martedì 29 luglio 2014

Biblioteca tarantina: Giuseppe Francobandiera




Biblioteca tarantina

Schede a cura di Roberto Nistri


GIUSEPPE FRANCOBANDIERA, Dieci storie ordinarie, Nuova Editrice Apulia,  1992.

(La festa del vecchio ragazzo lucano, in "Quotidiano" del 3 giugno 1993)

      L'esistenza, scriveva Musil, è una corsa di piccoli puntini che s'inseguono e s'incalzano sulla sottile striscia della vita per svanire, alla fine, in un'improvvisa e imprevista buca .. E il tempo inghiotte avidamente interi pacchetti della nostra esperienza, cancellando dalla lavagna della memoria volti e situazioni, progetti mai realizzati ed eterne passioni. Ma non tutto svanisce. Purtroppo rimane, arrogante e maleodorante, la scia fetida di tante malefatte e violenze. Per fortuna rimane, più sottile ma più tenace, la parola dell'uomo buono. Rimane l'opera di chi ha saputo, con cuore e intelligenza, amare gli uomini e le cose. Rimane il sorriso di chi è riuscito ad arginare la marea montante della volgarità e della barbarie con il culto della affabilità e delle buone maniere. Giuseppe Francobandiera, il più amabile organizzatore culturale e "maestro di cerimonie" della Taranto industriale, se n'è andato. Un grande cantastorie del Sud è scomparso, ma, come il gatto di Alice nel paese delle meraviglie, nell'aria ci ha lasciato il suo sorriso.
      Negli anni cinquanta Francobandiera aveva lasciato la sua Lucania dando inizio alI' odissea di un picaro di vocazione, di un argonauta che non ha mai potuto recidere quel misterioso cordone ombelicale che lo legava al suo mondo e alla sua gente. Il suo diario di viaggio è quello di un canzonettista - fantasista - giornalista e poi dirigente aziendale - operatore culturale - storico – romanziere, che da Potenza a Roma, da Genova a Napoli, fino a Taranto, è tornato al Sud sui passi della sua fuga. Questo viaggiatore "sudista e vagomarxista per ragioni biologiche e di fede", quest'anima distesa fra le montagne lucane e il mare greco, questo intellettuale laico che conservava tutti gli umori e la pietas della religiosità popolare e contadina, sapeva al meglio essere provinciale e cosmopolita. Dilettante fra i dilettanti, paladino delle cose belle e delle cose giuste, senza battersi il petto e senza vestire le penne del pavone, Francobandiera è stato erede del migliore illuminismo meridionale, libertino e libertario, ironico e pensoso, devoto alla memoria e alla speranza, fiero combattente contro l'  “altro Sud", quello rapace e gaglioffo, lagnoso e bacchettone, rissoso e inconcludente.
      Lo stile è l'uomo. E inconfondibile era lo stile degli articoletti di Peppino, arguto polemista che colpiva di fioretto il pressappochismo dei politici e le stramberie dei pseudo-intellettuali. Mai contro qualcuno, sempre in difesa di qualcosa, del decoro e della dignità di una terra dove lui non era nato, ma che pure amava più di tanti tarantini: le battaglie in difesa della Città Vecchia, del Mar Piccolo, dei beni culturali ... Attento cultore delle voci del territorio e delI 'anima delle pietre, ha collaborato a due splendidi cataloghi: 12 masserie del tarentino (1979) e I segni nascosti di Taranto vecchia (1981). Esperto del linguaggio televisivo, ha curato un documentario sul centro storico di Taranto che ha vinto, a Barcellona, il primo premio nell’ambito di un festival delle emittenti private organizzato dal Consiglio d'Europa.
      Ma l'immagine di Francobandiera non era quella del ricercatore e dello studioso solitario. Per vent'anni, in una vecchia masseria guadagnata alle ragioni del tempo libero/ liberato, è stato il direttore artistico del Centro culturale dell'Ilva, coinvolgendo la città in tanti programmi che è impossibile anche enumerare: stagioni teatrali e rassegne cinematografiche di alto livello nazionale e internazionale, mostre pittoriche di illustri maestri e di giovani scoperte, con cataloghi cui non mancava mai la nota critica, sobria ma sempre puntuale, di Peppino, e la grande invenzione dei "concerti sull'erba", degli spettacoli in piazza Fontana e negli antichi palazzi della vecchia Taranto e delle serate musicali sul battello in Mar Piccolo ... Grazie a lui, da Taranto sono passati tutti: Gilbert Becaud e Juliette Greco, Gassman e Bene, De Simone e Lindsay Kernp ...
      E in quelle serate Peppino accendeva le torce, riempiva i calici e accoglieva uno per uno i suoi ospiti al grande Simposio. Come la "maschera" cinematografica di uno dei suoi racconti più belli, il grande sacerdote  assisteva allo spettacolo e assisteva gli spettatori. Li scortava ai loro posti come guidandoli all'iniziazione di un Mistero, viveva all'unisono le loro emozioni fino alla catarsi finale. Poi con quell'aria da Sik Sik, l'artefice magico, guidava al dopo spettacolo e una parola di commiato - "Peppino, che bella serata!" - bastava a renderlo felice, a fargli realizzare il suo sogno da bambino della grande Festa, l'antico sogno comunista di una riconciliazio ne con noi stessi e con gli altri, con la natura e con la memoria, la conquista dello stare bene insieme, quelli di oggi e quelli di ieri. Oggi è finita. E qualcuno ha detto che la fine di Peppino è stata istantanea come la fine di uno spettacolo. Come un faro che si spegne. E nel buio scrosciano gli applausi. Grazie, Peppino.
