Biblioteca meridionale
Recensioni e presentazioni a cura di Roberto Nistri
NINO CALICE, Sogni,
bisogni e maschere, Calice Ed. 1991
(Viaggio attorno al
pecorino, in “Quotidiano”, 26 agosto 1992)
Di fronte al
tribunale dell’Inquisizione, il 28 aprile 1584, il mugnaio friulano Domenico
Scandella, detto Menocchio, illustrava la sua originale cosmologia casearia:
“Tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume
andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel
deventorno vermi, et quelli furno gli angeli…”. I giudici non apprezzarono
l’empia comparazione degli angeli (nonché di Dio) ai vermi del formaggio e
condannarono l’audace mugnaio. Il Menocchio aveva riflettuto a modo suo sul misterium casei, sul percorso del
formaggio dal caos (mescolanza, magma polimorfo) al cosmos (ordine e armonia)
dal primario liquido vitale -
nell’immaginario associato all’acqua, allo sperma e al sangue -
all’assunzione di rigorose forme simboliche, attraverso l’alchimia della
decomposizione e della ricomposizione (Nicolò Serpetro scriveva nel 1653 che
anche l’uomo nasceva da “tre gocce di seme e d’un tantino di sangue sparsi in
guisa di latte e quagliati in modo di cascio”).
Per parecchi
secoli la parte “alta” della società non ha mostrato alcuna simpatia per le
metamorfosi del cacio e molti hanno sostenuto con forza la sua intrinseca
malignità, come ha stupendamente raccontato Piero Camporesi in Le officine dei sensi (1985). Come
derivato del latte veniva onorato il burro, considerato una vera e propria
delizia divina, e il meglio era il burro derivato dal latte di donna, naturaliter elisir di lunga vita. “Oltre al burro, in
certi particolari casi (ne è testimone Francesco Redi) dal latte di donna
veniva plasmato un formaggio del cui gusto ben poco (per non dire nulla)
sappiamo” , scrive Camporesi. Tutti gli altri formaggi erano guardati con
sospetto: “tutti i casci sono di tristo succo”, ammoniva Baldassarre Pisanelli
nel 1587. Freddo, crasso e stipante è duro il cascio”, cantilenava un aforisma
della scuola salernitana e Pietro Lotichio dimostrava con facilità come dalla
corruzione di fetidi e putridi alimenti,
gli umori non potevano essere che corrotti. E poi il formaggio era
indegno di persone per bene, di cittadini onorati: pasto di straccioni e di
villani, come diceva il filosofo Campanella, soliti a mangiare “brutti cibi”. E
tutti sanno quale fosse il formaggio plebeo per definizione: il pecorino.
Questo umile
cibo antico è stato riabilitato con tutti gli onori da Nino Calice con l’aureo
libretto Sogni, bisogni e maschere
(1991). Si tratta di un devoto pellegrinaggio lungo la Via Lattea, una
rievocazione degli antichi sapori attraverso i logoi e le icone della
gastrosofia, di una dietetica che vuole essere gaia scienza e sapienza
gustativa. Se la bocca è il luogo della storia, come dice Michel Onfray, la
gastronomia è la prosecuzione della politica con altri mezzi, deve essere il
riscatto degli uomini dal rango di omologati consumatori onnivori. La scienza
della bocca è scienza della soggettività: se l’uomo è ciò che mangia, come
recita l’aforisma principe, un mangiare de/sensualizzato caratterizza una
umanità in/sensata. Contro la volgarità dell’homo
panphagus, il mangia-tutto anestetizzato dall’imperante indistinzione dei
sensi, Nino Calice rivendica la nutrizione come stilizzazione dell’esistenza e
come una delle belle arti . Come la sessualità, il cibo è inseparabile dalla
fantasia.
