lunedì 25 agosto 2014

La dolce critica. Enrico Maria Vernaglione


La dolce critica. Enrico Maria Vernaglione.


Roberto Nistri presenta a Taranto il 21 agosto 2014 il saggio critico La galassia di Jep Gambardella. Un Big Bang chiamato Federico Fellini, edit@ Taranto, 2014.

       Nella lunghissima stagione della malasorte tarantina, fra i vari effetti collaterali,  si registra una sorta di riscatto culturale con una copiosa e inedita produzione letteraria, a carattere soprattuto storico-sociale e narrativo, ma anche teatrale e cinematografica. Come si dice, il nero d’inchiostro stuzzica il verbo. Naturalmente s’impone una seria vigilanza nei riguardi dei sempre attivi venditori di fumo, considerando anche quello delle ciminiere. La città martoriata deve almeno arginare l’arrembante “grande bruttezza” e curare il più possibile la “piccola bellezza”. Una accattivante proposta, al riguardo,  ci giunge da un giovanissimo cinefilo che ha, con grande scrupolo filologico e autentica passione, pubblicato un saggio di critica cinematografica, su un film ancora molto discusso come  La grande bellezza di Paolo Sorrentino. L’autore, Enrico Maria Vernaglione (Taranto 1991) si è laureato al Dams di Roma e ha avuto anche modo di recitare in opere come La vedova allegra,  Al cavallino bianco e  La Serva padrona. Come regista ha girato il cortometraggio Carnival. La sua tesi di laurea è divenuta un libro di pregevole fattura: La galassia di Jep Gambardella. Un bing bang chiamato Federico Fellini (Taranto 2014).
      La “prima” cittadina  ha voluto anche essere un affettuoso viatico per la bella avventura già iniziata dal nostro bravo concittadino, che ha mostrato di avere l’occhio rivolto alle cose future: ad ventura. Durante la presentazione  tarantina l’autore ha dialogato con il pubblico,  mostrando notevole professionalità e muovendosi agevolmente nella apparecchiatura pittorico- musicale del film di Sorrentino.
      Il Premio Oscar,  nel suo incipit ha elaborato nell’immaginario la potenza delle grandi pietre che, come  diceva Caillois, sono le sole a conferire un senso di eternità, pur annientando un turista in un unico e vorticoso piano sequenza.  Dal silenzio delle pietre all’urlo  del giapponese e al  cannone del Gianicolo, si passa senza soluzione di continuità nel gran carnevale della festa, dominata dal signore della maschera, l’icona maxima di Toni Servillo, che regge tutto il carnascialesco ambaradan dei “vuoti a perdere”.
      Jep, il re della festa, ha l’unico scopo di guidare tutti i parvenu, politici, malavitosi, prelati, verso un naufragio nello stile del Titanic o meglio della Concordia.  Come dice Vernaglione,  Jep “esce dalla fila dei corpi e si porta al centro della scena…proprio per manifestare la sua diversità”. Siamo nel pieno del grottesco (ricordiamo la lezione di Marco Ferreri) con una forte vocazione espressionistica e, aggiungiamo noi, depressionistica. Il film vive di rapidi contrasti, dai trenini  e le cubiste si passa al barocco notturno. Il critico si muove con mano felice nel continuo andirivieni fra l’opera di Sorrentino e il capolavoro di Fellini. Il confronto a distanza fra Marcello e  Jep è intrigante: ambedue hanno perso la Bellezza  e possono solo sopravvivere   tra festini ed alcol, parlando del niente.
      Ma Fra i due  non è difficile cogliere uno scarto.  Marcello era un nihilista passivo che si lasciava cullare, mentre Jep ha una missione. Da bravo nihilista attivo ha uno scopo: provocare il fallimento della Festa. Conseguentemente la discussione del testo suscita alcuni confronti obbligatori: il “gran bugiardo” Fellini aveva ammesso a mezzo bocca quello che era chiaro per tutti; fra lui e suoi personaggi c’era una forte complicità, completamente assente nel rapporto fra Sorrentino e i suoi figuranti.  Giustamente Vernaglione  ha considerato la solitudine come la cifra stilistica di tutte le opere di Sorrentino. Il critico dedica belle pagine alla costellazione felliniana dei freaks, rappresentati nel film  dalla direttrice nanetta Dadina, la più normale tra gli inadeguati.
       Il cinefilo Vernaglione non si lascia scappare il grande esempio di Freaks di Browning, con i suoi “cari mostri”. L’autore e il suo critico inseguono tutte le metamorfosi del trash e della vulgata gossipara, al fine lasciando i personaggi  soli di fronte alla bellezza muta.
      Opportunamente, nella seconda parte del suo lavoro, l’autore  avvia un rewind che ci porta quasi a rivedere La dolce vita  alla luce de La grande bellezza .  Diciamolo subito, se è un gran bel film quello di Sorrentino, a nostro avviso la potenza mitopoietica  non regge il confronto, anche se correttamente Vernaglione ha puntualizzato i diversissimi contesti storici delle due produzioni.
      Il  3 febbraio del 1960 usciva nelle sale il capolavoro di Fellini. In fondo non si era molto lontani dal neorealismo  che Stefania Parigi ha definito il “gigante addormentato”, soprattutto quello fiabesco: nel film si entrava nello stesso locale notturno in cui precedentemente Amedeo Nazzari aveva condotto una piccola prostituta. Non molti anni prima Fellini ne Il miracolo aveva ingravidato la pastora Anna Magnani fingendosi un arcangelo. Quando dissero a Celentano che avrebbe ballato  con Anita, esplose in un ultrarealistico “Urka”!  Al di là delle invettive chiesastiche contro l’Orgia da Circo, la Turpe  Babilonia, Sodoma e Gomorra e via salmodiando, i personaggi felliniani erano del tutto normali se non banali, al limite del sublime, come ebbe a scrivere il critico Labranca.  Il  vero tema forte che ci accompagna fino ai giorni nostri, è quello della volontà di stordimento per non sapere, come si evince dal testo di Vernaglione.  
       Flaiano e Fellini non intendevano affatto smarrire il filo della saggezza,  pur  “con l’estremo lusso del rimorso” (Soldati).  Fra albe tristi e notti misteriose si raccontava una  fiaba nera per grandi. Per noi rimane comunque la forza di un mito che è stato variamente raccontato e continuerà ancora ad essere ri-raccontato.
       Era l’anno delle Olimpiadi. Nella città dei due mari veniva posta la prima pietra dell’Italsider.  I ragazzetti di quei giorni non potevano sapere di essere gli ultimi privilegiati  ancora in grado di  vedere il cielo di Taranto non trafitto dalle ciminiere.  Non potevano vedere il film La dolce vita perché vietato ai minori di 16 anni e bollato come “escluso” nelle locandine cinematografiche appese nelle parrocchie. Anche gli adulti lo andavano a vedere quasi di nascosto, ma poi quelli più grandi non la finivano più di raccontare e quel film , che ancora non avevamo visto,  ci aveva già cambiato la vita. Il cinema era grande e tutto era dolcevita, il maglioncino, la sigaretta, la notte sulla spiaggia, il primo Night che si apriva a Taranto, The red sky, una qualunque rotonda sul mare.  
      Non crediamo che ad un sedicenne, anche romano,  il film di Sorrentino abbia cambiato la vita. Quella leggenda felliniana  era attraversata da una sottile ambiguità che costitituiva la vera profondità dell’opera.  Come ha confermato Vernaglione, rimaneva una dolceamara complicità che ci avrebbe fatto amare anche lo splendido e tragico farabutto Gassman , qualche anno dopo,  ne    Il sorpasso.  Solo un mito ti può cambiare la vita, almeno a 16 anni.
       Iniziava la febbre della partenza , la insofferenza  per la piccola patria. Solo in seguito avremmo compreso che La dolce vita era un capolavoro prodotto da due grandi provinciali di genio:  Fellini e Flaiano, ambedue sempre accompagnati dalla nostalgia, dall’impossibile nostos del ritorno, che doveva anche infettare il buon Jep Gambardella, il dolcevitaiolo.


