La dolce critica. Enrico Maria Vernaglione.
Roberto Nistri presenta a Taranto il 21 agosto 2014 il saggio critico La galassia di Jep Gambardella. Un Big Bang chiamato Federico Fellini, edit@ Taranto, 2014.
Nella lunghissima stagione della malasorte
tarantina, fra i vari effetti collaterali,
si registra una sorta di riscatto culturale con una copiosa e inedita
produzione letteraria, a carattere soprattuto storico-sociale e narrativo, ma
anche teatrale e cinematografica. Come si dice, il nero d’inchiostro stuzzica
il verbo. Naturalmente s’impone una seria vigilanza nei riguardi dei sempre
attivi venditori di fumo, considerando anche quello delle ciminiere. La città
martoriata deve almeno arginare l’arrembante “grande bruttezza” e curare il più
possibile la “piccola bellezza”. Una accattivante proposta, al riguardo, ci giunge da un giovanissimo cinefilo che ha,
con grande scrupolo filologico e autentica passione, pubblicato un saggio di
critica cinematografica, su un film ancora molto discusso come La
grande bellezza di Paolo Sorrentino. L’autore, Enrico Maria Vernaglione
(Taranto 1991) si è laureato al Dams di Roma e ha avuto anche modo di recitare
in opere come La vedova allegra, Al cavallino bianco e La Serva
padrona. Come regista ha girato il cortometraggio Carnival. La sua tesi di laurea è divenuta un libro di pregevole
fattura: La galassia di Jep Gambardella.
Un bing bang chiamato Federico
Fellini (Taranto 2014).
La “prima”
cittadina ha voluto anche essere un
affettuoso viatico per la bella avventura già iniziata dal nostro bravo
concittadino, che ha mostrato di avere l’occhio rivolto alle cose future: ad ventura. Durante la presentazione tarantina l’autore ha dialogato con il
pubblico, mostrando notevole
professionalità e muovendosi agevolmente nella apparecchiatura pittorico- musicale
del film di Sorrentino.
Il Premio Oscar,
nel suo incipit ha elaborato nell’immaginario la potenza delle grandi
pietre che, come diceva Caillois, sono
le sole a conferire un senso di eternità, pur annientando un turista in un
unico e vorticoso piano sequenza. Dal
silenzio delle pietre all’urlo del
giapponese e al cannone del Gianicolo,
si passa senza soluzione di continuità nel gran carnevale della festa, dominata
dal signore della maschera, l’icona maxima di Toni Servillo, che regge tutto il
carnascialesco ambaradan dei “vuoti a perdere”.
Jep, il re della
festa, ha l’unico scopo di guidare tutti i parvenu, politici, malavitosi,
prelati, verso un naufragio nello stile del Titanic o meglio della Concordia. Come dice Vernaglione, Jep “esce dalla fila dei corpi e si porta al
centro della scena…proprio per manifestare la sua diversità”. Siamo nel pieno
del grottesco (ricordiamo la lezione di Marco Ferreri) con una forte vocazione
espressionistica e, aggiungiamo noi, depressionistica. Il film vive di rapidi
contrasti, dai trenini e le cubiste si
passa al barocco notturno. Il critico si muove con mano felice nel continuo
andirivieni fra l’opera di Sorrentino e il capolavoro di Fellini. Il confronto
a distanza fra Marcello e Jep è
intrigante: ambedue hanno perso la Bellezza
e possono solo sopravvivere tra festini ed alcol, parlando del niente.
Ma Fra i
due non è difficile cogliere uno
scarto. Marcello era un nihilista
passivo che si lasciava cullare, mentre Jep ha una missione. Da bravo nihilista
attivo ha uno scopo: provocare il fallimento della Festa. Conseguentemente la
discussione del testo suscita alcuni confronti obbligatori: il “gran bugiardo”
Fellini aveva ammesso a mezzo bocca quello che era chiaro per tutti; fra lui e
suoi personaggi c’era una forte complicità, completamente assente nel rapporto
fra Sorrentino e i suoi figuranti.
Giustamente Vernaglione ha
considerato la solitudine come la cifra stilistica di tutte le opere di
Sorrentino. Il critico dedica belle pagine alla costellazione felliniana dei freaks, rappresentati nel film dalla direttrice nanetta Dadina, la più
normale tra gli inadeguati.
