martedì 3 maggio 2016

La farmacia del diavolo



La farmacia del diavolo


di Roberto Nistri, in  “Galaesus”, n.21, pp. 295-297,  Taranto,  1998.

© Roberto Nistri 2016. Tutti i diritti sono riservati.


      Il rituale immaginario del Sabba costituisce il pezzo forte della credenza nella stregoneria: non appena un giudice ha tra le mani una strega, l’obiettivo che si prefissa è quello di far confessare  la partecipazione al Sabba,  il che equivale ad  una sentenza di morte. Gli inquisitori annotano con cura le modalità dell’accoppiamento con il diavolo: “La baciava e amava meglio di suo marito, anche se lo trovava sempre decisamente freddo” (Mandrou,  I magistrati e le streghe). Veniva trascurato un fatto strano: l’amplesso produceva dolore causato dalla penetrazione: “esse sostengono che gli organi virili dei demoni sono talmente grossi e duri che è impossibile introdurli senza provare un dolore atroce” (Remy,  Daemonolatreia). Il coito era accompagnato dalla sensazione di acerbo dolore e orrore,  a causa del seme del caprone, che essa sentiva gelido come ghiaccio (Guaccio, Compendium maleficarum). Si tratta di una costante in tutte le testimonianze rese dalle povere allucinate: sintomo di primaria importanza per spiegare la meccanica del Sabba, come intuisce  Freud, che nel 1897 Scrive a Flies: “Se arrivassi soltanto a sapere, perché nelle loro confessioni, le streghe dicono sempre che lo sperma del diavolo è freddo”.
      L’origine di questo sintomo, come anche del tipico “volo a cavallo della scopa”, è ormai del tutto chiarita da una vasta letteratura scientifica  (ricordiamo almeno gli studi di Ioan Couliano e Paolo A. Rossi, che hanno ben esplorato il laboratorio del Sabba).  Unguento, unguento,  mandami alla noce di Benevento, supra acqua et  supra vento et supre ad omne maltempo. Questa formula, ripetuta in tutte le versioni dei racconti sulle streghe,  che si davano convegno sotto il magico noce, evocava con forza immaginativa il rituale preparatorio al volo notturno .
      Nel Cinquecento è Paracelso il primo ad intuire la composizione dell’unguento satanico: sugna, resina, fiori di canapa, rosolaccio e semi di girasole, ma è solo con il Della Porta che si prende piena coscienza del rapporto fra le sostanze neuropsicoattive contenute nell’unguento e il delirio indotto (P. A. Rossi). Il medico napoletano assiste alla preparazione di un unguento che una vecchia contadina si spalma sul corpo,  strofinando la pelle fino ad arrossirla, per poi cadere in un sonno profondo.  Al suo risveglio la “strega” sostiene di aver attraversato mari e motagne, mentre in realtà si è appisolata in cucina. Della Porta indica alcuni ingredienti interessanti: l’aconitum, napellus, detto ( Il veleno del lupo)  e l’atropa belladonna (donna sta per Domina)  piante ricche di alcaloidi fra cui la scopolamina, l’ iosciamina e  l’atropina.  Si tratta di veleni vegetali molto attivi, che a medi dosaggi provocano modificazioni neuropsicologiche. Il grande Giordano Bruno ci ha lasciato nel De Rerum principiis la ricetta di un brodo psicoattivo a base di coriandro, alio, hyoscyamo cum cicuta… et sandali rubro et papavere nigro… Con un simile beverone può scoppiare il Pandemonium, cioè la festa di tutti i diavoli!
