come luminoso esempio di Stato costruito su base razziale. Non si capisce a quale brand mondiale della “svolta” tarantina facessero riferimento il candido ministro della Cultura Franceschini e il presidente del senato Grasso che si sono illuminati a cavalcione di una malaugurante Cometa Spartana. (cfr. “Quotidiano” del 25 novembre 2014) Tutto questo nel mentre si discuteva sulla soppressione della facoltà di Beni culturali nella cosiddetta Università di Taranto. La nouvelle vague neo-spartana seduceva i due illustri ospiti che scoprivano un “brand-volano per una città sofferente”, brandizzando la nobile Urbs “Taranto città Spartana, esempio per tutti”. De chè, boh… (“Quotidiano” del 25 novembre 2014).
Annuciazione, annunciazione! Meno male che non segue mai la manutenzione. In omaggio al film “Trecento”: erano già pronti in cantiere il logo lambda da appiccicarsi ovunque, scudi rotanti e luminosi, statua bronzea di Taras, galee spartane e gondole con parco tematico. Mammoccioni in vetro resina, attrezzistica per body building rugginosa. Vecchi peplum e Maciste. Giustamente Alessandro indicava l’autentico privilegio di Taranto come punto d’incontro fra Oriente e Occidente, altro che il kitsch folklorico e strapaesano con genealogie farlocche e fondali di cartongesso in stile finto antico, con un residuale Museo spartano da nessuno accreditato. Sangue Spartano e piedigrotta cataldiana. La erezione di un falanteo bronzo al centro di piazza Garibaldi. Come si dice, una erezione non si discute. Blunt und boden, terra e sangue. Gloria al pesce strunzo. Pacchianate etiliche e tricche ballacche. Tanto tutte le salme finiscono in gloria. Quanto all’ossessione identitaria, rimane pur sempre la fucina del razzismo. All’epoca don Tonino Bello pregava: "che la Puglia (Apulia, terra senza porte) si pieghi come arca di pace e non arco di guerra”.
“Macerie” è il dolente titolo del volume collettivo che gli amici hanno voluto dedicare al nostro maggiore scrittore tarantino. Antonio Rizzo nel secolo scorso e il nostro contemporaneo Alessandro Leogrande rimangono senza dubbio le figure più esemplari della cultura tarantina. Purtroppo, negli anni lunghi della monocultura statalmilitare e di quella siderurgica, rimane solo l’eredità di un sottobosco mitomane e inconcludente, dalla Accademia dei Terroni agli Spartani fanfaroni.
* * *
Mi sia permesso, di ricordare una curiosa tenzone poetica fra due mari che molto divertiva il nostro buon amico. Il dolente Titolo del volume collettivo che gli amici hanno voluto dedicare alla memoria del Maestro Alessandro Leogrande, “Macerie”, ci ha fatto tornare con la memoria a un titolo simile, risalente agli anni Settanta. Nel 1972 il poeta Nerio Tebano pubblicava a Napoli un vecchio Poemetto in prosa: “Città di Macerie”. Incipit: “Era crollata la mia casa, la mia Città. Era crollata la mia casa, la mia città era fatta macerie…” Nel 1953. A un certo punto sulla stampa spuntavano tre poemetti, due di essi a firma di Tebano, il terzo firmato da Giorgio Liberati.
Dalla “Città di macerie” si faceva avanti il giornalista Barbalucca nel 1953. Nel 1955 toccava al poeta Barbalucca, la rivendicazione di Città di macerie. Ma il giornalista collezionava alcuni impicci e scompariva nelle tenebre. Richiesta la perizia di Piero Mandrillo, studioso della poesia tarantina. Cincischiava di lasse poetiche, ma rimaneva ancora oscura la proprietà dell’opera. Si arrivava sino al 1960. Ben tre pubblicisti della stessa “Tribuna del Salento”. “Città di macerie “era ancora in ballo. Con Mandrillo si avanzava nelle tenebre: intanto sulla rivista di toponomastica, tale Aurelio Svelto faceva una bizzarra scoperta sul vico Borgia, così nomato perché imparentato con Lucrezia Borgia (?!). Boiata pazzesca! Risorgeva la “Città di macerie”. Pian piano Mandrillo, con le sue lasse poetiche, andava convincendosi di essere lui il vero compositore di “Città di Macerie” alla faccia di Nerio Tebano. Nel 1966 ritorna alla luce con “Città di macerie” tutta la compagnia alla faccia di Nerio Tebano.
E dunque: Nerio Tebano (1952), Giorgio Liberati (1953), Giuseppe Barbalucca (1955), Nerio Tebano (1960).
Riepilogo: Tebano Barbalucca. Si arrivava al 1976. L’ora della verità veniva per tutti, ma non per il democristiano e comunista Barbalucca, e tanto meno per la Taranto di “Città di macerie”. Su tutti i periodici Salentini giravano ormai molti apocrifi. Il sempre attivo critico letterario Piero Mandrillo, sospettava ormai di essere l’autore dell’enigmatico poemetto, in virtù di alcune “lasse poetiche” che a lungo aveva compulsato.
* * *
Caro Alessandro, abbiamo voluto ricordare quelle figurine di ieri e forse anche di sempre. Le macerie sono eterne certamente la figura di Leogrande ci ricorda che, se non tutto, il meglio rimane. In giro c’è molta antropologia della scrittura, ai confini della antropofagia: voglia di mangiare lo scrittore. Anche se abiti sull’altro lato della strada, i compagni tengono la luce accesa.
Caro Alessandro, Il Maestro è nell’anima e nell’anima per sempre resterà. Ciao Amico, ovunque tu sia.

domenica 27 maggio 2018

Moro rapito e Taranto. Una testimonianza

Perché in via Caetani, fra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù?

