Schede a cura di Roberto Nistri
GIANCARLO DE CATALDO, Terroni,
Theoria, Milano 1995.
Conosciamo
Giancarlo De Cataldo dai primi anni Settanta: giovanissimo studente, era
frequentatore di tutti i cineforum e di tutte le assemblee che animavano la
Taranto di allora, la città operaia e democratica che guardava con fiducia al
futuro e che ancora non aveva smarrito il bene dell' intelletto. Ce lo
ricordiamo quando volle impegnarsi, nella primavera del' 75, nella grande
battaglia civile per il referendum abrogativo delle leggi che impedivano
l'interruzione della gravidanza: in occasione di una manifesta¬zione di
solidarietà con la radicale Adele Faccio, reduce dalle patrie galere per aver
difeso l'autodeterminazione della donna, s'intristì perché la sua offerta di
aiuto per i manifesti e la propaganda era stata ricusata dalle femministe più
intransigenti. Poi se ne andò a Roma per gli studi universitari e venne il
movimento del '77 e seguirono tante altre cose: le battute che ci siamo
scambiati nei nostri incontri posso pensarle come un commento, abbastanza
puntuale, agli ultimi venti anni di storia italiana. Nei suoi ultimi ritorni a
Taranto, nel prendere atto del tragico urbicidio perpetrato fra i due mari, mi
sembrava echeggiare le parole di Alberto Savinio dopo la prima guerra mondiale:
"Ho vinto la guerra: sono rimasto vivo". E anche nel suo ultimo
libro, Terroni, sembra circolare una
frase non scritta: "lo l'ho scapolata. Ne sono venuto fuori".
Certamente il
nostro Giancarlo se l'è cavata al meglio. Facendo leva solo sulla sua
intelligenza, senza intrupparsi in nessuna cordata della mala politica, girando
alla larga dal sottobosco dei portaborse levantini che affollano i ministeri
romani. Senza mai deflettere dai suoi principi morali e politici, ha onorato la
sua città e il suo geniaccio meridionale esercitando valorosamente il ruolo di
magistrato e facendosi un nome nel mondo delle lettere, condensando la sua
esperienza di giudice in Minima criminalia (Manifestolibri 1992) e
pubblicando due fortunati romanzi gialli, Nero come il Cuore (Interno Giallo
1989; ne è stato tratto anche un film) e Contessa
(Liber 1994).
Questo Terroni (Theoria 1995) è forse il suo
libro più bello e più suo, probabilmente quello che più gli sta a cuore,
sicuramente quello destinato a suscitare le reazioni più contrastanti negli
interlocutori più diretti: i tarantini residenti e, soprattutto, resistenti. In
effetti, sono abbastanza prevedibili le risposte alle domande che l'autore si
pone: "È anche colpa del nostro abbandono se la città va alla deriva?
Siamo andati a studiare ali 'università e non siamo più tornati. Per quelli che
sono rimasti proviamo
un po' di rammarico e
un po' di sollievo: per lo scampato pericolo, se non altro. E loro, loro che
cosa provano per noi, per i giovani borghesi emigrati che spendono il proprio
soldo di vita con metà coscienza in laguna e metà nel mare aperto?".
Elementare, Watson! "Loro" vogliono un bene dell'anima ai tanti figli
dello Jonio sparsi per l'Italia, eppure non potranno mai perdonare le
giustificatissime fughe.
Per questo è stata affollata e calorosa la presentazione
cittadina del libro.