      All’inizio del ‘900 vennero approfonditi gli studi su quegli unguenti. Il  Teirlink, come ingredienti psicoattivi usava  Datura Stramonium (o “erba del diavolo”)  e Hioscyamus niger “Poco dopo essermelo applicato, mi parve di volare  attraverso un tornado… feci sogni assai vividi di treni velocissimi e di meravigliosi paesaggi tropicali”. L’hyoscyamus o giusquiamo - derivante da culti celtici -  ancora oggi viene fumato nelle campagne romane,  contro il mal di denti: ribattezzato erba di Santa Apollonia, che venne martirizzata con l’estrazione violenta di tutti i denti.  
       Datura, Giusquiamo, Atropa e Mandragora,  a bassi dosaggi danno euforia , alterazioni spazio-temporali e vividezza nelle percezioni sensoriali, mentre ad alte dosi compaiono dilatazione della pupilla, allucinazioni e delirio.  Effetti psichici sono indotti anche da altre piante tipiche del corredo stregonesco: Cicuta con paralisi motoria e eccitazione convulsiva.  il Verbasco e la Valeriana producono sedazione. Morella e Dulcamara provocano allucinazioni, vertigine, paralisi dell’attività motoria e respiratoria. Digitale produce disorientamento spazio-temporale, il Salice induce forme stuporose e sindrome maniacale. Nelle ricette è ricorrente la Cannabis indica. Il libro di cucina delle streghe (dette anche herbariae) è zeppo di orride  bambolate: grasso di bambino non battezzato, sangue di pipistrello, ossa di morti… Non si deve invece sottovalutare la presenza del rospo che, baciato al punto giusto, si trasforma in principe: il punto giusto s’individua in ghiandole cutanee contenenti Bufotenina che, succhiata,  induce stati allucinatori. Molto vari sono gli effetti che possono produrre i composti ritrovati nella pelle degli anfibi, come si può leggere nell’aureo libretto di Albert Most (Rospi psichedelici, Edizioni Nautilus). In molte lingue o dialetti il rospo viene associato al fungo allucinogeno (vedi Alice). In cina l’Amanita Muscaria si chiama fungo-rospo mentre a Treviso l’Amanita pantherina è chiamata Fongo Rospèr.  Silvio Pagani ha studiato delicatessen come  la Psilocybe semilanceata.
       A proposito di funghi, quando Hofmann scoprì l’acido lisergico (LSD nella claviceps purpurea, fungo crittogamico che infesta la segale in fase di crescita, si sovvenne di strani fenomeni di allucinazione collettiva che si verificavano di frequente fra i contadini che si nutrivano di pane di segale. A questo punto ce n’è abbastanza per chiarire l’esperienza del “volo”. Ma perché a cavallo di una scopa? E l’amplesso del diavolo? I nomi di pixidariaee o   baculariae affibbiati alle streghe,  rivelano quanto importanti fossero nelle loro pratiche la scatola di un unguento e il manico di una scopa. Giordano da Bergamo dice esplicitamente che esse montavano a cavallo di un bastone spalmate di unguento. Ebbene, per assorbire attraverso la pelle gli estratti delle solanacee “le zone del corpo più sensibili sono le ascelle e, nelle donne per assorbire attraverso la pelle gli estratti delle solenacee “le zone del corpo più sensibili sono le ascelle e, nelle donne, la vulva” (Couliano). Data l’alta probabilità di infezione,  infiammazione e vaginite di ogni ordine e grado, la sofferenza fisica si traduceva sul piano fantasmatico in un rapporto doloroso con un partner dotato di un organo grosso e scaglioso. L’evaporazione dell’unguento, invece, produceva la famosa sensazione di “freddezza”. Sic transit gloria diabuli. Questa è la banale verità, ben diversa da quella che condusse al rogo migliaia di povere disgraziate.