Roberto Nistri presenta a Taranto il 21 agosto 2014 il saggio critico La galassia di Jep Gambardella. Un Big Bang chiamato Federico Fellini, edit@ Taranto, 2014.

lunedì 11 agosto 2014

Il silenzio delle pietre e il sapiente bambino

Plinio il Vecchio

Il silenzio delle pietre e il sapiente bambino


Prefazione di Roberto Nistri a I sogni del sottosuolo, Taranto 1999.
Traduzione di Flora Stefàno del libro XXX della Naturalis historia di Plinio il vecchio.

      Nel gennaio del 1981 Marguerite  Yourcenar pronunciava all'Académie française il tradizionale discorso di elogio di colui del quale aveva preso il posto: Roger Caillois, morto nel 1978 a 65 anni. Era un uomo, concludeva la Yourcenar, che "cercava di dirigersi nel senso delle cose": il rigido assertore dei valori razionali e umanistici che si era velluto a trovare, lungo il suo percorso intellettuale, sempre più dalla parte della natura. Un "antropomorfismo alla rovescia ", quello di Caillois, perchè il "senso delle cose" è andato a cercarlo oltre l'uomo, prima  nell'animale e poi nella pietra.
Si può dire che alle pietre Caillois abbia dedicato i suoi ultimi libri: Pierre réfléchies, Récurrences dérobées, Fleuve Alphée. L'avventura della "tribù umana" sulla terra viene ridimensionata a vantaggio del silenzio delle pietre, "non suscettibili d'emozioni", che forse dicono sull'uomo più di quanto l'uomo riesca a proiettare di sé su di loro. Così Caillois accentua alla fine l'interesse per il "sacro ",  per il fondo misterioso della realtà, per le "analogie" di sapore quasi alchemico che egli percepisce in quell' "alleanza di splendore e abbandono" propria della natura e che non è costata "né veglie né sudori". Questa prospettiva di umanesimo maturo comincia ad acquistare larga cittadinanza solo nelle più recenti espressioni dell'eco-cultura: si tratta di un ripensamento complessivo di noi stessi e del nostro ruolo nel mondo, abbandonando una ingenua (e fondamentalmente aggressiva) tradizione antropocentrica.
      Ci sembrano non impropri questi riferimenti alla "filosofia minerale" di Caillois, suscitati dalla lettura delle pagine della Naturalis historia dedicate alle pietre preziose e con tanta passione tradotte dall'amica Flora Stefàno. Lungi da noi l'idea di improponibili attualizzazioni di Plinio nell'area dell'ecologia contemporanea o di anacronistici confronti con studiosi molto più di Plinio raffinati e dotati di spirito critico. Quel naturalista del primo secolo non valeva molto come pensatore e raccoglieva spesso acriticamente e con scarso controllo della validità scientifica le notizie trasmesse dagli autori precedenti. In base alla tipologia proposta da Bacone potremmo individuare Plinio come uno scienziato-formica, sostenitore del "raccogli tutto e porta a casa". Ma l'autore della Naturalis historia rimane un grande per quella sintesi di illuminismo e di fiabesco che continuamente riaccende lo "stupore" (la più autentica molla del sapere, secondo Aristotele) di fronte alla materia e ai suoi incantesimi, dei quali il sapiente bambino è il cronista devoto e infaticabile.
      Trattando delle pietre preziose, Plinio parla poco e con disprezzo del loro valore-di-scambio (che si traduce in potere dell’uomo sull'altro uomo) ma è invece affascinato dal loro valore di-verità e cioè la potenza espressiva attraverso la quale lo Natura condensa e celebra il suo Geist. Nella premessa leggiamo di "quelle gemme che, pur piccole, rappresentano tutta la magnificenza della natura" e sono "talmente splendide da poter indurre la maggior parte degli uomini alla suprema contemplazione". Roger Caillois esortava al rispetto delle grandi pietre, la cui contemplazione “soddisfava, attraverso le fughe della immaginazione, il bisogno di eternità dell’uomo”. Per dare coerenza a queste brevi note, proponiamo una ipotesi interpretativa di questa categoria della "suprema contemplazione".
      Nel par. XIV Plinio ci tiene a ribadire una linea di demarcazione fra scienza e non-scienza, impegnandosi a biasimare "la nefanda vanità dei maghi". Nel corso del libro, i maghi sono definiti "impostori" (par. XL) e "menzogneri" (par. LVI) e "sfrontati" (par. LX). Durante tutta lo sua opera, II nostro razionalista non ha perso occasione per tenere alta la bandiera dell'anti-magismo, rilevando come lo "scienza dei Magi", fraudulentissima artium, sia in contrasto non solo con  lo ius humanum (Iib. XXVIII XXVlII2, 4), ma anche con quello divino (lib. XXVlll 2, 9 e XXX 2, 11) e con lo stesso mos humanus (lib. XXVIlI 2, 4). Nel libro XXX vi è una interessante esposizione delle connnessioni fra la medicina, lo religione e l'astrologia con le "imposture magiche", grazie alle quali "la più fraudolenta delle arti ha avuto per molti secoli un potere grandissimo in tutto il mondo".
      Etimologicamente il termine magia, derivato dal greco magheia,  indica lo "scienza dei Magi", secondo Plinio nata in epoca antichissima in Persia , arricchita da molteplici contributi orientali, giunta a Roma tramite la mediazione greca (ma nel libro XXX anche lui riconosce lo presenza in Italia di pratiche magiche, prima di qualsiasi contatto con l'Oriente). Di fronte a questa ars Plinio condivide la decisa condanna che da sempre Roma ha formulato, anche se (proprio perché) i romani non mancavano di usufruire dei suoi servigi.
