domenica 10 agosto 2014

Taranto: l’immaginario della città nel cinema


Taranto: l’immaginario della città nel cinema. Festa degli architetti 2014.

ROBERTO NISTRI

       Sergio Bisciglia, docente di sociologia urbana presso il Politecnico di Bari, ha proposto un intrigante saggio: L’immagine della città nel cinema. Descrivere, comprendere e promuovere il territorio attraverso i film.  La valigia dei sogni e il marketing. Per lungo tempo il cinema ha cercato la città come scenario o come oggetto di rappresentazione. Pare che Fritz Lang abbia immaginato la sua Metropolis a partire dallo scenario notturno delle mille luci di New York e del suo sky line.  Oggi sono le città e i territori a cercare il cinema e le immagini che questo crea,  come fattori di identità culturale e di marketing. La città vuole somigliare alla rappresentazione filmica,  tende a diventare immagine di se stessa.
     La questione non è quella del “fammi bello”, ma la carica di fascinazione immateriale  che conferisce ad un locus una forza di icona privilegiata (prima che brand pubblicitario). L’armamentario artistico assegna potenza fantasmatica a spazi immateriali e teatri della memoria, capaci di produrre mitologia e inventare (dal latino invenire, cioè  trovare) una città imperitura. Pensiamo alla Bologna di Pupi Avati o la Manhattan di Woody Allen.  Un europeo che si reca a New York  l’ha già vista al cinema. Così un americano vede nel Tevere una scena della Dolce  vita. Il nostro immaginario urbano cerca “riconoscimento”, ma anche “straniamento”. L’arte cinematografica  può farti riconoscere ciò che non hai mai visto, ma anche vedere l’usuale come se fosse la prima volta.
      Non è questione di pubblicità e neanche   di “belle immagini”. Il cinema americano degli anni ’70 e ’80 esprimeva addirittura un violento ethos antiurbano, raccontando la città come luogo inquietante, ma pure costellazione di segni capaci di erotizzare e trasformare in icona anche   Un uomo da marciapiede. Pure il Bronx , con i suoi spazi depauperati e minacciosi può proporsi come nuova identità urbana. Perfino il non- luogo dell’antropologo Marc Augè può produrre immaginario. Nell’andirivieni tra immagini e città l’effetto emozionale può derivare anche da uno spazio degradato ma inedito, mentre un locus bello ma non rielaborato, puà essere trascurato in quanto troppo già visto.
      Il corteggiamento dell’universo filmico,  da parte della politica e del mercato, non è cosa degli ultimi giorni. Soprattutto a  partire dagli anni ’90,  nella fase della globalizzazione matura, con il traballare delle certezze e l’emergenza delle piccole patrie, è diventata sempre più pervasiva la retorica o ideologia  delle “radici” ,  del “territorio”, della “identità”. Vaghezze per nullatenenti: localismi regressivi, autocelebrazioni puerili di nazionalismo sudista o di nordismo razzista , un baloccarsi con “culture” e “tradizioni” che si rivelano innocue patacche o malintenzionate strategie di potere, rapidamente consumabili dal mercato.  Creativi e pubblicitari sono  sempre alla caccia di brand , attrattive  location   e marcatori identitari,  spendibili in chiave turistica o variamente promozionale. Ma le esigenze di una committenza non sempre, fortunatamente, devono ridursi alla volgare pretesa del “fammi bello”.
       Nel Sud e particolarmente nel Salento, nel 1996 ha funzionato in maniera egregia l’innamoramento fra pensiero meridiano (Franco Cassano) e filmografia pizzicata (Edoardo Winspeare). Il circolo scrittura-immagine è prezioso: per emozionarci di fronte ai luoghi,  spesso dobbiamo passare attraverso le emozioni altrui. Purtroppo nella malconcia Taranto odierna, giovani figli di nessuna storia,  ispirandosi al film 300 , si trastullano in rete  alla ricerca di identità fasulle, del tipo “Sangue Spartano, orgoglio tarantino. Nelle nostre vene scorre sangue spartano, non dimentichiamolo mai”. Blunt und boden. Il sangue e la terra. Ci mancava il razzismo spartano. Tarantohttps. it face book.
      Taranto, la città doppia, ha dissolto passo dopo passo  le tante, troppe identità di cui si era fatta carico: la antiquissima urbs  dolcevitaiola coniata da Orazio, la piazzaforte sempre in guerra, la città antifascista, la capitale della siderurgia europea, con i suoi giardini delle ostriche e l’oro nero delle cozze. La città che ha imparato a non preoccuparsi e ad amare la Bomba, come il dottor Stranamore di Kubrick. Il vecchio uccello del paradiso ha perso progressivamente tutte le sue piume.