Bibliografia
 
Oltre ai testi citati, C. Corvino, Credenze stregoniche e interpretazioni farmacologiche a cura di M. Di Rosa, 1990. Pozioni stupefacenti in “Medio Evo, 7 agosto 1997.

sabato 9 aprile 2016

Dove affiggere il Manifesto per Taranto di Roberto Nistri


Dove affiggere il Manifesto per Taranto di Roberto Nistri


Intervento di Fabio Caffio


Ha ragione Piero Massafra nel dire che il Manifesto  di Roberto  Nistri  andrebbe affisso in una qualche  cattedrale laica che a Taranto non si sa dove sia. 
Purtroppo la mancanza di un nucleo   di persone  impegnate nel culto del bene della Città è da secoli il limite della nostra Taranto, sempre interessata  al contingente, a volte anarchica,  spesso non costruttiva ed incapace di andare oltre lo sberleffo del  ce' te la face fa'.  Forse Nistri ci direbbe che l'unica eccezione a questo stato di cose -derivante da chissà quali caratteristiche genetiche- può ritrovarsi nel periodo magnogreco del governo illuminato di Archita.
A scorrere la storia millenaria di Taranto si ritrova in effetti una capacità di autolesionismo  ed un'inerzia  nell'azione che non ha eguali altrove. Basti ricordare  il traumatico passaggio dalle Due Sicilie al Regno d'Italia in cui la Città tardomedievale  e  la zona dell'attuale Borgo fu  quasi distrutta e stravolta in nome dell' affarismo di pochi e dello sviluppo tumultuoso delle opere di difesa e cantieristica militare. Altro scempio fu quello  urbanistico  commesso dopo la costruzione dell'Italsider, quando le Amministrazioni comunali  autorizzarono una massiccia ed insensata cementificazione edilizia nelle vie del Borgo.
In aggiunta, Taranto appare ora -come è stato detto- una Città popolata da apolidi che, non avendo memoria di una patria comune, sono privi di un metro per giudicare il presente. Ancora una volta  la colpa di questo va ricercata nella mancanza di un nucleo fondante di cittadini interessati al bene comune. Ma anche nel fatto che la Città appare drammaticamente preda dell'attivismo dei Comuni del suo entroterra e della non nascosta logica colonizzatrice di Bari e Lecce cui fa comodo l'ignavia tarantina.
A ragionare con il parametro del cui prodest, potrebbero formularsi molte ipotesi maliziose sui perchè  dell'inarrestabile precipitare della crisi dell'ILVA, dei mancati dragaggi dei fondali del porto,  della chiusura del terminal container ("provvisoriamente" trasferito a Bari), dello strano maleficio che impedisce al District Park di decollare, dell'ultradecennale chiusura "per lavori" del glorioso Museo Archeologico Nazionale dalle cui ceneri è nato un MarTa apparentemente migliore ma di fatto depotenziato, della subdola soppressione per "accorpamento" della Soprintendenza, della liquidazione del Corriere del Giorno, dall'editto barese contro l'operatività dell'aeroporto di Grottaglie.
Su chi contare, allora?
Certo sarebbe auspicabile un primo cittadino che conosca bene i mali della Città e si batta con energia ogni giorno e, soprattutto, in momenti come questi in cui le risorse finanziarie del CIS Taranto sono ancora in attesa di essere impegnate in progetti concreti.  Insomma un Tarantino di alto profilo come quel Francesco Trojlo che nei suoi dieci anni di governo municipale evitò la lottizzazione della Villa Beaumont-Peripato e la "privatizzazione" del Mar Piccolo. Un Cataldiano il quale non abbia timore di giudicare la sua Città senza  ricorrere a verità di comodo, e si concentri su settori come le attività produttive legate al mare, le potenzialità turistiche, le sinergie con il Materano, le condizioni di vita al quartiere Tamburi, l'arredo e l'igiene urbana, i parcheggi, il riuso delle aree militari non più necessarie alla Difesa, la valorizzazione del Mar Piccolo.  Inoltre ci vorrebbero  politici combattivi che contrastino, nell'Amministrazione regionale, le pulsioni egoistiche dei capoluoghi vicini e spronino il Governatore ad agire  in modo super partes anche  nell'interesse di Taranto.
Dove affiggere dunque il Manifesto di Nistri ? Escluso per ora il Palazzo Municipale, avendo il Palazzo del Governo una  funzione per così dire statica, non udendosi più le voci autorevoli del soppresso Dipartimento della Marina, della trasferita Soprintendenza  e del nascosto Liceo Archita ma solo una pluralità di coristi spesso non coordinati tra loro,  essendo  l'Arcivescovado una sede sì autorevole ma diversa da quella dei tempi del grande Monsignor Capecelatro, non resta che pensare alla Dogana del Pesce di Piazza Fontana sopravvisuta con la pensilina liberty. Luogo magico della Tarentinità  che per millenni è stato l'ingresso della Porta Napoli, l'approdo di pescatori e cozzaruli, il ritrovo di una popolazione operosa e paziente. Lì è il Mar Piccolo, di lì si vedono le ciminiere dell'ILVA, il triste scafo di Nave "Vittorio Veneto, i resti desolati dei Cantieri Tosi. Ma lì c'è ancora la vita pulsante di molluschicolturi e marinai che attendono da decenni il riscatto della loro condizione di precarietà e subalternità in attesa di essere nuovamente posti, con regole chiare e moderne da rispettare, al centro della vita economico-sociale della Comunità. Se lo faremo, quelli tra noi che sono senza patria cominceranno a capire cos'è veramente Taranto !

domenica 3 aprile 2016

Era bello quando c'era Totò! Intervento di Piero Massafra sul Manifesto per Taranto

Italiani! Inquilini! Coinquilini!

Era bello quando c'era Totò!

di Piero Massafra

Intervento di Piero Massafra sul "Manifesto per Taranto" lanciato da Roberto Nistri su "La Gazzetta del Mezzogiorno"

A Roberto Nistri, e altri.

