Biblioteca tarantina
Schede a cura di Roberto Nistri
GIUSEPPE FRANCOBANDIERA, Dieci
storie ordinarie, Nuova Editrice Apulia,
1992.
(La festa del vecchio
ragazzo lucano, in "Quotidiano" del 3 giugno 1993)
L'esistenza,
scriveva Musil, è una corsa di piccoli puntini che s'inseguono e s'incalzano
sulla sottile striscia della vita per svanire, alla fine, in un'improvvisa e
imprevista buca .. E il tempo inghiotte avidamente interi pacchetti della
nostra esperienza, cancellando dalla lavagna della memoria volti e situazioni,
progetti mai realizzati ed eterne passioni. Ma non tutto svanisce. Purtroppo
rimane, arrogante e maleodorante, la scia fetida di tante malefatte e violenze.
Per fortuna rimane, più sottile ma più tenace, la parola dell'uomo buono.
Rimane l'opera di chi ha saputo, con cuore e intelligenza, amare gli uomini e
le cose. Rimane il sorriso di chi è riuscito ad arginare la marea montante
della volgarità e della barbarie con il culto della affabilità e delle buone
maniere. Giuseppe Francobandiera, il più amabile organizzatore culturale e
"maestro di cerimonie" della Taranto industriale, se n'è andato. Un
grande cantastorie del Sud è scomparso, ma, come il gatto di Alice nel paese
delle meraviglie, nell'aria ci ha lasciato il suo sorriso.
Negli anni
cinquanta Francobandiera aveva lasciato la sua Lucania dando inizio alI'
odissea di un picaro di vocazione, di un argonauta che non ha mai potuto
recidere quel misterioso cordone ombelicale che lo legava al suo mondo e alla
sua gente. Il suo diario di viaggio è quello di un canzonettista - fantasista -
giornalista e poi dirigente aziendale - operatore culturale - storico –
romanziere, che da Potenza a Roma, da Genova a Napoli, fino a Taranto, è
tornato al Sud sui passi della sua fuga. Questo viaggiatore "sudista e
vagomarxista per ragioni biologiche e di fede", quest'anima distesa fra le
montagne lucane e il mare greco, questo intellettuale laico che conservava
tutti gli umori e la pietas della
religiosità popolare e contadina, sapeva al meglio essere provinciale e
cosmopolita. Dilettante fra i dilettanti, paladino delle cose belle e delle
cose giuste, senza battersi il petto e senza vestire le penne del pavone,
Francobandiera è stato erede del migliore illuminismo meridionale, libertino e
libertario, ironico e pensoso, devoto alla memoria e alla speranza, fiero
combattente contro l' “altro Sud",
quello rapace e gaglioffo, lagnoso e bacchettone, rissoso e inconcludente.
Lo stile è
l'uomo. E inconfondibile era lo stile degli articoletti di Peppino, arguto
polemista che colpiva di fioretto il pressappochismo dei politici e le
stramberie dei pseudo-intellettuali. Mai contro qualcuno, sempre in difesa di
qualcosa, del decoro e della dignità di una terra dove lui non era nato, ma che
pure amava più di tanti tarantini: le battaglie in difesa della Città Vecchia,
del Mar Piccolo, dei beni culturali ... Attento cultore delle voci del
territorio e delI 'anima delle pietre, ha collaborato a due splendidi
cataloghi: 12 masserie del tarentino
(1979) e I segni nascosti di Taranto
vecchia (1981). Esperto del linguaggio televisivo, ha curato un
documentario sul centro storico di Taranto che ha vinto, a Barcellona, il primo
premio nell’ambito di un festival delle emittenti private organizzato dal
Consiglio d'Europa.
Ma l'immagine di
Francobandiera non era quella del ricercatore e dello studioso solitario. Per vent'anni,
in una vecchia masseria guadagnata alle ragioni del tempo libero/ liberato, è
stato il direttore artistico del Centro culturale dell'Ilva, coinvolgendo la
città in tanti programmi che è impossibile anche enumerare: stagioni teatrali e
rassegne cinematografiche di alto livello nazionale e internazionale, mostre
pittoriche di illustri maestri e di giovani scoperte, con cataloghi cui non
mancava mai la nota critica, sobria ma sempre puntuale, di Peppino, e la grande
invenzione dei "concerti sull'erba", degli spettacoli in piazza
Fontana e negli antichi palazzi della vecchia Taranto e delle serate musicali
sul battello in Mar Piccolo ... Grazie a lui, da Taranto sono passati tutti:
Gilbert Becaud e Juliette Greco, Gassman e Bene, De Simone e Lindsay Kernp ...
E in quelle
serate Peppino accendeva le torce, riempiva i calici e accoglieva uno per uno i
suoi ospiti al grande Simposio. Come la "maschera" cinematografica di
uno dei suoi racconti più belli, il grande sacerdote assisteva allo spettacolo e assisteva gli
spettatori. Li scortava ai loro posti come guidandoli all'iniziazione di un
Mistero, viveva all'unisono le loro emozioni fino alla catarsi finale. Poi con
quell'aria da Sik Sik, l'artefice
magico, guidava al dopo spettacolo e una parola di commiato - "Peppino,
che bella serata!" - bastava a renderlo felice, a fargli realizzare il suo
sogno da bambino della grande Festa, l'antico sogno comunista di una
riconciliazio ne con noi stessi e con gli altri, con la natura e con la memoria,
la conquista dello stare bene insieme, quelli di oggi e quelli di ieri. Oggi è
finita. E qualcuno ha detto che la fine di Peppino è stata istantanea come la
fine di uno spettacolo. Come un faro che si spegne. E nel buio scrosciano gli
applausi. Grazie, Peppino.