                                                                    ***

       La storia cinematografica di Taranto non sembra esaltante: dalla marineria bellica alla guerra dell’acciaio, solo di recente è stata gratificata da alcuni film  di grande prestigio. Certo è che una città finisce sempre per somigliare alle immagini che la riproducono.

Minimum film.

La nave bianca. 1941. Roberto Rossellini.
Fantasmi del mare. 1948. Francesco De Robertis.
I pirati di Capri. 1949. Edgar G. Ulmer.
Il prezzo della gloria. 1956. Antonio Musu. Comparsata di Mike Bongiorno.

      Una situazione propizia si registrava fra il ’57 e il ‘58 , nei giorni felici prima dell’Italsider. La città godeva di ottima immagine su scala nazionale e poteva vantare  una storia culturale di tutto rispetto, come documentano gli Archivi Luce. A partire dall’epopea del “Premio Taranto”, la città bimare era stata onorata dalla presenza di Ungaretti, Gadda, Savinio , Brignetti, Casorati, Falqui, Palazzeschi, Cassinari… E poi, a ridosso degli anni ’60,  Eco, Sanguineti, Bacchelli, Zevi…   Al “Premio del mare” aveva esordito con un racconto inedito  il giovane Pasolini,  che doveva immortalare quella “magica Taranto, che brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi… città perfetta. Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta”.        Si erano create miracolose sinergie per difendere la “piccola bellezza”, purtroppo sabotate da una classe dirigente imbelle e ignorante.
      Nel 1957 così scriveva Guido Piovene: “Taranto è uno dei posti più vivaci dell’Italia del Sud, e non saprei trovarne di paragonabili; sembra illustrare una novella orientale, di quelle dove i pesci parlano e sputano anelli preziosi… Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e di molluschi, è uno dei migliori ricordi italiani; e così nell’insieme, il ricordo di Taranto, città di mare tersa e lieve, tanto che passeggiandovi sembra di respirare a tempo di musica”. L’anello d’oro di Taranto, “una città per cantare”, doveva rifulgere nella feconda stagione dei “musicarelli” . Non si poteva competere con  Una nave tutta rosa di Blake Edwards,  ma nello stesso 1958  Taranto  poteva vantare il suo cult : il neorealismo rosa di Promesse di marinaio.

  Promesse di marinaio. Turi Vasile. 1958. Preziosissimo documento antropologico all’alba del nascente gigantismo industriale. Una città attraente ai confini della realtà: la protagonista era addirittura giunta da Milano a Taranto per trovare lavoro. Vedi anche Marinai in coperta. 1967. Bruno Corbucci. Cantava Little Tony e la macchina del desiderio era all’opera . Indimenticabile
la grande onda jazzistica fra due mari, con il gruppo di Silvano Martina che suonava con Fred Buscaglione. Situazioni felici, nelle quali i riconoscimenti identitari sorgevano spontanei, senza forzature di marketing.