Scusate quanto segue, ma c'è il ... salvivico clic! Comunque, era bello quando c'era Totò!

Condivido tutto di quanto Roberto Nistri propone nelle sue 10 "tesi teologiche" e però credo non ci sia in questa ridicola città una cattedrale laica su cui affiggerle (Lutero fu fortunato ad avere intorno gente operativamente ... incazzata).
 

Devo citare, per dar forza e merito al suo intervento, un recente documento ovviamente ormai obliatissimo appena dopo tre anni, benché approvato e forse anche adottato dal supremo sinedrio cittadino. Trattasi del bel dossier stilato "costi a carico" da un aperto manipolo di cittadini che per far candidabile la citta a capitale europea della cultura... bla bla bla, mise insieme cose in cui le proposte di Nistri sono ampiamente rappresentate e che in altro pianeta avrebbero mobilitato le più consolidate sagome di cemento armato.

Ma si va avanti così. Le cose ormai precipitano, parlando con fermo ottimismo!
Fino a qualche tempo fa eravamo solo imbelli, poi si è passati all'invenzione pallonara e carnascialesca, ora è la fase di "Taranto, togli tu che tolgo io", tanto "e che mi chiamo Pasquale io...".
Allora, perché - mi rimproverava un amico - insudare sino alla tosse per la questione sovrintendenza? E perché (mi chiedo io) la "classe dirigente" continua a non chiedere ragione a quanti, consapevoli e informati, nulla hanno fatto perché cessino le diverse misteriose sparizioni di succulente porzioni di Taranto? Forse dilaga una inarrestabile infezione che rende tutto banale e secondario, tranne (ma solo momentaneamente) "madonna" ILVA , dai fumi all'euro conditi!


Ma torniamo al perché dell'insudare per la Sovrintendenza. Per quanto mi riguarda, lo faccio per la "storia", ma attenzione non c'entrano i soliti Greci, Romani e papuasici; sì, per la storia, l'ultima che m'è rimasta e credo poi sia l'unica storia palpabile e ammonitrice; lo faccio per loro, per i morti miei, indecorosamente sepolti dove giacciono.
Si tratta di un residuo, molto residuale, conato di amor civico indirizzato a "confortare", come dicevo, quei poveri baluba dei nostri antenati che (da fine '800) approdati forse da pochi giorni in riva dei due mari, sentirono di doversi "integrare", ma all'altezza. Qualcuno andava "strologando" che dove stavano erigendo le loro piccole case e i loro iniziali miseri opifici, un tempo era fiorita, solare e distesa, una grande-colossale città della grande storia. E nello squallore (la fotografia documenta senza pietà!) del nostro primo novecento sudista, vollero proteggere i discendenti e pensarono (pensa un po') che l'unico asse prestigioso, l'unico cardine non corroso, l'unico sistema per fare di Taranto una cosa decente e "internazionale" fosse da rintracciare nella memoria della classicità e, pur in una città di semiplebe, tra pecore vaganti, capre, capanne, straccioni, mendicanti e denutriti fantasmi residenti nel centro storico, ebbero il coraggio di volere un LICEO, un MUSEO e una SOVRINTENDENZA, convinti anche che l'idea di un'Italia davvero unita, potesse prevedere che il Sud, e persino Taranto città "cagionevole", fosse abilitata a meritare un istitiuto culturale di grande prestigio, anche internazionale.

Noi, ormai senza capre per strada, ma per questo non meno caproni, ufficialmente savi e colti come siamo, liquidiamo per manco di denaro l'università. I nostri eletti poi (quasi tutti) non si degnano, non dico di impedire, ma almeno di informare i propri sudditi - "votatori" delle future programmate sparizioni di quanto nei secoli si è costruito. Penseranno forse non si tratti di pensate e amate costruzioni, ma di cumuli e cataste di chiacchiere e scartoffie di un inutile passato.

Com'era bello quando era possibile almeno sbottare "adda venì Baffone", o citare Totò, sempre pronto a "buttarsi a sinistra", ma saggiamente "qualunquista".

Manifesto per Taranto.

Manifesto per Taranto. Il decalogo è questo

di Roberto Nistri

pubblicato in “La Gazzetta del Mezzogiorno” di domenica 27 marzo 2016

Manifesto per Taranto.

1) Il futuro di Taranto affonda le sue radici nel passato: la Città deve trarre la sua linfa dal mare; le attività di pescatori, mitilicoltori, operatori marittimi e portuali vanno valorizzate e protette dall'incuria e dall'ignavia di chi ha interesse a trascurarle ed ostacolarle.

