sabato 2 agosto 2014

Biblioteca meridionale: Dacia Maraini

Da sinistra: Nistri, Maraini, Ermacora

Biblioteca meridionale


Recensioni e presentazioni a cura di Roberto Nistri


DACIA MARAINI, Bagheria, Milano 1993.

Trascrizione della presentazione di Roberto Nistri, tenuta a Taranto il 10 giugno 1993.
Testo integrale in “Galaesus”, 1994-1995.


      Per tutti noi Dacia è “presente” sin dai primi anni Sessanta, al tempo in cui cercavamo di venir fuori dall’Italia di Peppone e Don Camillo, mescolando i quattro di Liverpool con l’aria di Parigi, portatrice del virus dell’engagement. Ha scritto Dacia: “io sono di scuola sartriana. Bisogna vivere nel proprio tempo, esserci, anche a costo di sbagliare… Mi sento una cittadina, una che deve partecipare, prendere posizione, combattere le proprie battaglie… Ce la ricordiamo Dacia, che menava vita “scandalosa” nella tribù di Moravia, una ventenne con alle spalle una esperienza di vita molto intensa.
      Figlia di Topazia Alliata, di principesca famiglia siciliana, pittrice e amica di Renato Guttuso e dell’etnologo Fosco Maraini , i genitori si sposarono, inviando come partecipazione alle famiglie un disegno degli sposi nudi sulla spiaggia. Trovandosi durante la guerra in Giappone con la famiglia, l’antifascista Fosco  non volle prestare fedeltà al fascismo e dovette subire i patimenti del campo di concentramento. Conoscendo i codici giapponesi dell’onore, il professore si tagliò un dito per sfida e ottenne una capretta da latte per sfamare le tre figliolette. Dopo tre anni di sofferenze, la famiglia tornava a Bagheria. La piccola Dacia conosceva la violenza della cultura mafiosa, l’orrore della sottomissione femminile e l’iniziazione alla sessualità con un amico del padre. Il ricordo le ha suggerito che “il portatore di pene è anche un portatore di pena”. Con tutto il rispetto, il fatale gioco di parole si potrebbe perdonare solo,  in quanto ci viene risparmiato il “ portatore di pane”. Non eguaglia l’ascendente leopardiano dello Ultimo canto di Saffo, ove la poetessa si precipita nell’infausta invettiva: “Qual fallo mai… macchiò la mia nascita?”.
      Dacia lasciava la famiglia  in rotta con le idee del padre, ma non dimenticava Bagheria, il nome bello di Bab el gherib che in arabo significa “porta del vento”: uno dei più antichi simboli dell’Amore, quel Pneuma che spira come vuole e dove vuole, senza potersi mai fermare. Dacia si fece portare dal vento, iniziò il suo viaggio ma, felice incertezza degli etimi, la parola fenicia Bajaria indica “ritorno”. Il viaggio è un andare che è anche un ritornare, come il flusso dell’acqua che lambisce e non possiede, feconda e fa crescere, ma non si appropria e non dirige.
      Non ci azzardiamo a riassumere lo straordinario viaggio di Dacia nella scrittura, sempre dalla parte delle donne, non dimenticando mai le sofferenze subite dalle antiche compagne di scuola: incatenate al letto, le dicerie, gli sguardi come lame di coltello. Da mettere in conto quattro processi per oscenità e uno per calunnia, per aver denunciato il sistema mafioso vigente a Bagheria. Ha continuato ad essere presente in tutte le situazioni di base, dove continuavano a coniugarsi letteratura ed emancipazione. Era venuta anche a Taranto, presso la cooperativa culturale “Il caffè”, per una serata di poesia con operai e studenti.
      Ritornava sempre la memoria della Sicilia, magari come esplosione nella notte di una “mascoliata finale” di fuochi d’artificio: “ un volo di luci filanti cascanti contro il cielo nero della festa: “lo sputo della vita contro la morte delle cose”. La scrittrice può cantare la piccola patria proprio perché essa non è mai stata per lei una colla. Il libro ha un ritmo musicale come se fosse una canzone: un non-romanzo che si apre come un soffio di ricordi. Sempre presente e assente papà Fosco, come l’imprendibile padre compagno Alberto. La figura del padre si sovrappone a quella di Moravia in un sogno di reinfetazione: “dentro la bocca della balena di Pinocchio, dove avremmo letto insieme dei libri e bevuto del vino, seduti a un tavolo che traballava sulla lingua rasposa del cetaceo, mentre da fuori ci raggiungevano gli spruzzi marini… Avrei voluto che lui fosse mio figlio per poterlo tener chiuso nel ventre, anziché vederlo sempre ripartire per luoghi lontani e difficili da immaginare”.

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