      Purtroppo  nell’età dell’acciaio non ci si discostava molto dal trash movie:
Infermiera di notte. 1979. Mariano Laurenti.   Con scorcio di Lungomare e Park Hotel.
White pop Jesus, 1979. Luigi Petrini. Interpretato da un inquietante Awana Gana, al secolo Antonio Costantini: dj e show man di lungo corso, al quale lo scrittore Giuliano Pavone ha dedicato una commossa rievocazione, in memoria di quella sgangherata Woodstock fra due mari che lo aveva  eccitato nell’età adolescenziale, quando non erano ancora spenti gli ultimi fuochi della “contestazione” .
       Mentre nella provincia di Matera Francesco Rosi girava il suo Cristo si è fermato ad Eboli, anche Taranto poteva vantare il suo Jesus di celluloide, con tuniche bianche e miracoletti nella Villa Peripato.  Sulla carta il progettino non era infame, con la presenza di attori come Stella Carnacina e Luigi Magni dei Gufi, musiche di Vince Tempera e coreografie di Don Lurio. Schivata una minaccia di censura, il film veniva presentato in pompa magna al Sistina di Roma, ma spariva subito dalla circolazione per insolvenza del produttore. Per i fans è visibile solo su You tube a puntate: una miscela lisergica a bassa gradazione, impossibile da raccontare ma appetibile per i tarantini, sempre con un piede nella fossa e un piede nella farsa. Rimane memorabile il coinvolgimento di tutta la cittadinanza in una immensa processione tipo Corpus Domini che attraversava   le vie cittadine,  per salpare verso un altro cielo e un’altra terra.  Power flowers in Villa Peripato.

Meglio

 Il ragazzo di Ebalus. 1984. Giuseppe Schito. Un film poco fortunato ma interessante: un terrorista in crisi che fugge da Milano cercando l’aiuto dei compagni dell’Italsider di Taranto, finendo braccato sia dai poliziotti che dai brigatisti. Viene aiutato solo da un virgiliano agricoltore (Cucciolla) che anticipa il magismo rurale di Winspeare: il ritorno alla terra come antidoto alla violenza.
Io speriamo che me la cavo. 1992, Lina Wertmuller con una Taranto mascherata da Napoli.
( anche i tarantini mettevano in circolazione falsi smaccati,   come una casetta di Pinocchio nel film di Comencini, del tutto inesistente a Taranto).
Cozze. 1996. Giuseppe Giusto. Jazz on the road Taranto.
Figli di Annibale. 1998. Davide Ferrario. On the road sud.
Le acrobate. 1997. Silvio  Soldini. Una città assorta, sospesa fuori dal tempo, tra i silenzi archeologici e gli sbuffi delle ciminiere. Infelice battuta del tassista che consiglia alla passeggera di nascondere i soldi.
 The Two famillies. 2006. Romano Scavolini . Location mafioseria e Settimana Santa.

I classici.

       Il miracolo. 2003. Edoardo Winspeare.  Il vero film di Taranto rimane fino ad ora quello girato dal barone di Depressa:   dimensione mistica e levantina. Stanchezza morale e attenzione al sensazionale. Capacità di riconoscere attraverso gli occhi di un bimbo la dolcezza e la bellezza, in una città fra due mari, ferita e straziata dall’Ilva. Edoardo stava vivendo la stagione del reincanto: una produzione filmica e musicale portatrice di una sorta di magismo “solare”. Nelle sequenze de Il miracolo,  è sottesa una vera e propria “metafisica della luce”: nella Taranto postindustriale, un mondo immoto, immerso in una notte di caligine, d’un tratto si ha la visione di un luccicore, un chiarore che viene dal cielo o forse dal fondo del mare, uno scintillare che è all’orizzonte o in un angolo dentro di noi. In tenebris lumen… Questa luce che risplende nell’ombra è il vero oggetto del desiderio di Edoardo, cacciatore di quei momenti aurei che possono spezzare il continuum storico, (il bronzeo tempo servile della ripetizione e dell’automatismo) e innescare la mossa del ricominciamento. 
      La scommessa è quella di far affluire “sangue vivo” al pensiero dell’avventura (ad ventura) con  un immaginoso e rischioso  movimento verso il non ancora.Winspeare è realmente entrato in sintonia con Taranto, forse troppo. Il disagio di fronte al cuore di tenebra deve essere  criticamente trasformato, altrimenti il miracolo svapora nella genuflessione davanti agli imbonitori televisivi e ai taumaturghi di paese. Troppe volte il giocattolo si è sbriciolato nelle mani dei tarantini, sempre in gara nella miracolosa caccia del “gratta e perdi”.  La vera posta in gioco è sempre una lotta intorno al potere, in cui nuovi soggetti possano prendere la parola, agire e trasformare la realtà.