      Ma se lo spettacolo vive e muore come un fuoco d'artificio nella notte, la magia di Francobandiera farà sognare anche le generazioni future, quanti non hanno avuto il privilegio di godere della sua amicizia. Finché esisterà Taranto, si continueranno a leggere i saggi del nostro amico sulla storia del costume agli inizi del secolo - La città al borgo (1983) - e durante il fascismo - Taranto da una guerra all' altra (1986). La belle epoque, Mario Costa, Rodolfo Valentino, Anna Fougez e mille microstorie in cui pure abita la Storia maiuscola, hanno permesso a Francobandiera di proporci l'affresco di un' epoca con la forza non dell'indagine sociologica ma della pietas poetica che accoglie e abbraccia i vivi e i morti, il presente e il passato, e più il tempo passa e più passato abbiamo a cui fare posto.
      Ma questa scienza-amore, che ci fa "sentire" chi siamo e il senso della nostra vicenda, è la letteratura. E questa doveva essere la meta conclusiva della vicenda umana, per altro verso così in/conchiusa per vocazione e per destino, di Peppe Francobandiera. L'ultima stella del carro (1983) si presentava come il non-romanzo di "quelli che arrivarono in anticipo o in ritardo sulla Storia, perdendo molte coincidenze", un generazione troppo giovane per la Resistenza e troppo vecchia per il Sessantotto. La scrittura riempiva le pagine di una quasi sceneggiatura di un film animato da soldati americani e metalmeccanici, sciantose e pescatori: una festa mobile che trasformava i fantasmi evocati dalle intermittenze del cuore in un "mondo comune", realizzando il desiderio del "vorrei avervi tutti qui". Il viaggio di un "vecchio ragazzo lucano che si fabbricava gli zufoli con le canne, come i pastori", il viaggio che proseguiva fra battaglie proletarie e amori arrangiati verso una Taranto "sfarinata dallo scirocco", con i suoi tramonti "sperperati da Creso" e il suo paradossale mixage di supersviluppo e sottosviluppo. Il viaggio è consumo, la clessidra non si può capovolgere, ma la "divinità misteriosa che lavora sul tempo perduto" aiuta il cantastorie ad acciuffare per un lembo del vestito quel qualcuno o qualcosa che tende a scivolare fuori dalla memoria, e rimetterlo nella diligenza, per farlo galoppare ancora nella prateria.
      E la fatale carretta di Ombre rosse attraversa anche le ultime Dieci storie ordinarie (1992), una serie di "giornate particolari" alla Ettore Scola, che ci fanno rivivere la nostra storia di questi cento anni di solitudine e di comunanza, di molte amarezze e di non poche dolcezze. Mentre l'uomo del pianino fa girare la manovella e, come bolle di sapone, escono le note di una vecchia canzone, e mentre tre consumatori di caffè e di tempo, posizionati ad un tavolino, ben piazzato sulla via grande, vegliano sui giorni del mondo e interpretano i sospiri dei passanti, Francobandiera ci guida al piccolo trotto lungo le strade dell'anima, fino al tramonto dell'Italsider. E ci racconta di un campionario di 15.000 desaparecidos metalmeccanici, cinquantenni prepensionati superflui per la fabbrica e per la Storia, che si aggirano con il carrello della spesa nel nuovo Paradiso della Classe operaia, fra le fascinose inutilità dell' Ipermercato.
      Ma l'uomo dell'utopia non si arrende, come nel racconto di quel tale che, nel giardino della sua casa in collina, si era costruito una nave destinata ad approdare all'isola di Nausica e a sfidare il canto delle sirene. Ma l'aspirante navigatore falliva l'esame di patente e il vascello, che intanto aveva messo radici ed era divenuto troppo ingombrante, finiva bruciato. Eppure dopo un poco di tempo il mai rassegnato marinaio si poneva di nuovo a costruire la sua Chimera.
       L'ultimo racconto, L'impalcatura, rimane il vero testamento spirituale di Francobandiera. E' la storia di un ex comunista-per-sempre, della sua fuga e del suo ritorno, seguendo l'eterna stella cometa della speranza. Un esame di coscienza che si conclude con una laica auto-assoluzione: "Non doveva mai scendere dall'impalcatura, qualunque scenario prospettasse il futuro. Una impalcatura: era necessaria perché permetteva una visione particolare delle cose ... L'uomo che si era autoassolto davanti all'altare centrale spinse la porta della chiesa che cigolò lungamente e si prese in faccia il sole che stava calando".
Sul fare della sera, il "vecchio ragazzo lucano" ha scritto questa ultima pagina, si è autoassolto ed è andato ad abitare la sua scrittura, per sempre. In quella diligenza che accoglie tutti coloro che hanno fede in un mondo comune, ora l'amico Peppino ci indica la strada e corre davanti a noi, verso una di quelle belle feste che si possono sognare a Sud del mondo.

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