      La prima attestazione repressiva di azioni magiche è data dalla condanna decemvirale del maleficio contro le persone e le messi nelle leggi delle XII tavole, la cui composizione risale alla metà del V secolo a. C. Ma i provvedimenti più specifici risalgono al 33 a. C. quando, sotto il  triumvirato, si cacciano dalla Urbs gli astrologi e nel 16 d. C. quando, sotto Tiberio, un senato consulto mette al bando i magi; durante lo stesso regno, il reato di magia comincia a essere punito con lo pena capitale. Per l'uomo romano lo magia non è soltanto falsa e immorale; egli prova un autentico horror di fronte al potere di ire contra naturam (Quintiliano). Dal punto di vista della Weltangschauung romana ciò che è contro natura appartiene alla categoria dei monstra. Plinio definisce Ostane monstrorum artifex (lib. XXVIII2, 6) e dichiara che l'intera umanità deve gratitudine allo Stato romano per l'offensiva condotta contro quei poteri e pratiche eversive dell'equilibrio cosmico che sono le "mostruosità" magiche (Iib. XXX 4, 13). Ma i mostri sono buoni per pensare, dice Maurizio Bettini. Il mostruoso non è solo il luogo dell’orrore, ma anche quello di una fascinazione misteriosa, perché incarna qualcosa che pure abitando in noi stessi ci eccede, diventando un oggetto, al tempo stesso, d’angoscia e di curiosità.  Valga il film di Joe Dante, The Hole del 2009: davanti a un buco senza fondo, i ragazzini devono scendere in una botola per ingaggiare una battaglia contro le loro paure più fanciullesche.
      Non possiamo sviluppare più di tanto questo tema, ma vogliamo rimarcare le profonde implicazioni dell'antimagismo romano: da una parte la tensione "illuministica" ed "ecologica" contro le trasgressioni dell'ordine naturale, irriducibili alla ratio e allo ius, dall'altra il conservatorismo implicito nella condanna di ogni pratica non conforme al mos maiorum , come eversiva dell'ordine cosmico e quindi dell'ordine sociale (per chiarirci, veniva repressa non ogni forma di divinazione, ma quella mantica non controllabile dallo Stato). Si pensi che in epoca imperiale la magia veniva assimilata al crimen maiestatis:  l'accusa diventava un efficace strumento repressivo contro gli oppositori politici e le culture antiromane e curiosamente, gli imperatori che tralignavano dal loro "giusto" ruolo finivano contestati come maghi.  Plinio accusava esplicitamente Nerone, nel libro XXX, di voler imperare  tramite la magia. Si pensi al paradosso della Chiesa cristiana, perseguitata per le pratiche magiche esercitate in riunioni segrete e quindi illegali, che in seguito rivendicava il ruolo di continuatrice della missione anti-magica dello Stato romano: come giustamente osserva Uboldo Lugli, "come per l'ideologia quirite era magico tutto ciò che appariva come non-romano, per quella cristiana (erede dell'antimagismo xenofobico alto-testamentario) era assimilabile alla magia ogni manifestazione religiosa ad essa estranea".
      Come abbiamo visto, Plinio era, a proposito della magia, perfettamente allineato con lo tradizione latina e non perdeva  occasione per sbeffeggiare la scarsa serietà degli orientali e degli stessi Greci. Ma a questo punto non possiamo non sottolineare  il carattere storicamente riduttivo di questa definizione della "magia", rispetto ad una ricca tradizione che va ben al di là del mondo latino. In fondo Plinio colloca pacificamente sotto lo categoria della "scienza" tutta una serie di proprietà terapeutiche delle pietre preziose che da sempre la "magia" ha considerato di sua legittima competenza. Ma solo un passo vogliamo indicare, nel par. XV di questo libro: "nella natura, come ho cercato di dimostrare in tutta l'opera, ci sono accordi e disaccordi chiamati, con termine greco, simpatie e antipatie". È questa "legge di simpatia" (alla base, fra l'altro, della medicina omeopatica, dell'intera iatrobotanica e delle terapie dei Magi nel mondo antico) che conferisce un senso pieno a quella "suprema contemplazione" da cui siamo partiti.
      In questo quadro categoriale l'effetto-verità produce una comprensione-riconciliazione con il mondo sicut bonum. Contro l'aggressività bassamente egoistica di una "magia" disposta ad ire contra naturam per soddisfare un miserabile utile personale (ai giorni nostri non conosciamo forse i guasti di tale  magia nera, di questo logos del comando volto a trasformare in profitto e consumare  l'altro uomo e infine il mondo stesso?) riemerge la figura del vero scienziato, che difende i valori dell'umanesimo maturo contro il rozzo soggettivismo del calcolo e del tornaconto, che propone una "gaia scienza" capace di godere del  mondo  sub specie aeternitatis.
      Nella figura del Sapiente Bambino abbiamo pensato di poter apparentare il post-moderno Caillois e l'antico Plinio.  Le pietre preziose, le scheggie luminose che lampeggiano nel firmamento delle dimore oscure , dove s’intrecciano membrature intrecciate di visibile e invisibile, indicano la porta dell’Estate:      
Lumen in tenebris”.     
      L'erudito Plinio, il cronista dei tormenti e delle gioie della materia, lasciò i suoi libri e s'inerpicò lungo le pendici del Vesuvio, dopo aver visto i primi segnali di quella eruzione che doveva seppellire Pompei, Stabia ed Ercolano: "accorreva donde gli altri fuggivano, senza timore per se stesso, annotando tutto ciò che osservava di quello spettacolo pauroso”  (Concetto Marchesi). Come poteva fermarsi? Stava ascoltando lo voce degli abitanti di una "notte opposta a quella astrale" : Il mundus dei romani costituiva una via tanto per gli Inferi quanto per il Cielo. Era la stessa voce che dalla profondità del mundus (abisso) s'innalzava verso l'immensità del mundus (cielo). Stairway to heaven. L 'eruzione infuriava. Sulle navi cadeva una pioggia sempre più densa di cenere e di lapilli infuocati. Plinio trovò la morte e  vinse le sue paure, nel momento estremo, al cospetto del Grande Pozzo.   Una traduzione è l'eco di un eco, una piccola operazione magica per chi, come la preziosa Flora Stefàno, è convinta che anche fra le pagine di un dizionario possa svelarsi il pertugio che conduce verso il grembo delle fiabe. 