2) Il Mar Piccolo è un bene comune di grande rilievo storico, paesaggistico e biologico senza il quale Taranto non sarebbe quella che era e può ancora essere. Cozze ed ostriche devono nuovamente diventare un'eccellenza produttiva tutelata da marchio DOP. A questo fine va considerato che la bonifica dei due Seni è senz'altro non più rinviabile, ma prima bisogna valutare gli effetti negativi sull'ecosistema derivanti dalla rimozione degli strati superficiali dei fondali. Essenziale è invece individuare e neutralizzare le fonti costiere inquinanti ancora attive di tipo industriale, militare e fognario. Marina militare ed Aeronautica militare dovrebbero inoltre favorire uno sviluppo degli usi civili del bacino. Le rive del Mar Piccolo vanno inoltre protette dal degrado e liberate da strutture abusive; nel quartiere Tamburi deve essere realizzato il progettato lungomare adiacente via Galeso.

3) La Marina militare è ancora al centro della vita della Città che con essa ha un rapporto cementato da una storia comune. In una prospettiva moderna delle relazioni con il territorio non più legata a logiche ottocentesche, la Marina militare deve tuttavia cedere alla Città, oltre alla Banchina Torpediniere, aree e manufatti non più utili ad esigenze militari e non suscettibili di privatizzazione. In particolare l'Arsenale deve aprirsi alla cittadinanza destinando una propria struttura a sala comunale per concerti, spettacoli e conferenze e consentendo la vista del Mar Piccolo attraverso appositi varchi del Muraglione.

4) La grande industria siderurgica, che riveste un fondamentale ruolo economico a livello nazionale e locale, deve confrontarsi in modo aperto con i problemi ambientali eliminando i guasti prodotti da scelte miopi o quantomeno colpose, e garantendo che la salute della popolazione non subisca ulteriori danni. Le ciminiere devono scomparire dal panorama del Mar Piccolo, i parchi minerali vanno interrati, il Quartiere Tamburi va rapidamente riqualificato dopo anni di vacue promesse e progetti, l'assenza di rischi sanitari va monitorata giorno per giorno con protocolli certificati e trasparenti.

5) Nulla giustifica l'incuria in cui continua ad essere tenuta la Città Vecchia in attesa di una fantomatica «rigenerazione urbana». Ma intanto si deve cominciare dalle piccole cose, emanando un regolamento edilizio sulle caratteristiche delle facciate degli edifici, riposizionando il basolato in via Duomo, eliminando ponteggi e puntelli arrugginiti se non più necessari, abbattendo gli edifici pericolanti privi di pregio architettonico, rinnovando la segnaletica in modo da ridare la perduta identità a vicoli, postierle e piazzette, favorendo con canoni agevolati il riuso di botteghe ed abitazioni. Gli immobili che si affacciano su via Garibaldi vanno restaurati e riportati alle loro caratteristiche originarie.

6) La continua emorragia di attività commerciali del Borgo è frutto, oltre che della crisi, di una colpevole politica di creazione di centri commerciali: tale tendenza va bloccata vivificando il Borgo dal punto di vista delle attività sociali, dell'arredo urbano e dell'istituzione di nuovi parcheggi. Da questo punto di vista non è più tollerabile né l'assurda inerzia nel restauro del Palazzo degli Uffici, né l'incomprensibile abbandono del progetto di costruzione di un Teatro Comunale nell'ex Cinema Fusco. Positiva appare invece la scelta di reinsediare gli Uffici comunali nell'ex Mercato Coperto, anche se va considerato che ciò ha comportato di fatto la rinuncia a riportare alla luce parti dell'Anfiteatro Romano esistente nel sottosuolo.

7) L'archeologia tarantina ha ancora molto da dire e dare alla Città. Quando finalmente il MarTa sarà nuovamente operativo, bisognerà allargare l'area espositiva utilizzando nuovi edifici (quali l'ex Convento S. Antonio o un'ala del restaurando Palazzo degli Uffici) per esporre le collezioni confinate nei depositi e per illustrare in modo multimediale l'assetto urbano della Città Magnogreca e Romana ed in particolare quello delle tombe a camera non visitabili e della struttura delle mura arcaiche. Di fatto l'obiettivo dovrà essere quello di dar vita ad un Grande MarTa.

