Taranto: l’immaginario della città nel cinema. Festa
degli architetti 2014.
ROBERTO NISTRI
Sergio Bisciglia, docente di
sociologia urbana presso il Politecnico di Bari, ha proposto un intrigante
saggio: L’immagine della città nel cinema. Descrivere, comprendere e
promuovere il territorio attraverso
i film. La valigia dei sogni e il marketing. Per lungo tempo il
cinema ha cercato la città come scenario o come oggetto di rappresentazione.
Pare che Fritz Lang abbia immaginato la sua Metropolis a partire dallo scenario notturno delle mille luci
di New York e del suo sky line.
Oggi sono le città e i territori a cercare il cinema e le immagini che
questo crea, come fattori di
identità culturale e di marketing.
La città vuole somigliare alla rappresentazione filmica, tende a diventare immagine di se
stessa.
La questione non è quella del “fammi bello”, ma la carica di
fascinazione immateriale che
conferisce ad un locus una forza di
icona privilegiata (prima che brand
pubblicitario). L’armamentario artistico assegna potenza fantasmatica a spazi
immateriali e teatri della memoria, capaci di produrre mitologia e inventare
(dal latino invenire, cioè trovare) una città imperitura. Pensiamo
alla Bologna di Pupi Avati o la Manhattan di Woody Allen. Un
europeo che si reca a New York
l’ha già vista al cinema. Così un americano vede nel Tevere una scena
della Dolce vita. Il nostro immaginario urbano cerca
“riconoscimento”, ma anche “straniamento”. L’arte cinematografica può farti riconoscere ciò che non hai
mai visto, ma anche vedere l’usuale come se fosse la prima volta.
Non è questione di pubblicità e
neanche di “belle immagini”.
Il cinema americano degli anni ’70 e ’80 esprimeva addirittura un violento ethos antiurbano, raccontando la città come luogo
inquietante, ma pure costellazione di segni capaci di erotizzare e trasformare
in icona anche Un
uomo da marciapiede. Pure il Bronx , con i
suoi spazi depauperati e minacciosi può proporsi come nuova identità urbana.
Perfino il non- luogo dell’antropologo Marc Augè può produrre immaginario.
Nell’andirivieni tra immagini e città l’effetto emozionale può derivare anche
da uno spazio degradato ma inedito, mentre un locus bello ma non rielaborato, puà essere trascurato in
quanto troppo già visto.
Il corteggiamento dell’universo
filmico, da parte della politica e
del mercato, non è cosa degli ultimi giorni. Soprattutto a partire dagli anni ’90, nella fase della globalizzazione
matura, con il traballare delle certezze e l’emergenza delle piccole patrie, è
diventata sempre più pervasiva la retorica o ideologia delle “radici” , del “territorio”, della “identità”.
Vaghezze per nullatenenti: localismi regressivi, autocelebrazioni puerili di
nazionalismo sudista o di nordismo razzista , un baloccarsi con “culture” e
“tradizioni” che si rivelano innocue patacche o malintenzionate strategie di
potere, rapidamente consumabili dal mercato. Creativi e pubblicitari sono sempre alla caccia di brand , attrattive location e
marcatori identitari, spendibili
in chiave turistica o variamente promozionale. Ma le esigenze di una
committenza non sempre, fortunatamente, devono ridursi alla volgare pretesa del
“fammi bello”.
Nel Sud e particolarmente nel
Salento, nel 1996 ha funzionato in maniera egregia l’innamoramento fra pensiero
meridiano (Franco Cassano) e filmografia pizzicata (Edoardo Winspeare). Il
circolo scrittura-immagine è prezioso: per emozionarci di fronte ai
luoghi, spesso dobbiamo passare attraverso
le emozioni altrui. Purtroppo nella malconcia Taranto odierna, giovani figli di
nessuna storia, ispirandosi al
film 300 , si trastullano in rete alla ricerca di identità fasulle, del
tipo “Sangue Spartano, orgoglio tarantino. Nelle nostre vene scorre sangue
spartano, non dimentichiamolo mai”. Blunt und boden. Il sangue e la terra. Ci mancava il razzismo
spartano. Tarantohttps. it face book.