Per questo non
sono mancate le pizzicate: "Giancarlo gioca a fare il terrone fra i
terroni ... Scrive sui terroni. Accidenti, il terrone si è fatto
giudice!". Giancarlo conosce bene i suoi vecchi amici: non si tratta
(salvo eccezioni) di invidia, ma di orgoglio, rifiuto di farsi oggettivare
nella scrittura del fuggiasco. Che ha fatto bene a fuggire. ma non può chiedere
comprensione per la sua lacerazione fra "laguna" e "mare
aperto": questo è lo stigma di ogni tarantino, da sempre e per sempre
diviso fra un mar piccolo e un mar grande. Sulle nostre sponde due volte il
mare e la terra si toccano nella costa e nel confine: enfatizzazione della
duplicità propria del Mediterraneo, luogo sorgivo di un pensiero capace di
contenere la tragicità degli opposti, i dissoi
logoi, le contraddizioni più acute, senza mai giungere (per fortuna) ad una
quietistica e cimiteriale reductio ad
unum. Andare e venire, come le onde: questa è la sorte di tutti noi, caro
Giancarlo. Noi che ogni giorno vorremmo ritornare a casa, alla Taranto del
cuore, e sappiamo che è impossibile. Per questo possiamo comprendere il ritorno
a casa dello scrittore (in fondo la scrittura è sempre un tornare a casa).
Il ritorno al
padre professore che un giorno gli suggerì: "Vattene via, che ci stai a
fare qui?". Quel padre introvabile, che non ha fatto a tempo a leggere il
libro a lui dedicato. Un libro che è un ritorno alla vecchia "isola",
dalla quale si è fuggiti come da una prigione ma il cui fantasma non può
abbandonare Robinson: "Ne sognavo tutta la notte, e la mia fantasia vi
correva tutto il giorno; sovrastava tutti i miei pensieri ... niente poteva
togliermela dalla testa". Si ritorna sempre ai primi amori, diceva il
signor Freud. Lo scrittore scrive cartoline agli assenti. Chiama tutti
all'appello perché di tutti sente la mancanza. E tutti vuoI mettere nel sacco
del suo libro.
Nel sacco ci
troviamo Carunchio Domenico, epitome dei terruncielli
curti e niri, "magrissimo e
stortignaccolo, la testina coperta da una stopposa lanugine sporchetta, i denti
precocemente guasti": nella vecchia scuola elementare XXV luglio, siede
"sul fondo della classe, a rimarcare, anche sul piano della divisione del
territorio, la sua diversità". Puzza di acido fenico e parla "un
gergaccio di vicolo in cui si affastellano fonemi incomprensibili, scanditi
dalla greve intonazione gutturale del tarentino". Carunchio, The dark side della terra del sole: il
buon ragazzo Giancarlo gli offre i doppioni delle sue figurine di calciatori e
un inappetibile panino con l'uvetta e l'ombra lo ricambia mostrandogli il suo
coltellino a scatto. Dopo che una squadraccia di pasdaran in pelliccia (ovvero
Dame di Carità del Patronato) mortifica pubblicamente il "povero"
sotto un chilo di pasta, un maglione e un paio di scarpe troppo larghe, questo
essere (peggiore del quale nulla si può pensare) esce di scena, lasciando
dietro di sé una scia di tristezza che è il filo nero di questo ciclo dei
vinti.
È come se quest'
ombra si distendesse sui comprimari "positivi" della storia: il fine
politico-intellettuale che si gode la pensione in volontario esilio fra i
trulli, il generoso "olivettiano'' partito per il lungo viaggio senza
ritorno dopo aver per decenni inseguito l'utopia di un' impossibile coagulo di
cervelli intorno alla "cultura dell'impresa", e poi l'indomito
sindacalista, l'artista talentoso e misconosciuto ... Giovani o anziani, tutti
i guerrieri solitari sembrano votati alla dissolvenza. Sospettando
l'implacabile giudizio della Storia, mentre combattono sembrano chiedersi:
"E se fossimo tutti fantasmi, già ora?". E' destinato a durare solo
colui che non si ribella alla tirannia della necessità: solo Carunchio, il
grado zero della speranza, sembra eterno.