Per una banale svista topografica, che ha oscurato il luogo dove è stato trovato il cadavere. Via Caetani non aveva a che fare con quel sito ove si trovano due brevi strade, le vie Celsa e dell’Ara Coeli, che si addentra nel Ghetto ebraico. Di altro rilievo era Palazzo Caetani, che doveva far scattare il nome dell’illustre Maestro di origine russa, Igor Markevic, considerato con sospetto come il Misterioso “intermediario”.

Comunque qualcuno aveva capovolto con un colpo di coda una trattativa nella quale erano stati coinvolti i servizi segreti di mezzo mondo. Markevic aveva vissuto in un mondo di emigrati russi, apolidi, diplomatici e spie, massoni e banchieri nella Firenze occupata dai nazisti, partigiani, ma anche una Monaco della principessa Grace Kelly con i suoi strani intrighi. Igor veniva coccolato dall’artista Jean Cocteau che lo iniziava al suo ordine cavalleresco per la fondazione di un governo mondiale. Il dominus di Palazzo Caetani era riuscito a conciliare opposti interessi e fazioni anche sulla scena internazionale. Noi mangiamo pane e stelle, diceva.
Markevic non era un partigiano inquadrato militarmente, ma i suoi rapporti di contiguità con la Resistenza sono provati.
Il mondo di Igor era sempre effervescente. Un ginepraio inestricabile: perfino roberto Sandalo, il terrorista di Prima Linea, sospetto di essere un infiltrato dei servizi segreti. Rimaneva l’imbroglio del rapporto Moro-Caetani. Il Sismi indagava sull’appartamento, ma venivano fermati da ordini superiori. Entrava in scena il giornalista Pecorelli, ma veniva fatto fuori. La Renault era tenuta a Palazzo Caetani, secondo l’ordine dei Cavalieri di Malta.
La rivista satirica “Il Male”, rilancia su Palazzo Gaetani. La maga Ester profetizza che gli imputati del Processo 7 aprile vengono liberati in capo a 2 anni. Intanto la caccia al Grande Vecchio. Altrove abbiamo già ricordato le figure di Giorgio Conforto e della figlia, ospitante i brigatisti. Grande frequentazione della loggia del "Libero Pensiero Giordano Bruno”. Giuliana Conforto, l’avvocato Edoardo De Giovanni, e l’agente americano Peter Tompkins, Tutti studiosi dei Misteri Egizi.

Lo scrivente aveva già iniziato i suoi studi per un libro su Giordano Bruno, poi dato alle stampe. Fra i vari cacciatori di “Grandi vecchi”, spiccava la bella figura di Ambrogio Donini. Docente illuminato di Storia del Cristianesimo. Presso l’università di Bari. Diplomatico, entrato nel partito comunista dopo la promulgazione delle leggi eccezionali, si trasferiva negli Stati Uniti, insegnando ad Harvard. Rientrato in Italia, diventava membro del Consiglio mondiale della Pace. Nel 1973 veniva insignito dal Soviet sapremo fell’URSS. Era naturalmente un “uomo di ferro”, come si diceva un tempo. Era un generoso gentiluomo che promuoveva gli studi degli allievi più indigenti. Con il suo assistente, Antonio Moscato, che ricordo con affetto, sempre presente a Taranto con la prima organizzazione Autonoma per l’unità operaia.
Donini era certamente uno stalinista della vecchia guardia, detto anche “kabulista. Un trozkista e uno stalinista che la voravano con grande rispetto reciproco. Certamente era legato a uomini come Rodano e Secchia, morto per avvelenamento nel 1973. Fiero avversario di Togliatti, frequentava giovani extraparlamentari ma, a differenza di Secchia, che era sempre in attesa dell’ora x. Non è un caso che giovani compagni secchiani si ritrovassero come attivi gappisti in Toscana, come ai vecchi tempi del concertista Igor e dei gap fiorentini. L’inquietante codi Gradoli derivava addirittura dai Rosacroce. Si parlava anche di Prodi, della Fabian Society e della Round Table.
Già Pecorelli aveva annusato ombre di Gladio. A palazzo Caetani c’era una stanza segreta che che avrebbe dovuto accogliere Moro, ormai instradato verso la salvezza. E invece Moro fu fatto entrare non nell’auro dei Cavalieri di Malta, ma nel bagaglio di una Renault rossa. Una voce era uscita dal coro.

Giunti a questo punto chiudiamo lo schematico riassunto e rinviamo a eccellenti pubblicazioni: Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca con Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da gladio al caso Moro. Il misterioso intermediario. Igor Markevic e il caso Moro.