      Mar Piccolo. 2009. Alessandro  di Robilant, con Michele Riondino.
Rispetto al visionarismo di Winspeare, tutto immerso nel cuore della Città vecchia, con i suoi culti e antichi rituali, il film del regista svizzero, talvolta pedagogico e asciutto nella sua composizione filmica, è più vicino alla lezione di Ernesto De Martino, nel rappresentare le sterminate periferie dove abita quell’80% per cento della popolazione che non ha storie da raccontare.  I due film si interfacciano casualmente nel racconto delle due città. Non parliamo della ovvia dualità fra la vecchia e la nuova Taranto. Si tratta di due pulsioni, in senso freudiano, che si combattevano già nella città ebalica sul finire dei 1300 anni di comunione e reclusione nella grande fortezza.
       Come ha sostenuto Emile Benveniste, mentre la polis greca promuoveva una dimora stabile, radicata in un territorio delimitato da confini certi (il centro era simboleggiato da una croce dentro un cerchio) la civitas romana era caratterizzata da un perpetuo sconfinamento ,  un furor urbis: una unità bifronte sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Non è questione di piani regolatori, si tratta di riconoscere un cuore della città e questo è il lavoro proprio del cinema: ricucire la ferita. Forse Di Robilant  aveva intuito quello che oggi propone Renzo Piano, con il suo “Periferia Pride”. Solo riscattando con una paziente opera di rammendo sociale il non luogo della coazione, della banlieu, è possibile aprire uno spiraglio per liberare nuova narrazione e nuova storia.

Underground.

     FireWorks. 2011. Giacomo Abbruzzese. Un gruppo internazionale di ecologisti pianifica di fare esplodere, durante la notte di Capodanno il complesso industriale dell’Ilva. Un nihilismo attivo che immagina l’esplosione dello skyline siderurgico, come la ekpurosis  finale di  Antonioni in Zabriskie Point , purtroppo senza le note dei Pink Floid.  Massimo Causo ha scritto di un “riscatto dell’immaginario,  in una città da sempre costretta a fare i conti… con una topografia fatta di perimetri invalicabili, arsenali, basi militari, muraglioni, ciminiere, nastri trasportatori, silos”.
Il grande coperchio immaginato da Stephen King in in Under the dome..
Sarò il tuo giudice. 2007. Gianluigi Calderone. Fiction Rai. Tipica location poliziottesca.
La terza persona. 2013. Paul Haggis. Indignazione del regista per le sofferenze tarantine.

 Fuori orario. Cinema corsaro.

       Carmela, salvata dai filibustieri. Giovanni Maderna, Mauro Santini, due dei maggiori registi del cinema marginale italiano.Film presentato al festival di Venezia nel 2012.
In una atmosfera salgariana, due tigrotti della Malesia, pescatori della Taranto vecchia dai volti impastati di acqua e sale, percorrono l’Isola nella parte alta e nei sotterranei, inseguendo una fantasmatica Carmela, la  scomparsa Jolanda di Ventimiglia, rammentando vecchi timori di prigionie e destini avversi. Le sagome dei terramaricoli magnogreci sembrano emergere da un buco nero,   i loro volti sono quelli degli immortali. Il vascelletto che s’intravede nel baluginar della marina è una ebalica Stairway to heaven. Un film “felicemente” tarantino e capace di attingere all’universalità: una autentica perla in una cozza nera.

Una città finisce sempre per somigliare alle immagini che la riproducono. 

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