Fisiologicamente
vocazionati alla catastrofe sono anche i grandi "eroi" negativi, i
campioni del Male, come Antonio Modeo detto "il messicano": l'uomo
del destino per la mafia tarantina, formatosi "politicamente" nei
vicoli della città vecchia, in quella strabiliante organizzazione che fu Lotta
Continua. Dopo il "riflusso"
prese ad arruolare il sottoproletariato come truppa della delinquenza
organizzata, costruendo con notevole intelligenza imprenditoriale una joint-venture criminale. E' finito
impallinato, dopo aver scatenato una guerra di sterminio tra clan contrapposti,
"una mattanza degna della Chicago di AI Capone". E un'ombra fosca
aleggia attorno all'ultimo (in ordine di tempo) trionfatore di questa Taranto
"Poisonville, provincia e metafora d'Italia, Poisoncountry": il
geometra telepredicatore, nello sconcerto universale divenuto sindaco
"leghista del sud" di una città ormai spappolata. Il capitolo su
questo inaudito personaggio, che sembra uscito dritto dritto da un noir di Dashiell Hammett, funge da
cerniera nel racconto di una città tutt'altro che marginale e sottosviluppata:
il "Siderurgico" è stato l'emblema della più industrializzata
provincia del Sud, con un' area seconda per grandezza alla sola Mirafiori di
Torino. Ma tutto tramonta.
Rimane solo il
patetico "italiano" lombardeggiante delle signore-bene tarantine, il
cui snobismo tormenta le orecchie dello scrittore durante il ritorno a
casa sull' autobus della
"Marozzi": la sudditanza culturale è incorreggibile, "il
riconoscimento della superiorità dell'altro è la fase terminale del classico
masochismo meridionale". A questi sudisti impallati rimane solo l'improbabile
speranza di essere ancora una volta conquistati. Questa "attesa invocata
dell'invasione" diventa sublime superiorità meridiana, nel personale
teatro della memoria di De Cataldo, solo in quel grande eroe assente che è il
Carmelo Bene di Nostra Signora dei Turchi,
"nelle cui fattezze si sublimano i tratti più nobili delle razze
predatrici e di quelle predate, intessuti di astuta concretezza e melanconica
dissipazione, inclini all'azione guerriera come alla meditazione e al
fatalismo".
Questo è il
meglio, questo è tutto: un'assenza. Così si conclude questo bello e tragico
ritorno a una casa che non c'è: "II Sud, se esiste è un' isola. Il Sud
bisogna estremizzarlo, isolarlo dal tempo e dallo spazio, condannarlo
all'eternità, espellerlo per sempre dalla maledetta Storia: il Sud, per
stanarlo, bisogna fare macchina indietro. Indietro tutta, verso il progresso.
Che strano paradosso! Per giustificare la sua fuga da casa, lo scrittore
finisce con l'espellere la casa dalla Storia, involontariamente arrendendosi
all'esistente, al vincitore. Niente equivale un lottatore che rinuncia e niente
è comparabile all'estasi della capitolazione, diceva Cioran, E se il terrone
non volesse ancora arrendersi?
Se
questa Apulia ("senza porte") riuscisse a non farsi chiudere da
quelli che partono, quelli che restano, quelli che vanno da qualche parte,
quelli che vanno da nessuna parte? Se il Sud messo in croce per la sua
"mancanza" dal visitatore e del conquistatore, dallo stanziale e dal
nomade, riuscisse con un gesto a testimoniare il suo "di più", il suo
venir "prima" dello scrittore, prima di tutto il resto? Costringendo
lo scrittore e tutti gli altri a fare loro un passo indietro, e ritornare alle
strade non percorse, alle biforcazioni che sono state eluse, alle storie
possibili che non sono state esplorate? Se provassimo audacemente a ribaltare
il punto di vista? Non si tratta più di "pensare il sud alla luce della
modernità, ma al contrario la modernità alla luce del sud", suggerisce
Franco Cassano . Questa è la scommessa enorme: tornare a sollevare il problema
dei sud del mondo, ancorando le derive violente della modernità a quel
"segreto della Misura" che nei suoi mobili confini il Mediterraneo
racchiude. E' solo una suggestione per riprendere il filo di una discussione
interminabile, fra noi terroni. Per poter ritornare sulle sponde dello Jonio e
dire: "E' come un tempo, s'est le
rive gauche, abbiamo finalmente trovato un luogo nel quale c'è tutto".
Nessun commento:
Posta un commento