Ma se lo spettacolo vive e muore come un
fuoco d'artificio nella notte, la magia di Francobandiera farà sognare anche le
generazioni future, quanti non hanno avuto il privilegio di godere della sua
amicizia. Finché esisterà Taranto, si continueranno a leggere i saggi del
nostro amico sulla storia del costume agli inizi del secolo - La città al borgo (1983) - e durante il
fascismo - Taranto da una guerra all' altra (1986). La belle epoque, Mario Costa, Rodolfo
Valentino, Anna Fougez e mille microstorie in cui pure abita la Storia
maiuscola, hanno permesso a Francobandiera di proporci l'affresco di un' epoca
con la forza non dell'indagine sociologica ma della pietas poetica che accoglie e abbraccia i vivi e i morti, il
presente e il passato, e più il tempo passa e più passato abbiamo a cui fare
posto.
Ma questa
scienza-amore, che ci fa "sentire" chi siamo e il senso della nostra
vicenda, è la letteratura. E questa doveva essere la meta conclusiva della
vicenda umana, per altro verso così in/conchiusa per vocazione e per destino,
di Peppe Francobandiera. L'ultima stella del carro (1983) si presentava come il
non-romanzo di "quelli che arrivarono in anticipo o in ritardo sulla
Storia, perdendo molte coincidenze", un generazione troppo giovane per la
Resistenza e troppo vecchia per il Sessantotto. La scrittura riempiva le pagine
di una quasi sceneggiatura di un film animato da soldati americani e
metalmeccanici, sciantose e pescatori: una festa mobile che trasformava i
fantasmi evocati dalle intermittenze del cuore in un "mondo comune",
realizzando il desiderio del "vorrei avervi tutti qui". Il viaggio di
un "vecchio ragazzo lucano che si fabbricava gli zufoli con le canne, come
i pastori", il viaggio che proseguiva fra battaglie proletarie e amori
arrangiati verso una Taranto "sfarinata dallo scirocco", con i suoi
tramonti "sperperati da Creso" e il suo paradossale mixage di
supersviluppo e sottosviluppo. Il viaggio è consumo, la clessidra non si può
capovolgere, ma la "divinità misteriosa che lavora sul tempo perduto"
aiuta il cantastorie ad acciuffare per un lembo del vestito quel qualcuno o
qualcosa che tende a scivolare fuori dalla memoria, e rimetterlo nella
diligenza, per farlo galoppare ancora nella prateria.
E la fatale
carretta di Ombre rosse attraversa
anche le ultime Dieci storie ordinarie
(1992), una serie di "giornate particolari" alla Ettore Scola, che ci
fanno rivivere la nostra storia di questi cento anni di solitudine e di
comunanza, di molte amarezze e di non poche dolcezze. Mentre l'uomo del pianino
fa girare la manovella e, come bolle di sapone, escono le note di una vecchia
canzone, e mentre tre consumatori di caffè e di tempo, posizionati ad un
tavolino, ben piazzato sulla via grande, vegliano sui giorni del mondo e
interpretano i sospiri dei passanti, Francobandiera ci guida al piccolo trotto
lungo le strade dell'anima, fino al tramonto dell'Italsider. E ci racconta di
un campionario di 15.000 desaparecidos
metalmeccanici, cinquantenni prepensionati superflui per la fabbrica e per la
Storia, che si aggirano con il carrello della spesa nel nuovo Paradiso della
Classe operaia, fra le fascinose inutilità dell' Ipermercato.
Ma l'uomo
dell'utopia non si arrende, come nel racconto di quel tale che, nel giardino
della sua casa in collina, si era costruito una nave destinata ad approdare
all'isola di Nausica e a sfidare il canto delle sirene. Ma l'aspirante
navigatore falliva l'esame di patente e il vascello, che intanto aveva messo
radici ed era divenuto troppo ingombrante, finiva bruciato. Eppure dopo un poco
di tempo il mai rassegnato marinaio si poneva di nuovo a costruire la sua
Chimera.
L'ultimo
racconto, L'impalcatura, rimane il
vero testamento spirituale di Francobandiera. E' la storia di un ex
comunista-per-sempre, della sua fuga e del suo ritorno, seguendo l'eterna
stella cometa della speranza. Un esame di coscienza che si conclude con una
laica auto-assoluzione: "Non doveva mai scendere dall'impalcatura,
qualunque scenario prospettasse il futuro. Una impalcatura: era necessaria
perché permetteva una visione particolare delle cose ... L'uomo che si era
autoassolto davanti all'altare centrale spinse la porta della chiesa che cigolò
lungamente e si prese in faccia il sole che stava calando".
Sul fare della sera, il "vecchio ragazzo
lucano" ha scritto questa ultima pagina, si è autoassolto ed è andato ad
abitare la sua scrittura, per sempre. In quella diligenza che accoglie tutti
coloro che hanno fede in un mondo comune, ora l'amico Peppino ci indica la
strada e corre davanti a noi, verso una di quelle belle feste che si possono
sognare a Sud del mondo.