domenica 10 agosto 2014

Taranto: l’immaginario della città nel cinema


Taranto: l’immaginario della città nel cinema. Festa degli architetti 2014.

ROBERTO NISTRI

       Sergio Bisciglia, docente di sociologia urbana presso il Politecnico di Bari, ha proposto un intrigante saggio: L’immagine della città nel cinema. Descrivere, comprendere e promuovere il territorio attraverso i film.  La valigia dei sogni e il marketing. Per lungo tempo il cinema ha cercato la città come scenario o come oggetto di rappresentazione. Pare che Fritz Lang abbia immaginato la sua Metropolis a partire dallo scenario notturno delle mille luci di New York e del suo sky line.  Oggi sono le città e i territori a cercare il cinema e le immagini che questo crea,  come fattori di identità culturale e di marketing. La città vuole somigliare alla rappresentazione filmica,  tende a diventare immagine di se stessa.
     La questione non è quella del “fammi bello”, ma la carica di fascinazione immateriale  che conferisce ad un locus una forza di icona privilegiata (prima che brand pubblicitario). L’armamentario artistico assegna potenza fantasmatica a spazi immateriali e teatri della memoria, capaci di produrre mitologia e inventare (dal latino invenire, cioè  trovare) una città imperitura. Pensiamo alla Bologna di Pupi Avati o la Manhattan di Woody Allen.  Un europeo che si reca a New York  l’ha già vista al cinema. Così un americano vede nel Tevere una scena della Dolce  vita. Il nostro immaginario urbano cerca “riconoscimento”, ma anche “straniamento”. L’arte cinematografica  può farti riconoscere ciò che non hai mai visto, ma anche vedere l’usuale come se fosse la prima volta.
      Non è questione di pubblicità e neanche   di “belle immagini”. Il cinema americano degli anni ’70 e ’80 esprimeva addirittura un violento ethos antiurbano, raccontando la città come luogo inquietante, ma pure costellazione di segni capaci di erotizzare e trasformare in icona anche   Un uomo da marciapiede. Pure il Bronx , con i suoi spazi depauperati e minacciosi può proporsi come nuova identità urbana. Perfino il non- luogo dell’antropologo Marc Augè può produrre immaginario. Nell’andirivieni tra immagini e città l’effetto emozionale può derivare anche da uno spazio degradato ma inedito, mentre un locus bello ma non rielaborato, puà essere trascurato in quanto troppo già visto.
      Il corteggiamento dell’universo filmico,  da parte della politica e del mercato, non è cosa degli ultimi giorni. Soprattutto a  partire dagli anni ’90,  nella fase della globalizzazione matura, con il traballare delle certezze e l’emergenza delle piccole patrie, è diventata sempre più pervasiva la retorica o ideologia  delle “radici” ,  del “territorio”, della “identità”. Vaghezze per nullatenenti: localismi regressivi, autocelebrazioni puerili di nazionalismo sudista o di nordismo razzista , un baloccarsi con “culture” e “tradizioni” che si rivelano innocue patacche o malintenzionate strategie di potere, rapidamente consumabili dal mercato.  Creativi e pubblicitari sono  sempre alla caccia di brand , attrattive  location   e marcatori identitari,  spendibili in chiave turistica o variamente promozionale. Ma le esigenze di una committenza non sempre, fortunatamente, devono ridursi alla volgare pretesa del “fammi bello”.
       Nel Sud e particolarmente nel Salento, nel 1996 ha funzionato in maniera egregia l’innamoramento fra pensiero meridiano (Franco Cassano) e filmografia pizzicata (Edoardo Winspeare). Il circolo scrittura-immagine è prezioso: per emozionarci di fronte ai luoghi,  spesso dobbiamo passare attraverso le emozioni altrui. Purtroppo nella malconcia Taranto odierna, giovani figli di nessuna storia,  ispirandosi al film 300 , si trastullano in rete  alla ricerca di identità fasulle, del tipo “Sangue Spartano, orgoglio tarantino. Nelle nostre vene scorre sangue spartano, non dimentichiamolo mai”. Blunt und boden. Il sangue e la terra. Ci mancava il razzismo spartano. Tarantohttps. it face book.
      Taranto, la città doppia, ha dissolto passo dopo passo  le tante, troppe identità di cui si era fatta carico: la antiquissima urbs  dolcevitaiola coniata da Orazio, la piazzaforte sempre in guerra, la città antifascista, la capitale della siderurgia europea, con i suoi giardini delle ostriche e l’oro nero delle cozze. La città che ha imparato a non preoccuparsi e ad amare la Bomba, come il dottor Stranamore di Kubrick. Il vecchio uccello del paradiso ha perso progressivamente tutte le sue piume.

