lunedì 25 agosto 2014

La dolce critica. Enrico Maria Vernaglione


La dolce critica. Enrico Maria Vernaglione.


Roberto Nistri presenta a Taranto il 21 agosto 2014 il saggio critico La galassia di Jep Gambardella. Un Big Bang chiamato Federico Fellini, edit@ Taranto, 2014.

       Nella lunghissima stagione della malasorte tarantina, fra i vari effetti collaterali,  si registra una sorta di riscatto culturale con una copiosa e inedita produzione letteraria, a carattere soprattuto storico-sociale e narrativo, ma anche teatrale e cinematografica. Come si dice, il nero d’inchiostro stuzzica il verbo. Naturalmente s’impone una seria vigilanza nei riguardi dei sempre attivi venditori di fumo, considerando anche quello delle ciminiere. La città martoriata deve almeno arginare l’arrembante “grande bruttezza” e curare il più possibile la “piccola bellezza”. Una accattivante proposta, al riguardo,  ci giunge da un giovanissimo cinefilo che ha, con grande scrupolo filologico e autentica passione, pubblicato un saggio di critica cinematografica, su un film ancora molto discusso come  La grande bellezza di Paolo Sorrentino. L’autore, Enrico Maria Vernaglione (Taranto 1991) si è laureato al Dams di Roma e ha avuto anche modo di recitare in opere come La vedova allegra,  Al cavallino bianco e  La Serva padrona. Come regista ha girato il cortometraggio Carnival. La sua tesi di laurea è divenuta un libro di pregevole fattura: La galassia di Jep Gambardella. Un bing bang chiamato Federico Fellini (Taranto 2014).
      La “prima” cittadina  ha voluto anche essere un affettuoso viatico per la bella avventura già iniziata dal nostro bravo concittadino, che ha mostrato di avere l’occhio rivolto alle cose future: ad ventura. Durante la presentazione  tarantina l’autore ha dialogato con il pubblico,  mostrando notevole professionalità e muovendosi agevolmente nella apparecchiatura pittorico- musicale del film di Sorrentino.
      Il Premio Oscar,  nel suo incipit ha elaborato nell’immaginario la potenza delle grandi pietre che, come  diceva Caillois, sono le sole a conferire un senso di eternità, pur annientando un turista in un unico e vorticoso piano sequenza.  Dal silenzio delle pietre all’urlo  del giapponese e al  cannone del Gianicolo, si passa senza soluzione di continuità nel gran carnevale della festa, dominata dal signore della maschera, l’icona maxima di Toni Servillo, che regge tutto il carnascialesco ambaradan dei “vuoti a perdere”.
      Jep, il re della festa, ha l’unico scopo di guidare tutti i parvenu, politici, malavitosi, prelati, verso un naufragio nello stile del Titanic o meglio della Concordia.  Come dice Vernaglione,  Jep “esce dalla fila dei corpi e si porta al centro della scena…proprio per manifestare la sua diversità”. Siamo nel pieno del grottesco (ricordiamo la lezione di Marco Ferreri) con una forte vocazione espressionistica e, aggiungiamo noi, depressionistica. Il film vive di rapidi contrasti, dai trenini  e le cubiste si passa al barocco notturno. Il critico si muove con mano felice nel continuo andirivieni fra l’opera di Sorrentino e il capolavoro di Fellini. Il confronto a distanza fra Marcello e  Jep è intrigante: ambedue hanno perso la Bellezza  e possono solo sopravvivere   tra festini ed alcol, parlando del niente.
      Ma Fra i due  non è difficile cogliere uno scarto.  Marcello era un nihilista passivo che si lasciava cullare, mentre Jep ha una missione. Da bravo nihilista attivo ha uno scopo: provocare il fallimento della Festa. Conseguentemente la discussione del testo suscita alcuni confronti obbligatori: il “gran bugiardo” Fellini aveva ammesso a mezzo bocca quello che era chiaro per tutti; fra lui e suoi personaggi c’era una forte complicità, completamente assente nel rapporto fra Sorrentino e i suoi figuranti.  Giustamente Vernaglione  ha considerato la solitudine come la cifra stilistica di tutte le opere di Sorrentino. Il critico dedica belle pagine alla costellazione felliniana dei freaks, rappresentati nel film  dalla direttrice nanetta Dadina, la più normale tra gli inadeguati.