Taranto, la città doppia, ha
dissolto passo dopo passo le
tante, troppe identità di cui si era fatta carico: la antiquissima urbs
dolcevitaiola coniata da Orazio, la piazzaforte sempre in guerra, la
città antifascista, la capitale della siderurgia europea, con i suoi giardini
delle ostriche e l’oro nero delle cozze. La città che ha imparato a non
preoccuparsi e ad amare la Bomba, come il dottor Stranamore di Kubrick. Il
vecchio uccello del paradiso ha perso progressivamente tutte le sue piume.
***
La storia cinematografica di
Taranto non sembra esaltante: dalla marineria bellica alla guerra dell’acciaio,
solo di recente è stata gratificata da alcuni film di grande prestigio. Certo è che una città finisce sempre
per somigliare alle immagini che la riproducono.
Minimum film.
La nave bianca. 1941.
Roberto Rossellini.
Fantasmi del mare.
1948. Francesco De Robertis.
I pirati di Capri.
1949. Edgar G. Ulmer.
Il prezzo della gloria.
1956. Antonio Musu. Comparsata di Mike Bongiorno.
Una situazione propizia si
registrava fra il ’57 e il ‘58 , nei giorni felici prima dell’Italsider. La
città godeva di ottima immagine su scala nazionale e poteva vantare una storia culturale di tutto rispetto,
come documentano gli Archivi Luce. A partire dall’epopea del “Premio Taranto”,
la città bimare era stata onorata dalla presenza di Ungaretti, Gadda, Savinio ,
Brignetti, Casorati, Falqui, Palazzeschi, Cassinari… E poi, a ridosso degli
anni ’60, Eco, Sanguineti,
Bacchelli, Zevi… Al “Premio
del mare” aveva esordito con un racconto inedito il giovane Pasolini,
che doveva immortalare quella “magica Taranto, che brilla sui due mari
come un gigantesco diamante in frantumi… città perfetta. Viverci è come vivere
all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta”. Si erano create
miracolose sinergie per difendere la “piccola bellezza”, purtroppo sabotate da
una classe dirigente imbelle e ignorante.
Nel 1957 così scriveva Guido
Piovene: “Taranto è uno dei posti più vivaci dell’Italia del Sud, e non saprei
trovarne di paragonabili; sembra illustrare una novella orientale, di quelle
dove i pesci parlano e sputano anelli preziosi… Questo porticciolo orientale,
questa popolazione di pesci e di molluschi, è uno dei migliori ricordi
italiani; e così nell’insieme, il ricordo di Taranto, città di mare tersa e
lieve, tanto che passeggiandovi sembra di respirare a tempo di musica”.
L’anello d’oro di Taranto, “una città per cantare”, doveva rifulgere nella
feconda stagione dei “musicarelli” . Non si poteva competere con Una nave tutta rosa di Blake Edwards, ma nello stesso 1958
Taranto poteva vantare il
suo cult : il neorealismo rosa di Promesse di marinaio.
Promesse di
marinaio. Turi Vasile. 1958. Preziosissimo
documento antropologico all’alba del nascente gigantismo industriale. Una città
attraente ai confini della realtà: la protagonista era addirittura giunta da
Milano a Taranto per trovare lavoro. Vedi anche Marinai in coperta. 1967. Bruno Corbucci. Cantava Little Tony e la
macchina del desiderio era all’opera . Indimenticabile
la grande onda jazzistica fra due mari, con il gruppo di
Silvano Martina che suonava con Fred Buscaglione. Situazioni felici, nelle
quali i riconoscimenti identitari sorgevano spontanei, senza forzature di marketing.
Purtroppo nell’età dell’acciaio non ci si discostava molto dal trash
movie:
Infermiera di notte.
1979. Mariano Laurenti. Con
scorcio di Lungomare e Park Hotel.
