lunedì 28 luglio 2014

Biblioteca tarantina: Giancarlo De Cataldo



Biblioteca tarantina


Schede a cura di Roberto Nistri


GIANCARLO DE CATALDO, Terroni, Theoria, Milano 1995.

      Conosciamo Giancarlo De Cataldo dai primi anni Settanta: giovanissimo studente, era frequentatore di tutti i cineforum e di tutte le assemblee che animavano la Taranto di allora, la città operaia e democratica che guardava con fiducia al futuro e che ancora non aveva smarrito il bene dell' intelletto. Ce lo ricordiamo quando volle impegnarsi, nella primavera del' 75, nella grande battaglia civile per il referendum abrogativo delle leggi che impedivano l'interruzione della gravidanza: in occasione di una manifesta¬zione di solidarietà con la radicale Adele Faccio, reduce dalle patrie galere per aver difeso l'autodeterminazione della donna, s'intristì perché la sua offerta di aiuto per i manifesti e la propaganda era stata ricusata dalle femministe più intransigenti. Poi se ne andò a Roma per gli studi universitari e venne il movimento del '77 e seguirono tante altre cose: le battute che ci siamo scambiati nei nostri incontri posso pensarle come un commento, abbastanza puntuale, agli ultimi venti anni di storia italiana. Nei suoi ultimi ritorni a Taranto, nel prendere atto del tragico urbicidio perpetrato fra i due mari, mi sembrava echeggiare le parole di Alberto Savinio dopo la prima guerra mondiale: "Ho vinto la guerra: sono rimasto vivo". E anche nel suo ultimo libro, Terroni, sembra circolare una frase non scritta: "lo l'ho scapolata. Ne sono venuto fuori".
      Certamente il nostro Giancarlo se l'è cavata al meglio. Facendo leva solo sulla sua intelligenza, senza intrupparsi in nessuna cordata della mala politica, girando alla larga dal sottobosco dei portaborse levantini che affollano i ministeri romani. Senza mai deflettere dai suoi principi morali e politici, ha onorato la sua città e il suo geniaccio meridionale esercitando valorosamente il ruolo di magistrato e facendosi un nome nel mondo delle lettere, condensando la sua esperienza di giudice in Minima criminalia (Manifestolibri 1992) e pubblicando due fortunati romanzi gialli, Nero come il Cuore (Interno Giallo 1989; ne è stato tratto anche un film) e Contessa (Liber 1994). 
      Questo Terroni (Theoria 1995) è forse il suo libro più bello e più suo, probabilmente quello che più gli sta a cuore, sicuramente quello destinato a suscitare le reazioni più contrastanti negli interlocutori più diretti: i tarantini residenti e, soprattutto, resistenti. In effetti, sono abbastanza prevedibili le risposte alle domande che l'autore si pone: "È anche colpa del nostro abbandono se la città va alla deriva? Siamo andati a studiare ali 'università e non siamo più tornati. Per quelli che sono rimasti proviamo
 un po' di rammarico e un po' di sollievo: per lo scampato pericolo, se non altro. E loro, loro che cosa provano per noi, per i giovani borghesi emigrati che spendono il proprio soldo di vita con metà coscienza in laguna e metà nel mare aperto?". Elementare, Watson! "Loro" vogliono un bene dell'anima ai tanti figli dello Jonio sparsi per l'Italia, eppure non potranno mai perdonare le giustificatissime fughe.
Per questo è stata affollata e calorosa la presentazione cittadina del libro.