                                                                    ***

       La storia cinematografica di Taranto non sembra esaltante: dalla marineria bellica alla guerra dell’acciaio, solo di recente è stata gratificata da alcuni film  di grande prestigio. Certo è che una città finisce sempre per somigliare alle immagini che la riproducono.

Minimum film.

La nave bianca. 1941. Roberto Rossellini.
Fantasmi del mare. 1948. Francesco De Robertis.
I pirati di Capri. 1949. Edgar G. Ulmer.
Il prezzo della gloria. 1956. Antonio Musu. Comparsata di Mike Bongiorno.

      Una situazione propizia si registrava fra il ’57 e il ‘58 , nei giorni felici prima dell’Italsider. La città godeva di ottima immagine su scala nazionale e poteva vantare  una storia culturale di tutto rispetto, come documentano gli Archivi Luce. A partire dall’epopea del “Premio Taranto”, la città bimare era stata onorata dalla presenza di Ungaretti, Gadda, Savinio , Brignetti, Casorati, Falqui, Palazzeschi, Cassinari… E poi, a ridosso degli anni ’60,  Eco, Sanguineti, Bacchelli, Zevi…   Al “Premio del mare” aveva esordito con un racconto inedito  il giovane Pasolini,  che doveva immortalare quella “magica Taranto, che brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi… città perfetta. Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta”.        Si erano create miracolose sinergie per difendere la “piccola bellezza”, purtroppo sabotate da una classe dirigente imbelle e ignorante.
      Nel 1957 così scriveva Guido Piovene: “Taranto è uno dei posti più vivaci dell’Italia del Sud, e non saprei trovarne di paragonabili; sembra illustrare una novella orientale, di quelle dove i pesci parlano e sputano anelli preziosi… Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e di molluschi, è uno dei migliori ricordi italiani; e così nell’insieme, il ricordo di Taranto, città di mare tersa e lieve, tanto che passeggiandovi sembra di respirare a tempo di musica”. L’anello d’oro di Taranto, “una città per cantare”, doveva rifulgere nella feconda stagione dei “musicarelli” . Non si poteva competere con  Una nave tutta rosa di Blake Edwards,  ma nello stesso 1958  Taranto  poteva vantare il suo cult : il neorealismo rosa di Promesse di marinaio.

  Promesse di marinaio. Turi Vasile. 1958. Preziosissimo documento antropologico all’alba del nascente gigantismo industriale. Una città attraente ai confini della realtà: la protagonista era addirittura giunta da Milano a Taranto per trovare lavoro. Vedi anche Marinai in coperta. 1967. Bruno Corbucci. Cantava Little Tony e la macchina del desiderio era all’opera . Indimenticabile
la grande onda jazzistica fra due mari, con il gruppo di Silvano Martina che suonava con Fred Buscaglione. Situazioni felici, nelle quali i riconoscimenti identitari sorgevano spontanei, senza forzature di marketing.

      Purtroppo  nell’età dell’acciaio non ci si discostava molto dal trash movie:
Infermiera di notte. 1979. Mariano Laurenti.   Con scorcio di Lungomare e Park Hotel.
White pop Jesus, 1979. Luigi Petrini. Interpretato da un inquietante Awana Gana, al secolo Antonio Costantini: dj e show man di lungo corso, al quale lo scrittore Giuliano Pavone ha dedicato una commossa rievocazione, in memoria di quella sgangherata Woodstock fra due mari che lo aveva  eccitato nell’età adolescenziale, quando non erano ancora spenti gli ultimi fuochi della “contestazione” .
       Mentre nella provincia di Matera Francesco Rosi girava il suo Cristo si è fermato ad Eboli, anche Taranto poteva vantare il suo Jesus di celluloide, con tuniche bianche e miracoletti nella Villa Peripato.  Sulla carta il progettino non era infame, con la presenza di attori come Stella Carnacina e Luigi Magni dei Gufi, musiche di Vince Tempera e coreografie di Don Lurio. Schivata una minaccia di censura, il film veniva presentato in pompa magna al Sistina di Roma, ma spariva subito dalla circolazione per insolvenza del produttore. Per i fans è visibile solo su You tube a puntate: una miscela lisergica a bassa gradazione, impossibile da raccontare ma appetibile per i tarantini, sempre con un piede nella fossa e un piede nella farsa. Rimane memorabile il coinvolgimento di tutta la cittadinanza in una immensa processione tipo Corpus Domini che attraversava   le vie cittadine,  per salpare verso un altro cielo e un’altra terra.  Power flowers in Villa Peripato.

Meglio

 Il ragazzo di Ebalus. 1984. Giuseppe Schito. Un film poco fortunato ma interessante: un terrorista in crisi che fugge da Milano cercando l’aiuto dei compagni dell’Italsider di Taranto, finendo braccato sia dai poliziotti che dai brigatisti. Viene aiutato solo da un virgiliano agricoltore (Cucciolla) che anticipa il magismo rurale di Winspeare: il ritorno alla terra come antidoto alla violenza.
Io speriamo che me la cavo. 1992, Lina Wertmuller con una Taranto mascherata da Napoli.
( anche i tarantini mettevano in circolazione falsi smaccati,   come una casetta di Pinocchio nel film di Comencini, del tutto inesistente a Taranto).
Cozze. 1996. Giuseppe Giusto. Jazz on the road Taranto.
Figli di Annibale. 1998. Davide Ferrario. On the road sud.
Le acrobate. 1997. Silvio  Soldini. Una città assorta, sospesa fuori dal tempo, tra i silenzi archeologici e gli sbuffi delle ciminiere. Infelice battuta del tassista che consiglia alla passeggera di nascondere i soldi.
 The Two famillies. 2006. Romano Scavolini . Location mafioseria e Settimana Santa.

I classici.

