domenica 3 agosto 2014

Biblioteca meridionale: Antonio Libutti


Biblioteca meridionale

Recensioni e presentazioni a cura di Roberto Nistri



ANTONIO LIBUTTI, Un caso d’incesto nella provincia fascista, Calice Ed., 1993.
(Eros in famiglia, “Quotidiano”, 17 giugno 1993)

      Quello dell’incesto è il tabù più antico e universale.  Il più violato, secondo Freud, quanto meno nell’immaginario. Uno dei più celebri poeti dell’Ottocento, Percy B. Shelley, indicava nell’incesto “una circostanza altamente poetica”. Basti pensare come il tema abbia percorso tutto il cammino della letteratura occidentale, dalla tragedia greca al teatro elisabettiano, da Racine ad Alfieri, dal marchese De Sade a Melville, da Ibsen a Sartre sino a Moravia. Da quello che si può ricavare dalle statistiche giudiziarie, nella presente società androcentrica , la relazione  trasgressiva di gran lunga più frequente risulta essere quella tra padre e figlia, mentre assai meno diffusa è quella fra fratello e sorella (al contrario di quanto parrebbe prevalere nelle società primitive) e ancor più rara quella tra madre e figlio. Il rapporto padre-figlia risulta incombente nella odierna letteratura: si passa da N.P della giovane Banana Yoshimoto a Incest, il libro tratto dai Diari d’amore di Anais Nin e il Gioco di Gerald di Stephen King.
       Vorremmo segnalare il delicato volumetto di Antonio Libutti, Un caso di incesto nella provincia fascista (1993) che racconta la storia di una trasgressione amorosa in una società chiusa,  come poteva essere quella di un paese della Basilicata durante gli anni del fascismo, all’interno di una struttura comunitaria organizzata secondo una patologia maschilista di disvalori e di poteri gerarchici  L’autore, studioso di antropologia, ha indagato con spirito partecipe e mano leggera su una vicenda giudiziaria che ben può valere come metafora di quel torbido e totalitario gioco erotico che fu il fascismo: una sindrome autoritaria sado-masochista che si rifrangeva nel culto di un familismo amorale,  governato da un capo che impone obbedienza assoluta alle figure subalterne, in particolare la donna. 
      La vicenda prende le mosse dall’incontro fra un aspirante psicoterapeuta ed una popolana, Annamaria, in preda a semi-cecità e ad uno stato di tremore,  a seguito del pubblico scandalo e del processo derivato dall’aver messo al mondo una figlia nata da contatto con “carni parenti”. Si ricordi che in Italia il “pubblico scandalo” costituiva l’unica possibilità dell’accendersi dell’intervento punitivo dello Stato; in mancanza di esso, l’incesto si presentava come indifferente per la giurisdizione penale. Così recitava l’art. 564 del Codice: “Chiunque, che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto… Dietro la prudenza del legislatore vigeva l’antico privilegio del  pater familias nel gestire in via esclusiva i rapporti interni ad un nucleo “autonomo e autosufficiente”. In tali condizioni di inferiorizzazione, la donna cercava di maturare una elaborazione difensiva, cercando di non cancellare la propria soggettività desiderante. La cecità permette la furba iperprotettività del “non voler sapere”, del chiudere gli occhi di fronte alla propria storia. Chi ha perso gli occhi vede con il cuore o forse gli occhi si chiudono per mentire al cuore: in questo caso si socchiudono, la cecità è intermittente, selettiva, con un abile controllo del rubinetto delle informazioni, non vedendo ciò che vedono gli altri. Una semiparalisi che impedisce l’evolversi verso una femminilità matura.
       L’analista si deve confrontare con una paziente dipendente e tremolante. Tipica incertezza della presenza. Annamaria si è innamorata del padre leggendolo nella figura di don Rodrigo. Il gaglioffo è sempre il motore della favola, Cappuccetto Rosso ama il lupo, dietro il Principe Azzurro si staglia sempre l’ombra dell’orco. Il rissoso padre, che torna ferito per una lite, viene da lei curato amorevolmente: Annamaria vuole cicatrizzare la ferita dell’incesto, ponendo le labbra sopra i rosei lembi della lacerazione. Tende a diventare essa stessa Grande Madre nei confronti del genitore, un omuncolo rozzo e triste che viene investito da una potente carica di plusvalore affettivo. Lo trasfigura come Grande Padre, utilizzando la stessa sublimazione libidinale che in quegli anni rigonfiava la libido italica di un piccolo Duce. La madre gestisce il suo ruolo di “testimone muto”, mantenendo la figlia in uno stato di sottomissione , pur di evitare lo scandalo di “congiungimenti carnali consensuali”. Nel triangolo moglie obbediente, madre accuditiva, amante passiva, il gioco delle maschere evidenzia per Lacan la   pèr(e)versione con al centro la figura del padre.
      Scoppia lo scandalo , il genitore viene processato ma la figlia lo scagiona con una menzogna e le figure della tragedia seguiranno il loro destino. Annamaria verrà accolta in un ospizio per accudire “vecchi padri”. Periodicamente rievocherà la  passio di una femminilità mai diventata adulta, con la complicità di un parto notturno perfettamente mimato: eterna figlia, protetta dalla direttrice dell’ospizio, una nuova madre comprensiva, che addirittura chiama una levatrice per assisterla come se si trattasse di un autentico “partorire nel dolore”. La storia minor si conclude nel settembre del ’43, nel tragico scenario della storia maior, fra gli eccidi operati dai tedeschi in fuga e il liberatorio ingresso delle truppe canadesi a Rionero in Vulture. L’incestuoso padre fascista s’impicca, la moglie assiste silenziosa e inebetita. Annamaria si allontana verso l’ospizio con passo incerto, come l’Edipo claudicante che avanza nello squilibrio.

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