venerdì 1 agosto 2014

Biblioteca meridionale: Nino Calice



Biblioteca meridionale

Recensioni e presentazioni a cura di Roberto Nistri

NINO CALICE, Sogni, bisogni e maschere,  Calice Ed. 1991
(Viaggio attorno al pecorino, in “Quotidiano”, 26 agosto 1992)


      Di fronte al tribunale dell’Inquisizione, il 28 aprile 1584, il mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, illustrava la sua originale cosmologia casearia: “Tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno gli angeli…”. I giudici non apprezzarono l’empia comparazione degli angeli (nonché di Dio) ai vermi del formaggio e condannarono l’audace mugnaio. Il Menocchio aveva riflettuto a modo suo sul misterium casei, sul percorso del formaggio dal caos (mescolanza, magma polimorfo) al cosmos (ordine e armonia) dal primario liquido vitale -  nell’immaginario associato all’acqua, allo sperma e al sangue - all’assunzione di rigorose forme simboliche, attraverso l’alchimia della decomposizione e della ricomposizione (Nicolò Serpetro scriveva nel 1653 che anche l’uomo nasceva da “tre gocce di seme e d’un tantino di sangue sparsi in guisa di latte e quagliati in modo di cascio”).
      Per parecchi secoli la parte “alta” della società non ha mostrato alcuna simpatia per le metamorfosi del cacio e molti hanno sostenuto con forza la sua intrinseca malignità, come ha stupendamente raccontato Piero Camporesi in Le officine dei sensi (1985). Come derivato del latte veniva onorato il burro, considerato una vera e propria delizia divina, e il meglio era il burro derivato dal latte di donna, naturaliter  elisir di lunga vita. “Oltre al burro, in certi particolari casi (ne è testimone Francesco Redi) dal latte di donna veniva plasmato un formaggio del cui gusto ben poco (per non dire nulla) sappiamo” , scrive Camporesi. Tutti gli altri formaggi erano guardati con sospetto: “tutti i casci sono di tristo succo”, ammoniva Baldassarre Pisanelli nel 1587. Freddo, crasso e stipante è duro il cascio”, cantilenava un aforisma della scuola salernitana e Pietro Lotichio dimostrava con facilità come dalla corruzione di fetidi e putridi alimenti,  gli umori non potevano essere che corrotti. E poi il formaggio era indegno di persone per bene, di cittadini onorati: pasto di straccioni e di villani, come diceva il filosofo Campanella, soliti a mangiare “brutti cibi”. E tutti sanno quale fosse il formaggio plebeo per definizione: il pecorino.
      Questo umile cibo antico è stato riabilitato con tutti gli onori da Nino Calice con l’aureo libretto Sogni, bisogni e maschere (1991). Si tratta di un devoto pellegrinaggio lungo la Via Lattea, una rievocazione degli antichi sapori attraverso i logoi e le icone della gastrosofia, di una dietetica che vuole essere gaia scienza e sapienza gustativa. Se la bocca è il luogo della storia, come dice Michel Onfray, la gastronomia è la prosecuzione della politica con altri mezzi, deve essere il riscatto degli uomini dal rango di omologati consumatori onnivori. La scienza della bocca è scienza della soggettività: se l’uomo è ciò che mangia, come recita l’aforisma principe, un mangiare de/sensualizzato caratterizza una umanità in/sensata. Contro la volgarità dell’homo panphagus, il mangia-tutto anestetizzato dall’imperante indistinzione dei sensi, Nino Calice rivendica la nutrizione come stilizzazione dell’esistenza e come una delle belle arti . Come la sessualità, il cibo è inseparabile dalla fantasia.