       Il miracolo. 2003. Edoardo Winspeare.  Il vero film di Taranto rimane fino ad ora quello girato dal barone di Depressa:   dimensione mistica e levantina. Stanchezza morale e attenzione al sensazionale. Capacità di riconoscere attraverso gli occhi di un bimbo la dolcezza e la bellezza, in una città fra due mari, ferita e straziata dall’Ilva. Edoardo stava vivendo la stagione del reincanto: una produzione filmica e musicale portatrice di una sorta di magismo “solare”. Nelle sequenze de Il miracolo,  è sottesa una vera e propria “metafisica della luce”: nella Taranto postindustriale, un mondo immoto, immerso in una notte di caligine, d’un tratto si ha la visione di un luccicore, un chiarore che viene dal cielo o forse dal fondo del mare, uno scintillare che è all’orizzonte o in un angolo dentro di noi. In tenebris lumen… Questa luce che risplende nell’ombra è il vero oggetto del desiderio di Edoardo, cacciatore di quei momenti aurei che possono spezzare il continuum storico, (il bronzeo tempo servile della ripetizione e dell’automatismo) e innescare la mossa del ricominciamento. 
      La scommessa è quella di far affluire “sangue vivo” al pensiero dell’avventura (ad ventura) con  un immaginoso e rischioso  movimento verso il non ancora.Winspeare è realmente entrato in sintonia con Taranto, forse troppo. Il disagio di fronte al cuore di tenebra deve essere  criticamente trasformato, altrimenti il miracolo svapora nella genuflessione davanti agli imbonitori televisivi e ai taumaturghi di paese. Troppe volte il giocattolo si è sbriciolato nelle mani dei tarantini, sempre in gara nella miracolosa caccia del “gratta e perdi”.  La vera posta in gioco è sempre una lotta intorno al potere, in cui nuovi soggetti possano prendere la parola, agire e trasformare la realtà.

      Mar Piccolo. 2009. Alessandro  di Robilant, con Michele Riondino.
Rispetto al visionarismo di Winspeare, tutto immerso nel cuore della Città vecchia, con i suoi culti e antichi rituali, il film del regista svizzero, talvolta pedagogico e asciutto nella sua composizione filmica, è più vicino alla lezione di Ernesto De Martino, nel rappresentare le sterminate periferie dove abita quell’80% per cento della popolazione che non ha storie da raccontare.  I due film si interfacciano casualmente nel racconto delle due città. Non parliamo della ovvia dualità fra la vecchia e la nuova Taranto. Si tratta di due pulsioni, in senso freudiano, che si combattevano già nella città ebalica sul finire dei 1300 anni di comunione e reclusione nella grande fortezza.
       Come ha sostenuto Emile Benveniste, mentre la polis greca promuoveva una dimora stabile, radicata in un territorio delimitato da confini certi (il centro era simboleggiato da una croce dentro un cerchio) la civitas romana era caratterizzata da un perpetuo sconfinamento ,  un furor urbis: una unità bifronte sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Non è questione di piani regolatori, si tratta di riconoscere un cuore della città e questo è il lavoro proprio del cinema: ricucire la ferita. Forse Di Robilant  aveva intuito quello che oggi propone Renzo Piano, con il suo “Periferia Pride”. Solo riscattando con una paziente opera di rammendo sociale il non luogo della coazione, della banlieu, è possibile aprire uno spiraglio per liberare nuova narrazione e nuova storia.

Underground.

     FireWorks. 2011. Giacomo Abbruzzese. Un gruppo internazionale di ecologisti pianifica di fare esplodere, durante la notte di Capodanno il complesso industriale dell’Ilva. Un nihilismo attivo che immagina l’esplosione dello skyline siderurgico, come la ekpurosis  finale di  Antonioni in Zabriskie Point , purtroppo senza le note dei Pink Floid.  Massimo Causo ha scritto di un “riscatto dell’immaginario,  in una città da sempre costretta a fare i conti… con una topografia fatta di perimetri invalicabili, arsenali, basi militari, muraglioni, ciminiere, nastri trasportatori, silos”.
Il grande coperchio immaginato da Stephen King in in Under the dome..
Sarò il tuo giudice. 2007. Gianluigi Calderone. Fiction Rai. Tipica location poliziottesca.
La terza persona. 2013. Paul Haggis. Indignazione del regista per le sofferenze tarantine.

 Fuori orario. Cinema corsaro.

       Carmela, salvata dai filibustieri. Giovanni Maderna, Mauro Santini, due dei maggiori registi del cinema marginale italiano.Film presentato al festival di Venezia nel 2012.
In una atmosfera salgariana, due tigrotti della Malesia, pescatori della Taranto vecchia dai volti impastati di acqua e sale, percorrono l’Isola nella parte alta e nei sotterranei, inseguendo una fantasmatica Carmela, la  scomparsa Jolanda di Ventimiglia, rammentando vecchi timori di prigionie e destini avversi. Le sagome dei terramaricoli magnogreci sembrano emergere da un buco nero,   i loro volti sono quelli degli immortali. Il vascelletto che s’intravede nel baluginar della marina è una ebalica Stairway to heaven. Un film “felicemente” tarantino e capace di attingere all’universalità: una autentica perla in una cozza nera.

Una città finisce sempre per somigliare alle immagini che la riproducono. 