8) Il Castello Aragonese rappresenta un modello di positiva interazione tra Città e Marina Militare. Esso può però diventare anche un contenitore per collezioni di reperti medievali. In esso potrebbe anche trovare finalmente posto la nave romana che, dopo il recupero degli anni Sessanta, giace in un torrione del Castello. Lo stesso modello potrebbe essere adottato per creare un museo della marittimità tarentina in alcune officine dismesse dell'Arsenale militare.

9) Il Regno delle Due Sicilie ha cessato di esistere nel 1860 assieme alle sue Intendenze di Bari, Terra d'Otranto e Capitanata. La Regione Puglia dovrebbe quindi essere ora un'entità che assicuri un'equilibrata governance di tutta la Regione, Taranto compresa. Non è perciò accettabile che Lecce e Bari cerchino di diventare di nuovo sedi di antistoriche Intendenze Borboniche che accentrino uffici e competenze a danno di Taranto in settori come l'archeologia ed il porto.

10) Taranto, quale capoluogo della Provincia dello Jonio, deve dialogare con il suo entroterra ove si concentrano eccellenze umane, produttive, agricole e culturali, sempre più emergenti sulla scena tarentina. La Città deve però guardare anche ad occidente verso Matera, il Metapontino e la Calabria Jonica riscoprendo legami antichi e comunanza di interessi attuali.

venerdì 18 marzo 2016

«Taranto rinasce con i provinciali» Nistri: il mancato rapporto fra città e hinterland è stato la grande occasione perduta



«Taranto rinasce con i provinciali»

Nistri: il mancato rapporto fra città e hinterland è stato la grande occasione perduta

Articolo pubblicato in: La Gazzetta del Mezzogiorno di Lunedì 18 gennaio 2016, p. VI

di Fulvio Colucci

«L’idea del libro mi è venuta ricordando l’anziano contadino della provincia che mi chiedeva sempre: “e tu, a ci appartieni?”. Lo storico Roberto Nistri ama ironizzare con graffiante leggerezza sugli episodi della storia, grandi o piccoli che siano. Così, rievocando il passato, trovano spazio le uova di Martina Franca «arrivavano freschissime » e mille altri aneddoti di quella galassia, finora poco esplorata dal punto di vista storiografico, delle relazioni (mancate) fra la città e il suo hinterland. «Una incerta appartenenza » è il titolo dell’ultimo libro dell’intellettuale tarantino edito da Scorpione (10 euro). «Analizzo un periodo importante: dal 1860 al 1914, con un occhio particolare alla Belle Époque. Nei suoi ultimi lavori la Taranto del passato diventava occasione per riflettere sul futuro, in particolare rispetto alla vicenda siderurgica. Le pagine di “Una incerta appartenenza” rappresentano, invece, una cesura con quel filone narrativo. «Ho chiuso con la dimensione tarantino-siderurgica. Ho travasato a sufficienza due mari in un bicchiere. Ritenevo inutile accanirsi sul “paziente”. Mancava, invece, la dimensione del racconto storico sulle relazioni fra la città e la provincia. Un grande punto di debolezza per Taranto, una grande occasione perduta».

Perché?

«Quando si dice: occorrono alternative alla siderurgia si dimentica che esistevano ben prima della nascita delle acciaierie. A Taranto e in provincia. Penso all’agricoltura e al commercio. Al porto mercantile. Nel libro analizzo storicamente la situazione al momento dell’arrivo della Marina Militare, quando tutto cambia. S’impone l’industria pesante e la politica si adatta, chinando la testa. Penso alle figure dei sindaci dell’epoca, ridottesi a gestire finanziamenti a pioggia arrivati dallo Stato, grazie ai buoni uffici del sottosegretario alla Guerra Federico Di Palma. Avrebbero potuto, invece, tessere relazioni con i Comuni vicini: Martina Franca, Manduria, Massafra erano realtà economicamente vivaci. La mancanza di rapporti ha nuociuto di più alla città».

In che modo?

«Perché i Comuni della provincia hanno continuato a fare da soli mantenendo la propria vivacità. Taranto si è intorpidita nelle sorti progressive della Marina e poi dell’acciaio. E ha fatto propria quella visione di cui parlava Enrico Presutti, il funzionario tecnico del governo Giolitti che due secoli fa stese una specie di “planimetria economica” del territorio. Presutti scriveva, guardando alle trattative tra proprietari terrieri e rappresentanti sindacali dei braccianti: “I padroni non considerano i contadini uomini come loro”. Ecco, questo concetto può estendersi alla borghesia tarantina, borghesia del mattone, i palazzinari che fuori dal circuito degli espropri terrieri e della cementificazione, non hanno saputo elaborare un’idea di città. Essi non vedevano solo il proletariato e il sottoproletariato cittadino fuori dalla sfera “umana”, ma anche gli abitanti della provincia. Quest’errore pesa sulle spalle di Taranto in modo decisivo».