White pop Jesus,
1979. Luigi Petrini. Interpretato da un inquietante Awana Gana, al secolo
Antonio Costantini: dj e show
man di lungo corso, al quale lo scrittore
Giuliano Pavone ha dedicato una commossa rievocazione, in memoria di quella
sgangherata Woodstock fra due mari che lo aveva eccitato nell’età adolescenziale, quando non erano ancora
spenti gli ultimi fuochi della “contestazione” .
Mentre nella provincia di Matera
Francesco Rosi girava il suo Cristo si è fermato ad Eboli, anche Taranto poteva vantare il suo Jesus di celluloide, con tuniche bianche e miracoletti
nella Villa Peripato. Sulla carta
il progettino non era infame, con la presenza di attori come Stella Carnacina e
Luigi Magni dei Gufi, musiche di Vince Tempera e coreografie di Don Lurio.
Schivata una minaccia di censura, il film veniva presentato in pompa magna al
Sistina di Roma, ma spariva subito dalla circolazione per insolvenza del
produttore. Per i fans è visibile solo su You tube a puntate: una miscela lisergica a bassa gradazione,
impossibile da raccontare ma appetibile per i tarantini, sempre con un piede
nella fossa e un piede nella farsa. Rimane memorabile il coinvolgimento di
tutta la cittadinanza in una immensa processione tipo Corpus Domini che
attraversava le vie
cittadine, per salpare verso un
altro cielo e un’altra terra. Power
flowers in Villa Peripato.
Meglio
Il ragazzo
di Ebalus. 1984. Giuseppe Schito. Un film
poco fortunato ma interessante: un terrorista in crisi che fugge da Milano
cercando l’aiuto dei compagni dell’Italsider di Taranto, finendo braccato sia
dai poliziotti che dai brigatisti. Viene aiutato solo da un virgiliano
agricoltore (Cucciolla) che anticipa il magismo rurale di Winspeare: il ritorno
alla terra come antidoto alla violenza.
Io speriamo che me la cavo. 1992, Lina Wertmuller con una Taranto mascherata da Napoli.
( anche i tarantini mettevano in circolazione falsi
smaccati, come una casetta
di Pinocchio nel film di Comencini, del tutto inesistente a Taranto).
Cozze. 1996. Giuseppe
Giusto. Jazz on the road Taranto.
Figli di Annibale.
1998. Davide Ferrario. On the road sud.
Le acrobate. 1997.
Silvio Soldini. Una città assorta,
sospesa fuori dal tempo, tra i silenzi archeologici e gli sbuffi delle
ciminiere. Infelice battuta del tassista che consiglia alla passeggera di
nascondere i soldi.
The Two
famillies. 2006. Romano Scavolini .
Location mafioseria e Settimana Santa.
I classici.
Il miracolo. 2003. Edoardo Winspeare. Il vero film di Taranto rimane fino ad ora quello girato dal
barone di Depressa: dimensione mistica e levantina. Stanchezza morale e
attenzione al sensazionale. Capacità di riconoscere attraverso gli occhi di un
bimbo la dolcezza e la bellezza, in una città fra due mari, ferita e straziata
dall’Ilva. Edoardo stava vivendo la stagione del reincanto: una produzione
filmica e musicale portatrice di una sorta di magismo “solare”. Nelle sequenze
de Il miracolo, è sottesa una vera e propria “metafisica
della luce”: nella Taranto postindustriale, un mondo immoto, immerso in una
notte di caligine, d’un tratto si ha la visione di un luccicore, un chiarore
che viene dal cielo o forse dal fondo del mare, uno scintillare che è
all’orizzonte o in un angolo dentro di noi. In tenebris lumen… Questa luce che risplende nell’ombra è il vero
oggetto del desiderio di Edoardo, cacciatore di quei momenti aurei che possono
spezzare il continuum storico,
(il bronzeo tempo servile della ripetizione e dell’automatismo) e innescare la
mossa del ricominciamento.