sabato 9 agosto 2014

Taranto spartana è solo una trovata tra burla e retorica

Taranto spartana è solo una trovata tra burla e retorica

Prof. Roberto Nistri

in La Gazzetta del Mezzogiorno del 05.08.2014, p. IV

"Per lungo tempo il cinema ha cercato la città come scenario o come oggetto di rappresentazione. Oggi sono le città e i territori a cercare il cinema e le immagini che questo crea, come fattori di identità culturale e di marketing. Il corteggiamento dell’universo filmico da parte della politica e del mercato cresce con il traballare delle certezze e il diffondersi della retorica delle “radici” e delle “identità”. Vaghezze per nullatenenti: autocelebrazioni puerili di “culture” e “tradizioni” che spesso si rivelano solo come innocue patacche.
Nella recente “festa degli architetti” si è discusso su una serie di film girati a Taranto negli ultimi 50 anni che hanno occupato una collocazione di tutto rispetto nella filmografia nazionale, da Promesse di marinaio a Il miracolo. Non c’imbattiamo nel film-monumento come la Manhattan di Woody Allen o con la piena identificazione di un regista con la sua città , come la Bologna di Pupi Avati. Creativi e pubblicitari fanno il loro mestiere, dando la caccia a brand e attrattive location come marcatori identitari spendibili in chiave turistica o variamente promozionale.
Implorare il “fammi bello” è solo pubblicità a scartamento ridotto. Altro è la felice simbiosi fra il regista Ozpetek e la città di Lecce: una creatività espressiva volta , come deve essere, alla universalità artistica.
Purtroppo, nella malconcia Taranto odierna, giovani figli di nessuna storia, si trastullano in rete alla ricerca di identità fasulle, del tipo “Sangue Spartano, orgoglio tarantino. Nelle nostre vene scorre sangue spartano, non dimentichiamolo mai”. Tarantohttps.it/ face book. L’ispirazione viene dal film 300 di Snyder , più probabilmente la parodia di Friedberg Treciento: Chi l’ha duro la vince. Ci mancava solo il razzismo spartano: Blunt und boden, la terra e il sangue. Si profila all’orizzonte una cataldiana nouvelle vague di pacchianate e tricche ballacche.
Artisti uniti per Taranto, con tanto di marchio registrato presso la Camera di commercio, stanno caricando le polveri per “ l’inizio di un percorso identitario che apre orizzonti ambiziosi”, appiccicando il logo della LAMBDA sulla ringhiera del lungomare e sui civici portoni. Annunciazione ! Annunciazione! ; 1) Statua di Falanto da innalzare al centro di Piazza Garibaldi; 2) Trasposizione di Taras in piazza Fontana con le colonne doriche di Vincere De Paola; 3) Palio di Taranto con galee spartane e vogatori in costume d’epoca; 4) Costruzione di una nave spartana che effettui il giro turistico; 5) Scudo del raggio di 50 metri sul ponte Punta Penna con colori mutevoli.
Il leader immagina il “ parco tematico Spartanland con stadio a forma di galea e una mille miglia di Regata Taranto-Sparta”...
Come si evince, si tratta dell’ ultima bevuta lisergica dell’eterno demone della Taranto che si rinnova autodistruggendosi, come diceva la buonanima di Antonio Rizzo, che per tutta la vita ha dovuto combattere la mala pianta dei neuroartisti tarantini. Il culto jonico per le burle di cartapesta potremmo farlo risalire alla Stele del Millennio 967-1967: un capitello romano, tanto millennio più millennio meno fa lo stesso. Non v’è a Taranto un solo monumento riconosciuto come opera d’arte, che possa suscitare una qualche emozione, una traccia forte nella memoria del fruitore. Bufale a go-gò: apparizioni di muscolosi Nettuni su anonimi pannelli, scenari pupazzettati con le immancabili colonne, incatenate e incombenti nelle stesse aule municipali. Che ci sia risparmiata almeno l’ultima onta: il naufragio nel ridicolo e l’omerica risata degli Italiani normali: se sono questi i Tarantini…
Si potrebbe invocare l’intervento dei carabinieri, ma purtroppo il centro storico ne ha avuto in dotazione uno solo, naturalmente anche lui finto e venuto a costare, sembra, 40.000 euro. Un simulacrum di carabiniere sul cui cappello , immortalato da Vittorio De Sica, riposeranno colombi e gabbiani. L’eidolon sarà rapidamente impreziosito dai graffiti di qualche apocrifo Spartano di passaggio.

Roberto Nistri

venerdì 8 agosto 2014

Casa Marx


Casa Marx

Roberto Nistri

Compagnia “Gli angeli distratti”
27 luglio 2014. Libreria Ubik Taranto

Jenny e Karl
Interpretati da Monica Corallo e Angelo Cardellicchio

      Marx è tornato a Taranto ancora una volta. Esibisce, come si dice, certificato di esistenza in vita, e riprende a raccontare la sua storia. Una storia infinita che , come il vento, fa il suo giro: dalle ciminiere della Manchester ottocentesca ai fumaioli dell’Ilva, dove il pane si scambia con la morte.
Viene raccontata la grande storia di un manipolo di visionari come Marx, Engels, Bakunin, Louise Michel e quanti, durante la Comune di Parigi, con Rimbaud salutarono il rosso sole carico d’amore, cantando l’inno dei “senza confini”: l’ Internazionale di Eugene Pottier.
      Questa volta la storia viene raccontata in coppia: la bella narrazione romantica, come si diceva una volta, di amore e di morte. Gli amori comunisti di Karl Marx e Jenny von Westphalen ( vedi l’epistolario Jenny ti amo, ed.Shake) sono un capitolo tutt’altro che secondario della biografia del genio. Considerata la fanciulla più bella di Treviri, la reginetta del ballo, la figlia del barone prussiano destinato a ricoprire la cariche ministeriali, doveva condividere con l’ebreo Karl una serie di incredibili vicissitudini.  Per ironia della sorte, si deve proprio ad una spia prussiana una delle descrizioni più vivide della vita dei coniugi, divisa fra passioni politiche e squallore della vita quotidiana. La loro fu una storia straordinaria, segnata dalla miseria, dalla morte di tre figli, dal continuo via vai presso il Monte dei Pegni. Eppure la spia prussiana raccontava di una bella famiglia: “La moglie è una donna colta e simpatica, che per amore del marito si è adattata a una vita da bohème. Come marito e come padre di famiglia Marx è l’uomo più tenero e più dolce, ad onta del suo carattere scontroso”.
       Un trentennio di critica femminista ha abbondantemente rosicchiato una immagine troppo edulcorata di quel MarxCapital che Joice Lussu avrebbe definito “padrepadronepadreterno”. Nella rappresentazione teatrale, accantonando certi dissapori sentimentali, Karl-Angelo e Jenny-Monica hanno duettato meravigliosamente:  una gran coppia. Pur conoscendo i tormenti dell’ombra, non hanno mai perso il filo di luce della Utopia: “in tenebris lumen”. I due bravi attori si sono ben calati nei personaggi, tenendo ferma una sobria commozione. Nella finale discussione col pubblico, il maestro Cardellicchio ha detto la sua  su quelle figure di tanto tempo fa (da lui certamente amate) che molto avranno errato, misurandosi tuttavia con la grandezza di una storia che continua a non finire.