Si parte dalla
oscura taberna casearia del Ciclope, pozzo abitato dagli stessi demoni che
regnano sul letamaio, sul cui fondo biancheggia il liquido lunare: “Il ricordo
di Polifemo e del suo buio antro - ricolmo di secchi di siero, di graticci di
formaggio, di boccali di latte con la
sua certa antropofagia fa sorgere in noi incubi di pastori e di cannibali… La
paura della barbarie, se non la paura di sparire nell’antro, nel ventre, nel
buio”. L’antica sapienza sapeva guardare in faccia la morte e accettare la
mutazione, i vermi salterini e la salutifera putrefazione; la tendenza odierna
alla deodorazione mira stoltamente alla neutralizzazione del formaggio “forte”
e alla rimozione del cambiamento e della morte.
La replica al buio e la trascendenza del negativo si
esprimono nel sogno, nella festa e nello spirito della Utopia. Maccus,
Margutte, Scapino sono i simboli della mitologia del formaggio, “travestimenti
di una fame endemica ed epidemica che ne fa tristemente avida la faccia, lungo
il muso, affinate le narici alla cerca inquieta di trippe e maccheroni…con
formaggio”. Il brontolio dello stomaco in cerca di pienezza, il niente del
nostro essere che è avido d’ingollare il tutto, si è incarnato in quel Zanni,
mimato da Fo nel Mistero Buffo, che
sogna addirittura di mangiare se stesso.
Ma su tutte le
maschere signoreggia quella del figlio di “Maccherone”, quel pulcinella che “si
portava addosso l’anatema di una fame incolmabile e distruttiva” (M. Lombardi
Satriani). La fame ha plasmato il corpo stesso di Pulcinella, imprimendo le sue
stimmate nella voce stentata di pitocco diseredato e nel viso scavato del
popolano denutrito. La fame è una divinità di cui Pulcinella è vittima e
sacerdote, alla perenne ricerca di una impossibile sazietà. La sua voracità è
quella delle figure mostruose dell’immaginario popolare, enfatizzazione della
naturalità dei bisogni e delle funzioni viscerali, festose catarsi della grande
attrippata comunitaria.
L’utopia di
Pulcinella è la stessa di Calandrino: quella terra di Bengodi nella quale si legano le vigne con le
salsicce: “ Ed eravi una montagna di parmigiano grattugiato, sopra la quale
stavan genti che niouna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e
cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne
pigliava più ne aveva”. Quel paese deve pur esserci da qualche parte, come c’è
il paese di Cuccagna, “ dove la natura benigna usa vulcani per caldaie, fa
montagne di formaggio, trasforma valanghe in allegri rotolii di tortelli e in
grovigli di maccheroni” (Calice). In Pulcinella, nel suo sogno di mutarsi in
maccherone (“Fa, gran Giove / ch’io deventa Maccherone”) si eternizza la
memoria collettiva dell’ascesa dall’inferno dei mangiafoglie al paradiso dei
mangiamaccheroni, “in cui ognuno avrebbe voluto dolcemente naufragare”. Il
naufragio è lo spirito panico, il diventare tutt’uno, la mistica con-fusione.
Se
Pulcinella ha sempre fame, ha sempre desiderio d’amore, secondo quella
“analogia fortissima che, ovunque nel mondo, il pensiero umano sembra stabilire
tra l’atto della copulazione e l’atto del mangiare” ( Lévi-Strauss) mitizzando
l’esperienza d’amore come possesso totale attraverso l’incorporazione (la prima
coniugazione di cibo ed eros avviene libidicamente proprio nel latte materno).
L’orgasmo culinario che trasforma l’impulso viscerale in un delirio dei vasi
sanguigni, può valere come sostituzione compensativa del sesso negato, portando
all’ entusiasmo (possessione divina) e all’estasi (uscita da sé). e l’atto del
mangiare”. Ma anche il sesso può supplire all’assenza di cibo. L’epigrafe che
Nino Calice pone a conclusione della sua storia alimentare è uno
spiritualissimo lamento della zona del Vulture: “Teng’na fame, na secca e nu sunne / na ribulezza ca vac’ carenne / ma
si avesse na femina attuorne / mi
passasse la fame, la secca e lu sunne”. Da scolpire magari su una pezza di
pecorino, se non sul bronzo.
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