     Per questo non sono mancate le pizzicate: "Giancarlo gioca a fare il terrone fra i terroni ... Scrive sui terroni. Accidenti, il terrone si è fatto giudice!". Giancarlo conosce bene i suoi vecchi amici: non si tratta (salvo eccezioni) di invidia, ma di orgoglio, rifiuto di farsi oggettivare nella scrittura del fuggiasco. Che ha fatto bene a fuggire. ma non può chiedere comprensione per la sua lacerazione fra "laguna" e "mare aperto": questo è lo stigma di ogni tarantino, da sempre e per sempre diviso fra un mar piccolo e un mar grande. Sulle nostre sponde due volte il mare e la terra si toccano nella costa e nel confine: enfatizzazione della duplicità propria del Mediterraneo, luogo sorgivo di un pensiero capace di contenere la tragicità degli opposti, i dissoi logoi, le contraddizioni più acute, senza mai giungere (per fortuna) ad una quietistica e cimiteriale reductio ad unum. Andare e venire, come le onde: questa è la sorte di tutti noi, caro Giancarlo. Noi che ogni giorno vorremmo ritornare a casa, alla Taranto del cuore, e sappiamo che è impossibile. Per questo possiamo comprendere il ritorno a casa dello scrittore (in fondo la scrittura è sempre un tornare a casa).
      Il ritorno al padre professore che un giorno gli suggerì: "Vattene via, che ci stai a fare qui?". Quel padre introvabile, che non ha fatto a tempo a leggere il libro a lui dedicato. Un libro che è un ritorno alla vecchia "isola", dalla quale si è fuggiti come da una prigione ma il cui fantasma non può abbandonare Robinson: "Ne sognavo tutta la notte, e la mia fantasia vi correva tutto il giorno; sovrastava tutti i miei pensieri ... niente poteva togliermela dalla testa". Si ritorna sempre ai primi amori, diceva il signor Freud. Lo scrittore scrive cartoline agli assenti. Chiama tutti all'appello perché di tutti sente la mancanza. E tutti vuoI mettere nel sacco del suo libro.
      Nel sacco ci troviamo Carunchio Domenico, epitome dei terruncielli curti e niri, "magrissimo e stortignaccolo, la testina coperta da una stopposa lanugine sporchetta, i denti precocemente guasti": nella vecchia scuola elementare XXV luglio, siede "sul fondo della classe, a rimarcare, anche sul piano della divisione del territorio, la sua diversità". Puzza di acido fenico e parla "un gergaccio di vicolo in cui si affastellano fonemi incomprensibili, scanditi dalla greve intonazione gutturale del tarentino". Carunchio, The dark side della terra del sole: il buon ragazzo Giancarlo gli offre i doppioni delle sue figurine di calciatori e un inappetibile panino con l'uvetta e l'ombra lo ricambia mostrandogli il suo coltellino a scatto. Dopo che una squadraccia di pasdaran in pelliccia (ovvero Dame di Carità del Patronato) mortifica pubblicamente il "povero" sotto un chilo di pasta, un maglione e un paio di scarpe troppo larghe, questo essere (peggiore del quale nulla si può pensare) esce di scena, lasciando dietro di sé una scia di tristezza che è il filo nero di questo ciclo dei vinti.
      È come se quest' ombra si distendesse sui comprimari "positivi" della storia: il fine politico-intellettuale che si gode la pensione in volontario esilio fra i trulli, il generoso "olivettiano'' partito per il lungo viaggio senza ritorno dopo aver per decenni inseguito l'utopia di un' impossibile coagulo di cervelli intorno alla "cultura dell'impresa", e poi l'indomito sindacalista, l'artista talentoso e misconosciuto ... Giovani o anziani, tutti i guerrieri solitari sembrano votati alla dissolvenza. Sospettando l'implacabile giudizio della Storia, mentre combattono sembrano chiedersi: "E se fossimo tutti fantasmi, già ora?". E' destinato a durare solo colui che non si ribella alla tirannia della necessità: solo Carunchio, il grado zero della speranza, sembra eterno.