      Si parte dalla oscura taberna casearia del Ciclope, pozzo abitato dagli stessi demoni che regnano sul letamaio, sul cui fondo biancheggia il liquido lunare: “Il ricordo di Polifemo e del suo buio antro - ricolmo di secchi di siero, di graticci di formaggio, di boccali di latte  con la sua certa antropofagia fa sorgere in noi incubi di pastori e di cannibali… La paura della barbarie, se non la paura di sparire nell’antro, nel ventre, nel buio”. L’antica sapienza sapeva guardare in faccia la morte e accettare la mutazione, i vermi salterini e la salutifera putrefazione; la tendenza odierna alla deodorazione mira stoltamente alla neutralizzazione del formaggio “forte” e alla rimozione del cambiamento e della morte.
La replica al buio e la trascendenza del negativo si esprimono nel sogno, nella festa e nello spirito della Utopia. Maccus, Margutte, Scapino sono i simboli della mitologia del formaggio, “travestimenti di una fame endemica ed epidemica che ne fa tristemente avida la faccia, lungo il muso, affinate le narici alla cerca inquieta di trippe e maccheroni…con formaggio”. Il brontolio dello stomaco in cerca di pienezza, il niente del nostro essere che è avido d’ingollare il tutto, si è incarnato in quel Zanni, mimato da Fo nel Mistero Buffo, che sogna addirittura di mangiare se stesso.
      Ma su tutte le maschere signoreggia quella del figlio di “Maccherone”, quel pulcinella che “si portava addosso l’anatema di una fame incolmabile e distruttiva” (M. Lombardi Satriani). La fame ha plasmato il corpo stesso di Pulcinella, imprimendo le sue stimmate nella voce stentata di pitocco diseredato e nel viso scavato del popolano denutrito. La fame è una divinità di cui Pulcinella è vittima e sacerdote, alla perenne ricerca di una impossibile sazietà. La sua voracità è quella delle figure mostruose dell’immaginario popolare, enfatizzazione della naturalità dei bisogni e delle funzioni viscerali, festose catarsi della grande attrippata comunitaria.
      L’utopia di Pulcinella è la stessa di Calandrino: quella terra di Bengodi  nella quale si legano le vigne con le salsicce: “ Ed eravi una montagna di parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niouna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più ne aveva”. Quel paese deve pur esserci da qualche parte, come c’è il paese di Cuccagna, “ dove la natura benigna usa vulcani per caldaie, fa montagne di formaggio, trasforma valanghe in allegri rotolii di tortelli e in grovigli di maccheroni” (Calice). In Pulcinella, nel suo sogno di mutarsi in maccherone (“Fa, gran Giove / ch’io deventa Maccherone”) si eternizza la memoria collettiva dell’ascesa dall’inferno dei mangiafoglie al paradiso dei mangiamaccheroni, “in cui ognuno avrebbe voluto dolcemente naufragare”. Il naufragio è lo spirito panico, il diventare tutt’uno, la mistica con-fusione.
      Se Pulcinella ha sempre fame, ha sempre desiderio d’amore, secondo quella “analogia fortissima che, ovunque nel mondo, il pensiero umano sembra stabilire tra l’atto della copulazione e l’atto del mangiare” ( Lévi-Strauss) mitizzando l’esperienza d’amore come possesso totale attraverso l’incorporazione (la prima coniugazione di cibo ed eros avviene libidicamente proprio nel latte materno). L’orgasmo culinario che trasforma l’impulso viscerale in un delirio dei vasi sanguigni, può valere come sostituzione compensativa del sesso negato, portando all’ entusiasmo (possessione divina) e all’estasi (uscita da sé). e l’atto del mangiare”. Ma anche il sesso può supplire all’assenza di cibo. L’epigrafe che Nino Calice pone a conclusione della sua storia alimentare è uno spiritualissimo lamento della zona del Vulture: “Teng’na fame, na secca e nu sunne / na ribulezza ca vac’ carenne / ma si avesse na femina attuorne / mi passasse la fame, la secca e lu sunne”. Da scolpire magari su una pezza di pecorino, se non sul bronzo.

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