       Il cinefilo Vernaglione non si lascia scappare il grande esempio di Freaks di Browning, con i suoi “cari mostri”. L’autore e il suo critico inseguono tutte le metamorfosi del trash e della vulgata gossipara, al fine lasciando i personaggi  soli di fronte alla bellezza muta.
      Opportunamente, nella seconda parte del suo lavoro, l’autore  avvia un rewind che ci porta quasi a rivedere La dolce vita  alla luce de La grande bellezza .  Diciamolo subito, se è un gran bel film quello di Sorrentino, a nostro avviso la potenza mitopoietica  non regge il confronto, anche se correttamente Vernaglione ha puntualizzato i diversissimi contesti storici delle due produzioni.
      Il  3 febbraio del 1960 usciva nelle sale il capolavoro di Fellini. In fondo non si era molto lontani dal neorealismo  che Stefania Parigi ha definito il “gigante addormentato”, soprattutto quello fiabesco: nel film si entrava nello stesso locale notturno in cui precedentemente Amedeo Nazzari aveva condotto una piccola prostituta. Non molti anni prima Fellini ne Il miracolo aveva ingravidato la pastora Anna Magnani fingendosi un arcangelo. Quando dissero a Celentano che avrebbe ballato  con Anita, esplose in un ultrarealistico “Urka”!  Al di là delle invettive chiesastiche contro l’Orgia da Circo, la Turpe  Babilonia, Sodoma e Gomorra e via salmodiando, i personaggi felliniani erano del tutto normali se non banali, al limite del sublime, come ebbe a scrivere il critico Labranca.  Il  vero tema forte che ci accompagna fino ai giorni nostri, è quello della volontà di stordimento per non sapere, come si evince dal testo di Vernaglione.  
       Flaiano e Fellini non intendevano affatto smarrire il filo della saggezza,  pur  “con l’estremo lusso del rimorso” (Soldati).  Fra albe tristi e notti misteriose si raccontava una  fiaba nera per grandi. Per noi rimane comunque la forza di un mito che è stato variamente raccontato e continuerà ancora ad essere ri-raccontato.
       Era l’anno delle Olimpiadi. Nella città dei due mari veniva posta la prima pietra dell’Italsider.  I ragazzetti di quei giorni non potevano sapere di essere gli ultimi privilegiati  ancora in grado di  vedere il cielo di Taranto non trafitto dalle ciminiere.  Non potevano vedere il film La dolce vita perché vietato ai minori di 16 anni e bollato come “escluso” nelle locandine cinematografiche appese nelle parrocchie. Anche gli adulti lo andavano a vedere quasi di nascosto, ma poi quelli più grandi non la finivano più di raccontare e quel film , che ancora non avevamo visto,  ci aveva già cambiato la vita. Il cinema era grande e tutto era dolcevita, il maglioncino, la sigaretta, la notte sulla spiaggia, il primo Night che si apriva a Taranto, The red sky, una qualunque rotonda sul mare.  
      Non crediamo che ad un sedicenne, anche romano,  il film di Sorrentino abbia cambiato la vita. Quella leggenda felliniana  era attraversata da una sottile ambiguità che costitituiva la vera profondità dell’opera.  Come ha confermato Vernaglione, rimaneva una dolceamara complicità che ci avrebbe fatto amare anche lo splendido e tragico farabutto Gassman , qualche anno dopo,  ne    Il sorpasso.  Solo un mito ti può cambiare la vita, almeno a 16 anni.
       Iniziava la febbre della partenza , la insofferenza  per la piccola patria. Solo in seguito avremmo compreso che La dolce vita era un capolavoro prodotto da due grandi provinciali di genio:  Fellini e Flaiano, ambedue sempre accompagnati dalla nostalgia, dall’impossibile nostos del ritorno, che doveva anche infettare il buon Jep Gambardella, il dolcevitaiolo.


Roberto Nistri presenta a Taranto il 21 agosto 2014 il saggio critico La galassia di Jep Gambardella. Un Big Bang chiamato Federico Fellini, edit@ Taranto, 2014.

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