Il cinefilo Vernaglione non si lascia scappare
il grande esempio di Freaks di
Browning, con i suoi “cari mostri”. L’autore e il suo critico inseguono tutte
le metamorfosi del trash e della
vulgata gossipara, al fine lasciando i personaggi soli di fronte alla bellezza muta.
Opportunamente,
nella seconda parte del suo lavoro, l’autore
avvia un rewind che ci porta
quasi a rivedere La dolce vita alla luce de La grande bellezza .
Diciamolo subito, se è un gran bel film quello di Sorrentino, a nostro
avviso la potenza mitopoietica non regge
il confronto, anche se correttamente Vernaglione ha puntualizzato i
diversissimi contesti storici delle due produzioni.
Il 3 febbraio del 1960 usciva nelle sale il
capolavoro di Fellini. In fondo non si era molto lontani dal neorealismo che Stefania Parigi ha definito il “gigante
addormentato”, soprattutto quello fiabesco: nel film si entrava nello stesso
locale notturno in cui precedentemente Amedeo Nazzari aveva condotto una
piccola prostituta. Non molti anni prima Fellini ne Il miracolo aveva ingravidato la pastora Anna Magnani fingendosi un
arcangelo. Quando dissero a Celentano che avrebbe ballato con Anita, esplose in un ultrarealistico
“Urka”! Al di là delle invettive
chiesastiche contro l’Orgia da Circo, la Turpe
Babilonia, Sodoma e Gomorra e via salmodiando, i personaggi felliniani
erano del tutto normali se non banali, al limite del sublime, come ebbe a
scrivere il critico Labranca. Il vero tema forte che ci accompagna fino ai
giorni nostri, è quello della volontà di stordimento per non sapere, come si
evince dal testo di Vernaglione.
Flaiano e Fellini non intendevano affatto
smarrire il filo della saggezza,
pur “con l’estremo lusso del
rimorso” (Soldati). Fra albe tristi e
notti misteriose si raccontava una fiaba
nera per grandi. Per noi rimane comunque la forza di un mito che è stato
variamente raccontato e continuerà ancora ad essere ri-raccontato.
Era l’anno
delle Olimpiadi. Nella città dei due mari veniva posta la prima pietra
dell’Italsider. I ragazzetti di quei
giorni non potevano sapere di essere gli ultimi privilegiati ancora in grado di vedere il cielo di Taranto non trafitto dalle
ciminiere. Non potevano vedere il film La dolce vita perché vietato ai minori
di 16 anni e bollato come “escluso” nelle locandine cinematografiche appese
nelle parrocchie. Anche gli adulti lo andavano a vedere quasi di nascosto, ma
poi quelli più grandi non la finivano più di raccontare e quel film , che
ancora non avevamo visto, ci aveva già
cambiato la vita. Il cinema era grande e tutto era dolcevita, il maglioncino,
la sigaretta, la notte sulla spiaggia, il primo Night che si apriva a Taranto, The
red sky, una qualunque rotonda sul mare.
Non crediamo che
ad un sedicenne, anche romano, il film
di Sorrentino abbia cambiato la vita. Quella leggenda felliniana era attraversata da una sottile ambiguità che
costitituiva la vera profondità dell’opera. Come ha confermato Vernaglione, rimaneva una
dolceamara complicità che ci avrebbe fatto amare anche lo splendido e tragico
farabutto Gassman , qualche anno dopo, ne Il sorpasso. Solo un mito ti può cambiare la vita, almeno a
16 anni.
Iniziava la febbre della partenza , la
insofferenza per la piccola patria. Solo
in seguito avremmo compreso che La dolce
vita era un capolavoro prodotto da due grandi provinciali di genio: Fellini e Flaiano, ambedue sempre accompagnati
dalla nostalgia, dall’impossibile nostos
del ritorno, che doveva anche infettare il buon Jep Gambardella, il
dolcevitaiolo.
Roberto Nistri presenta a Taranto il 21 agosto 2014 il
saggio critico La galassia di Jep
Gambardella. Un Big Bang chiamato
Federico Fellini, edit@ Taranto, 2014.