La scommessa è quella di far
affluire “sangue vivo” al pensiero dell’avventura (ad ventura) con un
immaginoso e rischioso movimento
verso il non ancora.Winspeare è realmente entrato in sintonia con Taranto,
forse troppo. Il disagio di fronte al cuore di tenebra deve essere criticamente trasformato, altrimenti il
miracolo svapora nella genuflessione davanti agli imbonitori televisivi e ai
taumaturghi di paese. Troppe volte il giocattolo si è sbriciolato nelle mani
dei tarantini, sempre in gara nella miracolosa caccia del “gratta e
perdi”. La vera posta in gioco è
sempre una lotta intorno al potere, in cui nuovi soggetti possano prendere la
parola, agire e trasformare la realtà.
Mar Piccolo. 2009. Alessandro di Robilant, con Michele Riondino.
Rispetto al visionarismo di Winspeare, tutto immerso nel
cuore della Città vecchia, con i suoi culti e antichi rituali, il film del
regista svizzero, talvolta pedagogico e asciutto nella sua composizione filmica,
è più vicino alla lezione di Ernesto De Martino, nel rappresentare le
sterminate periferie dove abita quell’80% per cento della popolazione che non
ha storie da raccontare. I due
film si interfacciano casualmente nel racconto delle due città. Non parliamo
della ovvia dualità fra la vecchia e la nuova Taranto. Si tratta di due
pulsioni, in senso freudiano, che si combattevano già nella città ebalica sul
finire dei 1300 anni di comunione e reclusione nella grande fortezza.
Come ha sostenuto Emile
Benveniste, mentre la polis greca
promuoveva una dimora stabile, radicata in un territorio delimitato da confini
certi (il centro era simboleggiato da una croce dentro un cerchio) la civitas romana era caratterizzata da un perpetuo
sconfinamento , un furor
urbis: una unità bifronte sempre sull’orlo
di una crisi di nervi. Non è questione di piani regolatori, si tratta di
riconoscere un cuore della città e questo è il lavoro proprio del cinema:
ricucire la ferita. Forse Di Robilant
aveva intuito quello che oggi propone Renzo Piano, con il suo “Periferia
Pride”. Solo riscattando con una paziente opera di rammendo sociale il non
luogo della coazione, della banlieu,
è possibile aprire uno spiraglio per liberare nuova narrazione e nuova storia.
Underground.
FireWorks. 2011. Giacomo Abbruzzese.
Un gruppo internazionale di ecologisti pianifica di fare esplodere, durante la
notte di Capodanno il complesso industriale dell’Ilva. Un nihilismo attivo che
immagina l’esplosione dello skyline
siderurgico, come la ekpurosis finale di Antonioni in Zabriskie Point , purtroppo senza le note dei Pink Floid. Massimo Causo ha scritto di un
“riscatto dell’immaginario, in una
città da sempre costretta a fare i conti… con una topografia fatta di perimetri
invalicabili, arsenali, basi militari, muraglioni, ciminiere, nastri
trasportatori, silos”.
Il grande coperchio immaginato da Stephen King in in Under
the dome..
Sarò il tuo giudice.
2007. Gianluigi Calderone. Fiction Rai. Tipica location poliziottesca.
La terza persona.
2013. Paul Haggis. Indignazione del regista per le sofferenze tarantine.
Fuori
orario. Cinema corsaro.
Carmela, salvata dai
filibustieri. Giovanni Maderna, Mauro
Santini, due dei maggiori registi del cinema marginale italiano.Film presentato
al festival di Venezia nel 2012.
In una atmosfera salgariana, due tigrotti della Malesia,
pescatori della Taranto vecchia dai volti impastati di acqua e sale, percorrono
l’Isola nella parte alta e nei sotterranei, inseguendo una fantasmatica
Carmela, la scomparsa Jolanda di
Ventimiglia, rammentando vecchi timori di prigionie e destini avversi. Le
sagome dei terramaricoli magnogreci sembrano emergere da un buco nero, i loro volti sono quelli degli
immortali. Il vascelletto che s’intravede nel baluginar della marina è una
ebalica Stairway to heaven. Un film
“felicemente” tarantino e capace di attingere all’universalità: una autentica
perla in una cozza nera.
Una città finisce sempre per somigliare alle immagini che la
riproducono.
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