Schede a cura di Roberto Nistri
VITO FORLEO, Poemetti
municipali (a cura di Aldo Perrone), Ed. del "Gruppo
Taranto", 1984.
(Due mari in un
bicchiere, in "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 7 maggio 1984)
"Uno di
questi splendidi pomeriggi di febbraio, mi è accaduto di sostare alla ringhiera
del Canale, dalla parte che domina in pieno la città vecchia. Nella controluce
dell'imminente tramonto, il grigio paesaggio di pietra prendeva non so quale
stupore di sogno. Me la sentivo, la città vecchia, farsi tutta mia, quasi
ricevessi un premio a cui fossi predestinato": sostando sull'angolo destro
del Corso ai Due Mari, Vito Forleo si sentiva nell'ombelico dell'universo.
S'immergeva nella sua Taranto, percependo tutte le vibrazioni più antiche e più
sotterranee di una città impastata di storia e di acqua salata.
Da quell'angolino, a distanza di ottanta anni dalla sua
opera prima I giorni di Diogene Saturnino,
cinquantacinque dopo il suo capolavoro Taranto
dove la trovo, a venti anni dalla morte, continua ancora a giungerci la
voce ironica e garbata di "don" Vito con la pubblicazione dei Poemetti municipali, una raccolta di
scritti pubblicati durante gli ultimi anni del fascismo, un piccolo gioiello
editoriale (arricchito da una preziosa litografia di Nicola Carrino) dovuto
alla competenza e all' amorosa cura di Aldo Perrone e del "Gruppo
Taranto".
Il timido e
solitario Forleo, borgesiana figura di erudito bibliotecario della
"Acclavio" e punto di riferimento per la cultura tarantina durante
tutta la prima metà del secolo, torna in punta di piedi a raccontare le sue
"storie" con il garbo e la tenerezza del grande dotto foderato da
artista. Lui, che distillava parsimoniosamente la sua scrittura, con pause
addirittura ventennali, incurante dei frenetici ritmi produttivi della
grafomania locale e del maniacale culto del rumore e del chiacchiericcio,
tipici della retorica basso provinciale.
Questi Poemetti mostrano che Forleo è riuscito
a non farsi catturare anche negli anni più duri, quando Taranto "autentica
città fascista" era e si sentiva una perla del regime, e l'intellettuale
di prestigio (a parte il sottobosco dei plaudenti per vocazione) era sottoposto
a mil1e pressioni purché tirasse fuori qualche ditirambo in onore del Fascio. E
Forleo niente. Schivo e sorridente, concluse il suo lungo viaggio attraverso il
fascismo, dribblando tutti i ricatti e tutte le lusinghe, senza partorire
neanche il più piccolo degli inni al duce, combattendo la sua personale
"resistenza" trincerato in quella Biblioteca che era la sua
roccaforte, inattaccabile da gerarchi e gerarchetti.
E mentre il
piccone fascista si abbatteva con becera prepotenza su Taranto vecchia, mentre
le trombe annunciavano i destini imperiali di una Taranto "più bella che
pria", Forleo scriveva di quando "per i dedalei quartieri, avevo
perduto ore e ore a festeggiare un terrazzino, a ritrovare un arco, a
incantarmi di un cortile, quando m'ero fatto una tragedia a temere che il
piccone frettoloso non avesse dato tempo all'ultimo rudere del muro civico di
morire con l'onore di una fotografia". E' questa la sua testimonianza, la
passione per il tempo, l'amore per una terra della quale si conoscono tutti i
profumi e tutte le rughe, un sentimento cantato con voce lieve, una voce che
continua però a farsi ascoltare anche quando dal campo di battaglia sono
scomparsi cavalieri e re, gerarchi e trombettieri del duce.
Con mano felice
Aldo Perrone ha ricostruito un itinerario culturale e ha fornito una proposta
di lettura seria e provocatoria, che potrebbe sollecitare un dibattito non da
poco sulla cultura meridionale.
Proprio per questo dichiariamo le nostre perplessità su
quelle che ci sembrano alcune forzature esegetiche, certo dovute ad eccesso
d'amore. Per quanto si rivolti un pezzo come Nobiltà nell'urna, non ci sembra di scorgere nessuna nostalgia per
la democrazia, una democrazia che Vito Forleo non amò particolarmente (come
certamente non amò il fascismo), né agli inizi del secolo, quando Diogene
Saturnino ridicolizzava un apprendistato elettorale fatto di "lazzi,
bestemmie, fumo di pipe, rutti di vino acido, pugni levati", né negli anni
del post-fascismo, quando la sola idea di un mini impegno politico lo faceva
ritrarre inorridito. Forleo volle essere una "anima bella", un dandy,
un flaneur le cui tentazioni
superomistiche si scioglievano in una pigrizia tutta jonica (senza troppo
contorno ideologico). Uno spirito aristocratico, nel senso migliore del
termine.
Siamo ormai in
grado di apprezzare una scrittura, senza una aprioristica etichettatura di
destra o di sinistra. Rinviando ad altra sede la discussione sulla sterilità
politica del "grande intellettuale" meridionale, ricordiamo ancora
Vito Forleo per quello che è stato: un uomo integerrimo che, dopo 50 anni di
attività al servizio della cultura, è stato liquidato dal Comune senza un rigo
di ringraziamento, ricompensato solo con i funerali a spese pubbliche (perché
altrimenti non si sapeva chi li avrebbe pagati), un posto nella colombaia del
cimitero e dieci amici sì e no a rendere l'estremo saluto.
E continuiamo ad ascoltare la sua voce, in quell'angolino
della ringhiera dove "don" Vito continua ancora ad amoreggiare con la
sua città, rinnovando il miracolo di far entrare il mare, anzi i due mari, nel
piccolo bicchiere della poesia.
Nessun commento:
Posta un commento