      Fisiologicamente vocazionati alla catastrofe sono anche i grandi "eroi" negativi, i campioni del Male, come Antonio Modeo detto "il messicano": l'uomo del destino per la mafia tarantina, formatosi "politicamente" nei vicoli della città vecchia, in quella strabiliante organizzazione che fu Lotta Continua.  Dopo il "riflusso" prese ad arruolare il sottoproletariato come truppa della delinquenza organizzata, costruendo con notevole intelligenza imprenditoriale una joint-venture criminale. E' finito impallinato, dopo aver scatenato una guerra di sterminio tra clan contrapposti, "una mattanza degna della Chicago di AI Capone". E un'ombra fosca aleggia attorno all'ultimo (in ordine di tempo) trionfatore di questa Taranto "Poisonville, provincia e metafora d'Italia, Poisoncountry": il geometra telepredicatore, nello sconcerto universale divenuto sindaco "leghista del sud" di una città ormai spappolata. Il capitolo su questo inaudito personaggio, che sembra uscito dritto dritto da un noir di Dashiell Hammett, funge da cerniera nel racconto di una città tutt'altro che marginale e sottosviluppata: il "Siderurgico" è stato l'emblema della più industrializzata provincia del Sud, con un' area seconda per grandezza alla sola Mirafiori di Torino. Ma tutto tramonta.
       Rimane solo il patetico "italiano" lombardeggiante delle signore-bene tarantine, il cui snobismo tormenta le orecchie dello scrittore durante il ritorno a casa  sull' autobus della "Marozzi": la sudditanza culturale è incorreggibile, "il riconoscimento della superiorità dell'altro è la fase terminale del classico masochismo meridionale". A questi sudisti impallati rimane solo l'improbabile speranza di essere ancora una volta conquistati. Questa "attesa invocata dell'invasione" diventa sublime superiorità meridiana, nel personale teatro della memoria di De Cataldo, solo in quel grande eroe assente che è il Carmelo Bene di Nostra Signora dei Turchi, "nelle cui fattezze si sublimano i tratti più nobili delle razze predatrici e di quelle predate, intessuti di astuta concretezza e melanconica dissipazione, inclini all'azione guerriera come alla meditazione e al fatalismo".
      Questo è il meglio, questo è tutto: un'assenza. Così si conclude questo bello e tragico ritorno a una casa che non c'è: "II Sud, se esiste è un' isola. Il Sud bisogna estremizzarlo, isolarlo dal tempo e dallo spazio, condannarlo all'eternità, espellerlo per sempre dalla maledetta Storia: il Sud, per stanarlo, bisogna fare macchina indietro. Indietro tutta, verso il progresso. Che strano paradosso! Per giustificare la sua fuga da casa, lo scrittore finisce con l'espellere la casa dalla Storia, involontariamente arrendendosi all'esistente, al vincitore. Niente equivale un lottatore che rinuncia e niente è comparabile all'estasi della capitolazione, diceva Cioran, E se il terrone non volesse ancora arrendersi?
       Se questa Apulia ("senza porte") riuscisse a non farsi chiudere da quelli che partono, quelli che restano, quelli che vanno da qualche parte, quelli che vanno da nessuna parte? Se il Sud messo in croce per la sua "mancanza" dal visitatore e del conquistatore, dallo stanziale e dal nomade, riuscisse con un gesto a testimoniare il suo "di più", il suo venir "prima" dello scrittore, prima di tutto il resto? Costringendo lo scrittore e tutti gli altri a fare loro un passo indietro, e ritornare alle strade non percorse, alle biforcazioni che sono state eluse, alle storie possibili che non sono state esplorate? Se provassimo audacemente a ribaltare il punto di vista? Non si tratta più di "pensare il sud alla luce della modernità, ma al contrario la modernità alla luce del sud", suggerisce Franco Cassano . Questa è la scommessa enorme: tornare a sollevare il problema dei sud del mondo, ancorando le derive violente della modernità a quel "segreto della Misura" che nei suoi mobili confini il Mediterraneo racchiude. E' solo una suggestione per riprendere il filo di una discussione interminabile, fra noi terroni. Per poter ritornare sulle sponde dello Jonio e dire: "E' come un tempo, s'est le rive gauche, abbiamo finalmente trovato un luogo nel quale c'è tutto".

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