domenica 3 agosto 2014

Biblioteca meridionale: Antonio Libutti


Biblioteca meridionale

Recensioni e presentazioni a cura di Roberto Nistri



ANTONIO LIBUTTI, Un caso d’incesto nella provincia fascista, Calice Ed., 1993.
(Eros in famiglia, “Quotidiano”, 17 giugno 1993)

      Quello dell’incesto è il tabù più antico e universale.  Il più violato, secondo Freud, quanto meno nell’immaginario. Uno dei più celebri poeti dell’Ottocento, Percy B. Shelley, indicava nell’incesto “una circostanza altamente poetica”. Basti pensare come il tema abbia percorso tutto il cammino della letteratura occidentale, dalla tragedia greca al teatro elisabettiano, da Racine ad Alfieri, dal marchese De Sade a Melville, da Ibsen a Sartre sino a Moravia. Da quello che si può ricavare dalle statistiche giudiziarie, nella presente società androcentrica , la relazione  trasgressiva di gran lunga più frequente risulta essere quella tra padre e figlia, mentre assai meno diffusa è quella fra fratello e sorella (al contrario di quanto parrebbe prevalere nelle società primitive) e ancor più rara quella tra madre e figlio. Il rapporto padre-figlia risulta incombente nella odierna letteratura: si passa da N.P della giovane Banana Yoshimoto a Incest, il libro tratto dai Diari d’amore di Anais Nin e il Gioco di Gerald di Stephen King.
       Vorremmo segnalare il delicato volumetto di Antonio Libutti, Un caso di incesto nella provincia fascista (1993) che racconta la storia di una trasgressione amorosa in una società chiusa,  come poteva essere quella di un paese della Basilicata durante gli anni del fascismo, all’interno di una struttura comunitaria organizzata secondo una patologia maschilista di disvalori e di poteri gerarchici  L’autore, studioso di antropologia, ha indagato con spirito partecipe e mano leggera su una vicenda giudiziaria che ben può valere come metafora di quel torbido e totalitario gioco erotico che fu il fascismo: una sindrome autoritaria sado-masochista che si rifrangeva nel culto di un familismo amorale,  governato da un capo che impone obbedienza assoluta alle figure subalterne, in particolare la donna. 
      La vicenda prende le mosse dall’incontro fra un aspirante psicoterapeuta ed una popolana, Annamaria, in preda a semi-cecità e ad uno stato di tremore,  a seguito del pubblico scandalo e del processo derivato dall’aver messo al mondo una figlia nata da contatto con “carni parenti”. Si ricordi che in Italia il “pubblico scandalo” costituiva l’unica possibilità dell’accendersi dell’intervento punitivo dello Stato; in mancanza di esso, l’incesto si presentava come indifferente per la giurisdizione penale. Così recitava l’art. 564 del Codice: “Chiunque, che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto… Dietro la prudenza del legislatore vigeva l’antico privilegio del  pater familias nel gestire in via esclusiva i rapporti interni ad un nucleo “autonomo e autosufficiente”. In tali condizioni di inferiorizzazione, la donna cercava di maturare una elaborazione difensiva, cercando di non cancellare la propria soggettività desiderante. La cecità permette la furba iperprotettività del “non voler sapere”, del chiudere gli occhi di fronte alla propria storia. Chi ha perso gli occhi vede con il cuore o forse gli occhi si chiudono per mentire al cuore: in questo caso si socchiudono, la cecità è intermittente, selettiva, con un abile controllo del rubinetto delle informazioni, non vedendo ciò che vedono gli altri. Una semiparalisi che impedisce l’evolversi verso una femminilità matura.
       L’analista si deve confrontare con una paziente dipendente e tremolante. Tipica incertezza della presenza. Annamaria si è innamorata del padre leggendolo nella figura di don Rodrigo. Il gaglioffo è sempre il motore della favola, Cappuccetto Rosso ama il lupo, dietro il Principe Azzurro si staglia sempre l’ombra dell’orco. Il rissoso padre, che torna ferito per una lite, viene da lei curato amorevolmente: Annamaria vuole cicatrizzare la ferita dell’incesto, ponendo le labbra sopra i rosei lembi della lacerazione. Tende a diventare essa stessa Grande Madre nei confronti del genitore, un omuncolo rozzo e triste che viene investito da una potente carica di plusvalore affettivo. Lo trasfigura come Grande Padre, utilizzando la stessa sublimazione libidinale che in quegli anni rigonfiava la libido italica di un piccolo Duce. La madre gestisce il suo ruolo di “testimone muto”, mantenendo la figlia in uno stato di sottomissione , pur di evitare lo scandalo di “congiungimenti carnali consensuali”. Nel triangolo moglie obbediente, madre accuditiva, amante passiva, il gioco delle maschere evidenzia per Lacan la   pèr(e)versione con al centro la figura del padre.
      Scoppia lo scandalo , il genitore viene processato ma la figlia lo scagiona con una menzogna e le figure della tragedia seguiranno il loro destino. Annamaria verrà accolta in un ospizio per accudire “vecchi padri”. Periodicamente rievocherà la  passio di una femminilità mai diventata adulta, con la complicità di un parto notturno perfettamente mimato: eterna figlia, protetta dalla direttrice dell’ospizio, una nuova madre comprensiva, che addirittura chiama una levatrice per assisterla come se si trattasse di un autentico “partorire nel dolore”. La storia minor si conclude nel settembre del ’43, nel tragico scenario della storia maior, fra gli eccidi operati dai tedeschi in fuga e il liberatorio ingresso delle truppe canadesi a Rionero in Vulture. L’incestuoso padre fascista s’impicca, la moglie assiste silenziosa e inebetita. Annamaria si allontana verso l’ospizio con passo incerto, come l’Edipo claudicante che avanza nello squilibrio.