Che intende col termine provincia vivace?

«Oggi se provi a portare il nome di un intellettuale come Cacciari o di un architetto come Renzo Piano a Taranto rischi di non vedere nessuno all’incontro. Diversamente, in provincia, il fermento culturale è palpabile e se porti un nome importante troverai le sale piene. Sembrano dettagli, ma non lo sono. Aggiungo che “Una incerta appartenenza” scandaglia la storia dei Comuni del Tarantino rilevando la presenza di fatti e personaggi importanti, per esempio nella storia del movimento socialista, tra gli anarchici. Se la città e i centri minori avessero avuto una coscienza dell’identità e del destino comune, la storia sarebbe andata diversamente e Taranto non avrebbe vissuto quel torpore secolare cui facevo cenno».

Ma è possibile riconnettere le identità?

«Io provo a sfidare dal punto di vista culturale la mia città in questo senso. Per me è possibile far nascere una “quarta Taranto” integrando, finalmente, la comunità tarantina e l’hinterland. Però attenzione: il mio è un discorso di principio. Non ho un piano operativo. Il libro rappresenta un contributo culturale e spero ne seguano altri, sempre nell’ottica degli studi storici. Certo non possiamo insistere con la storia della Città vecchia».

Ma come? L’Isola è vista da tutti come il futuro.

«Dall’Isola si può tirar fuori poco, facciamocene una ragione. Ammesso poi che arrivino risorse consistenti. La sua fragilità, a partire dal tessuto urbano, è evidente. Come la tela di Penelope, la Città vecchia un giorno si fa e l’altro si disfa. Mancano le idee e non si può piroettare funambolicamente sul filo teso fra Sparta e Matera».

Torna ad essere duro con chi propone lo sviluppo alternativo?

«No io parlo sulla base della storia e dei dati di fatto. Una “quarta Taranto” potrebbe nascere da un nuovo intreccio fra città e provincia, insisto a dirlo. Una specie di trasfusione di sangue dall’hinterland per troppi anni penalizzato dalla città e dalla divorante monocultura, prima militar-industriale e poi siderurgica. Io mi auguro che, saltando l’impianto delle Province, gli attuali amministratori dei Comuni, a partire dal sindaco di Taranto, possano riflettere su un rinnovato contesto di rapporti fra le città: vocazioni artistiche come quelle di Massafra, Manduria, Grottaglie o Martina Franca non vanno sottovalutate. Travasando le energie provinciali è possibile rigenerare la città. Del resto sono proprio gli abitanti dei Comuni più piccoli che hanno fatto grandi le città. Penso a Milano, per esempio, che si dice sia stata costruita dai bergamaschi».

È stato faticoso scrivere «una incerta appartenenza»?

«È stata una operazione difficile, certo. Ho provato a tracciare una mappa ma era impossibile ricostruirla del tutto. Prima accennavo alla speranza di altri studi storici che seguano questo solco appena tracciato. Per trovare altre carte a Taranto e negli altri Comuni, ricostruire il passato, rendere giustizia alla memoria storica e guardare al futuro con una possibilità».

giovedì 17 marzo 2016

Nostalgia di noi, i soggetti

Nostalgia di noi, i soggetti

di Roberto Nistri
Nuova edizione. Febbraio 2016


© Roberto Nistri 2016. Tutti i diritti sono riservati.

Il 26 gennaio 2016, in occasione della “Giornata della Memoria”, organizzata dal Liceo “Archita”, abbiamo presenziato ad un impegnativo dibattito su una tematica ardua e scabrosa, concernente le responsabilità del filosofo tedesco Heidegger, di fronte alla tragedia del nazismo e della Shoà. L’iniziativa è stata molto partecipata, con qualificati interventi letterari e musicali. Benedetto Croce giudicava Heidegger indecente e servile, ma il filosofo Francesco Alfieri, scrupoloso esegeta del corpus heideggeriano, ha offerto ben altra interpretazione. Il punto cruciale riguardava i cosiddetti “quaderni neri”, di recente pubblicati per esteso , che a detta di molti studiosi, chiariscono definitivamente la fisionomia di un tedesco decisamente nazista e certamente antisemita: una adesione profonda e non opportunistica al Fuhrer Prinzip? Si è aperta una seria discussione. Il professore Alfieri ha messo in campo tutta la sua sapienza filologica per liberare Heidegger da fraintendimenti più o meno maleintenzionati. Il dibattito si è prolungato a lungo con giovani studenti che, in barba al disfattismo governativo, sono ancora avidi di umanesimo e filosofia.

