Biblioteca meridionale
Recensioni e presentazioni a cura di Roberto Nistri
ANTONIO LIBUTTI, Un
caso d’incesto nella provincia fascista, Calice Ed., 1993.
(Eros in famiglia,
“Quotidiano”, 17 giugno 1993)
Quello
dell’incesto è il tabù più antico e universale.
Il più violato, secondo Freud, quanto meno nell’immaginario. Uno dei più
celebri poeti dell’Ottocento, Percy B. Shelley, indicava nell’incesto “una
circostanza altamente poetica”. Basti pensare come il tema abbia percorso tutto
il cammino della letteratura occidentale, dalla tragedia greca al teatro
elisabettiano, da Racine ad Alfieri, dal marchese De Sade a Melville, da Ibsen
a Sartre sino a Moravia. Da quello che si può ricavare dalle statistiche
giudiziarie, nella presente società androcentrica , la relazione trasgressiva di gran lunga più frequente
risulta essere quella tra padre e figlia, mentre assai meno diffusa è quella
fra fratello e sorella (al contrario di quanto parrebbe prevalere nelle società
primitive) e ancor più rara quella tra madre e figlio. Il rapporto padre-figlia
risulta incombente nella odierna letteratura: si passa da N.P della giovane Banana Yoshimoto a Incest, il libro tratto dai Diari
d’amore di Anais Nin e il Gioco di
Gerald di Stephen King.
Vorremmo
segnalare il delicato volumetto di Antonio Libutti, Un caso di incesto nella provincia fascista (1993) che racconta la storia di una trasgressione amorosa
in una società chiusa, come poteva
essere quella di un paese della Basilicata durante gli anni del fascismo,
all’interno di una struttura comunitaria organizzata secondo una patologia maschilista
di disvalori e di poteri gerarchici
L’autore, studioso di antropologia, ha indagato con spirito partecipe e
mano leggera su una vicenda giudiziaria che ben può valere come metafora di
quel torbido e totalitario gioco erotico che fu il fascismo: una sindrome
autoritaria sado-masochista che si rifrangeva nel culto di un familismo amorale, governato da un capo che impone obbedienza
assoluta alle figure subalterne, in particolare la donna.
La vicenda
prende le mosse dall’incontro fra un aspirante psicoterapeuta ed una popolana,
Annamaria, in preda a semi-cecità e ad uno stato di tremore, a seguito del pubblico scandalo e del
processo derivato dall’aver messo al mondo una figlia nata da contatto con
“carni parenti”. Si ricordi che in Italia il “pubblico scandalo” costituiva
l’unica possibilità dell’accendersi dell’intervento punitivo dello Stato; in
mancanza di esso, l’incesto si presentava come indifferente per la
giurisdizione penale. Così recitava l’art. 564 del Codice: “Chiunque, che ne
derivi pubblico scandalo, commette incesto… Dietro la prudenza del legislatore
vigeva l’antico privilegio del pater familias nel gestire in via
esclusiva i rapporti interni ad un nucleo “autonomo e autosufficiente”. In tali
condizioni di inferiorizzazione, la donna cercava di maturare una elaborazione
difensiva, cercando di non cancellare la propria soggettività desiderante. La
cecità permette la furba iperprotettività del “non voler sapere”, del chiudere
gli occhi di fronte alla propria storia. Chi ha perso gli occhi vede con il
cuore o forse gli occhi si chiudono per mentire al cuore: in questo caso si
socchiudono, la cecità è intermittente, selettiva, con un abile controllo del
rubinetto delle informazioni, non vedendo ciò che vedono gli altri. Una
semiparalisi che impedisce l’evolversi verso una femminilità matura.
L’analista si
deve confrontare con una paziente dipendente e tremolante. Tipica incertezza
della presenza. Annamaria si è innamorata del padre leggendolo nella figura di
don Rodrigo. Il gaglioffo è sempre il motore della favola, Cappuccetto Rosso
ama il lupo, dietro il Principe Azzurro si staglia sempre l’ombra dell’orco. Il
rissoso padre, che torna ferito per una lite, viene da lei curato
amorevolmente: Annamaria vuole cicatrizzare la ferita dell’incesto, ponendo le
labbra sopra i rosei lembi della lacerazione. Tende a diventare essa stessa
Grande Madre nei confronti del genitore, un omuncolo rozzo e triste che viene
investito da una potente carica di plusvalore affettivo. Lo trasfigura come
Grande Padre, utilizzando la stessa sublimazione libidinale che in quegli anni
rigonfiava la libido italica di un piccolo Duce. La madre gestisce il suo ruolo
di “testimone muto”, mantenendo la figlia in uno stato di sottomissione , pur
di evitare lo scandalo di “congiungimenti carnali consensuali”. Nel triangolo
moglie obbediente, madre accuditiva, amante passiva, il gioco delle maschere
evidenzia per Lacan la pèr(e)versione con al centro la figura
del padre.
Scoppia lo
scandalo , il genitore viene processato ma la figlia lo scagiona con una
menzogna e le figure della tragedia seguiranno il loro destino. Annamaria verrà
accolta in un ospizio per accudire “vecchi padri”. Periodicamente rievocherà
la passio
di una femminilità mai diventata adulta, con la complicità di un parto notturno
perfettamente mimato: eterna figlia, protetta dalla direttrice dell’ospizio,
una nuova madre comprensiva, che addirittura chiama una levatrice per
assisterla come se si trattasse di un autentico “partorire nel dolore”. La
storia minor si conclude nel settembre
del ’43, nel tragico scenario della storia maior,
fra gli eccidi operati dai tedeschi in fuga e il liberatorio ingresso delle
truppe canadesi a Rionero in Vulture. L’incestuoso padre fascista s’impicca, la
moglie assiste silenziosa e inebetita. Annamaria si allontana verso l’ospizio
con passo incerto, come l’Edipo claudicante che avanza nello squilibrio.
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