Da sinistra: Nistri, Maraini, Ermacora |
Biblioteca meridionale
Recensioni e presentazioni a cura di Roberto Nistri
DACIA MARAINI, Bagheria,
Milano 1993.
Trascrizione della presentazione di Roberto Nistri, tenuta a
Taranto il 10 giugno 1993.
Testo integrale in “Galaesus”, 1994-1995.
Per tutti noi
Dacia è “presente” sin dai primi anni Sessanta, al tempo in cui cercavamo di
venir fuori dall’Italia di Peppone e Don Camillo, mescolando i quattro di
Liverpool con l’aria di Parigi, portatrice del virus dell’engagement. Ha scritto Dacia: “io sono di scuola sartriana. Bisogna
vivere nel proprio tempo, esserci, anche a costo di sbagliare… Mi sento una
cittadina, una che deve partecipare, prendere posizione, combattere le proprie
battaglie… Ce la ricordiamo Dacia, che menava vita “scandalosa” nella tribù di
Moravia, una ventenne con alle spalle una esperienza di vita molto intensa.
Figlia di
Topazia Alliata, di principesca famiglia siciliana, pittrice e amica di Renato
Guttuso e dell’etnologo Fosco Maraini , i genitori si sposarono, inviando come
partecipazione alle famiglie un disegno degli sposi nudi sulla spiaggia.
Trovandosi durante la guerra in Giappone con la famiglia, l’antifascista
Fosco non volle prestare fedeltà al fascismo
e dovette subire i patimenti del campo di concentramento. Conoscendo i codici
giapponesi dell’onore, il professore si tagliò un dito per sfida e ottenne una
capretta da latte per sfamare le tre figliolette. Dopo tre anni di sofferenze,
la famiglia tornava a Bagheria. La piccola Dacia conosceva la violenza della
cultura mafiosa, l’orrore della sottomissione femminile e l’iniziazione alla
sessualità con un amico del padre. Il ricordo le ha suggerito che “il portatore
di pene è anche un portatore di pena”. Con tutto il rispetto, il fatale gioco
di parole si potrebbe perdonare solo, in
quanto ci viene risparmiato il “ portatore di pane”. Non eguaglia l’ascendente
leopardiano dello Ultimo canto di Saffo,
ove la poetessa si precipita nell’infausta invettiva: “Qual fallo mai… macchiò
la mia nascita?”.
Dacia lasciava
la famiglia in rotta con le idee del
padre, ma non dimenticava Bagheria, il nome bello di Bab el gherib che in arabo significa “porta del vento”: uno dei più
antichi simboli dell’Amore, quel Pneuma che spira come vuole e dove vuole,
senza potersi mai fermare. Dacia si fece portare dal vento, iniziò il suo
viaggio ma, felice incertezza degli etimi, la parola fenicia Bajaria indica “ritorno”. Il viaggio è
un andare che è anche un ritornare, come il flusso dell’acqua che lambisce e
non possiede, feconda e fa crescere, ma non si appropria e non dirige.
Non ci
azzardiamo a riassumere lo straordinario viaggio di Dacia nella scrittura,
sempre dalla parte delle donne, non dimenticando mai le sofferenze subite dalle
antiche compagne di scuola: incatenate al letto, le dicerie, gli sguardi come
lame di coltello. Da mettere in conto quattro processi per oscenità e uno per
calunnia, per aver denunciato il sistema mafioso vigente a Bagheria. Ha continuato
ad essere presente in tutte le situazioni di base, dove continuavano a
coniugarsi letteratura ed emancipazione. Era venuta anche a Taranto, presso la
cooperativa culturale “Il caffè”, per una serata di poesia con operai e
studenti.
Ritornava sempre
la memoria della Sicilia, magari come esplosione nella notte di una “mascoliata
finale” di fuochi d’artificio: “ un volo di luci filanti cascanti contro il
cielo nero della festa: “lo sputo della vita contro la morte delle cose”. La
scrittrice può cantare la piccola patria proprio perché essa non è mai stata
per lei una colla. Il libro ha un ritmo musicale come se fosse una canzone: un
non-romanzo che si apre come un soffio di ricordi. Sempre presente e assente
papà Fosco, come l’imprendibile padre compagno Alberto. La figura del padre si
sovrappone a quella di Moravia in un sogno di reinfetazione: “dentro la bocca
della balena di Pinocchio, dove avremmo letto insieme dei libri e bevuto del
vino, seduti a un tavolo che traballava sulla lingua rasposa del cetaceo,
mentre da fuori ci raggiungevano gli spruzzi marini… Avrei voluto che lui fosse
mio figlio per poterlo tener chiuso nel ventre, anziché vederlo sempre
ripartire per luoghi lontani e difficili da immaginare”.
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