martedì 25 agosto 2015

Jonici graffiti. 1. Il mito di Taras

Statere tarantino
Roberto Nistri

Jonici graffiti


1. Il mito di Taras
Afosa è la stagione. Tutte le cose ardono di sete. Frinisce tra il fogliame, una soave cicala e il cardo è in fiore. Le donne sono ardenti e gli uomini fiacchi, perché Sirio dissecca il capo e le ginocchia…”.

Ci consoliamo con i poeti antichi e ci sconsoliamo con la solita fungaia dei decreti ILVA Millefoglie, continuando a trastullarci con la grecità dei vecchi film peplum.

Il mito di Taras
Per orientarci nel pullulare di leggende, più o meno apocrife, concernenti le nostre origini, prendiamo le mosse dal decreto reale del 20 dicembre 1935, che raccoglie quasi tutto il complesso simbolico della figura del fondatore della città, il mitico Taras, con delfino, tridente e conchiglia d’oro. Nella nebbia del mito, l’incertezza è sovrana: in diverse descrizioni si registra addirittura l’assenza di Taras e del delfino (cfr. sito Taranto Magna). Eponimo della città di Taranto, era figlio di Poseidone e di una ninfa locale, Satira o Satiria, che passava talvolta come figlia di Minosse (da cui la tradizione dell’origine cretese di Taranto). Taras veniva divinizzato senza imprese eclatanti: intento a fare sacrifici per fondare, in nome della moglie, Satirione, affogava nelle acque di un fiumiciattolo e ritornava nella casa degli dei.

Il primo nome si sedimentava in comparazione con il toponimo Tarsis e il nome tiberino Tarentum. Zolla rinvia alle radici indoeuropee “ter” e “tor”, donde il sanscrito “Tara” (Archetipi, 1988). La Marcato avvicina il nome Tarantos al termine darantoa, tratto da testi messapici. Sempre presenti l’elemento acquatico (talassa) e il culto del delfino. Animale sacro ad apollo (delfòs significa utero) che rende il mare portatore e generatore di nuova vita. Sul delfino viene spesso raffigurato un fanciullo alato, Eros, figura dell’amore e del canto. Il tuffo è propiziatore del rinnovamento. Il canto ammansisce i mostri. Il maestro della lira, Arione, chiese ai suoi carcerieri di poter suonare per l’ultima volta e un branco di delfini lo condusse sano e salvo a Corinto.

Trattasi sempre di riti di fondazione, ma il delfino trasporta sul dorso anche i morti, nelle isole dei Beati, ai limiti del mondo. La figura più inquietante rimane quella del tridente. Comanda sulle acque ma è anche simbolo del fulmine, con le punte come baleni. Nelle prime immagini catacombali il tridente diventa simbolo del crocefisso, come il gesto benedicente delle tre dita sollevate. Il rovescio negativo è il castigo della dea infernale Ecate con le tre teste di cerbero. Nel mito è intrinseca la doppiezza e l’ambiguità: dove è la forza lì è la distruzione, dove è il pericolo lì è la salvezza.

Il mito di Falanto
La faccenda si complica con la scoperta di un più antico simbolo di Taranto: Lo Scorpione (divenuto successivamente simbolo della Provincia). Si tratta di un simbolo rimasto in voga a lungo, scelto sembra dallo stesso Pirro. La figura di Falanto, l’altro eroe fondatore, è la più perturbante. Come scrive Pierre Grimal (Enciclopedia dei miti) durante la guerra di Messenia, quei Lacedemoni che non avevano partecipato furono fatti schiavi diventando Iloti. Perduti i diritti politici, I Parteni scelsero come capo uno di loro, quel Falanto che aveva progettato un golpe contro gli Spartiati. Ma il complotto faceva cilecca e i migranti, forti dell’Oracolo di Delfi, pensarono di sistemarsi in un buen retiro fra due mari. Nel mentre scriviamo pare che in città sia sorto un Museo Spartano, accreditato da non si sa chi, ma tutto fa Brand e sta bene così.

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