Come dirigente della “Associazione Nazionale Partigiani”, lo scrivente esprime le sue perplessità nei riguardi di una fluviale difesa d’ufficio del filosofo contestato, le cui responsabilità nel dopoguerra venivano riduttivamente applicate alla figura del “simpatizzante”. Troppo poco per un grande accademico, convinto di essere lui il vero Fuhrer. A lungo i colleghi avevano scherzato sul suo “viaggio a Siracusa”, in riferimento al viaggio di Platone, speranzoso di governare filosoficamente il Tiranno. Analoga speranza avrebbe coltivato Gentile nei confronti di Mussolini.

Certo è che Heidegger non ha mai manifestato dubbi: è rimasto un acerrimo nemico della libertà e della democrazia, un nazista convinto, con appesa al petto una decorazione con la croce uncinata, un antisemita di qualità: gli ebrei si sarebbero autodistrutti in quanto “vessilliferi del paradigma calcolatorio!” Una originale rievocazione del “complotto giudaico”.

Il filosofo si sarebbe anche preoccupato di cancellare dal suo opus magnum la dedica al suo maestro ebreo Husserl, non partecipando neanche al suo funerale.

Crimini di pensiero

Nel corso della giornata, solo l’assessore Liviano ha espresso poche ed acconce parole nei riguardi della Vittima Assente. Se nel pubblico fosse stato presente un discendente di un lontano perseguitato travolto dal vortice infame, avrebbe avvertito la propria estraneità in un tempo ormai senza memoria e senza testimoni. La filosofia più che mai deve ancora misurarsi con lo sterminio.

Per quanto ci riguarda, negli anni Sessanta ci siamo fatti i nostri quindici minuti di passioncella per il mago di Messkirch, con il suo “esserci”, il Dasein e l’in der welt sein, lasciando poi senza rimpianti la Selva Nera per accasarci nella più felice Rive Gauche. Il partigiano Pietro Chiodi ci aveva presentato un esistenzialista ateo, mentre il piccolo sciamano era legato ad una vecchia teologia negativa, un neoplatonismo appetibile per uno spiritualismo cristiano sempre in lotta contro la razionalizzazione scientifica e il “disincantamento del mondo” (Weber). L’incantatore nemico della matematica, aveva dichiarato: “ io sono un teologo cristiano!”. Coltivava un pensiero misticheggiante, costellato di promesse abissali con il supporto di fantasie occultiste : un dinamico pusher, spacciatore di principi barbarici e di eccitazioni accademiche, come la “risveglianza dell’Esserci tedesco alla sua grandezza”. Uno scalpellare il nulla, moltiplicando le iperboli con linguaggio doppio, sentenzioso e allusivo. Una parrocchiale custodia del Graal , tutta permeata dal Fuhrer Prinzip , una zuppa d’orzo come quella propinata da Frau Elfride, della quale il filosofo era ghiotto . Karl Lovith, il correttore delle bozze di Essere e tempo, doveva diventare il suo critico più implacabile: occorreva rompere l’incantesimo di una sterile imitazione da parte di una massa di adepti sovraeccitati. Secondo Thomas Bernard, il Guru è stato capace di mettere nel sacco una intera generazione di studiosi, propinando una broda esoterica che ha annegato nel Kitsch la filosofia. Aggiungiamo anche le scopiazzature dal libro dell’ultrarazzista italiano Julius Evola, La rivolta contro il mondo moderno. Decisiva l’opposizione dell’anti Heidegger: il filosofo ebreo Robert Nozick.

Chi oggi sarebbe disposto a seguire i “Pastori dell’Essere” e l’antropologia della “Radura”, misurandosi non con il nulla ma con il vuoto, con tutta la sua forza di risucchio? Franco Volpi, lo studioso italiano che più si è avvicinato a Heidegger, ha considerato ormai irricevibile il suo lascito: sperimentazioni linguistiche che implodono in funambolismi e infine in vaniloqui. Volpi ci esorta a rimetterci in cammino non su presunti “ Sentieri dell’essere”, ma sul Sapere Aude dell’illuminismo radicale.