giovedì 24 luglio 2014

Biblioteca tarantina: Vito Forleo


Vito Forleo

Biblioteca tarantina


Schede a cura di Roberto Nistri


VITO FORLEO, Poemetti municipali (a cura di Aldo Perrone), Ed. del "Gruppo Taranto",  1984.
(Due mari in un bicchiere, in "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 7 maggio 1984)


      "Uno di questi splendidi pomeriggi di febbraio, mi è accaduto di sostare alla ringhiera del Canale, dalla parte che domina in pieno la città vecchia. Nella controluce dell'imminente tramonto, il grigio paesaggio di pietra prendeva non so quale stupore di sogno. Me la sentivo, la città vecchia, farsi tutta mia, quasi ricevessi un premio a cui fossi predestinato": sostando sull'angolo destro del Corso ai Due Mari, Vito Forleo si sentiva nell'ombelico dell'universo. S'immergeva nella sua Taranto, percependo tutte le vibrazioni più antiche e più sotterranee di una città impastata di storia e di acqua salata.
Da quell'angolino, a distanza di ottanta anni dalla sua opera prima I giorni di Diogene Saturnino, cinquantacinque dopo il suo capolavoro Taranto dove la trovo, a venti anni dalla morte, continua ancora a giungerci la voce ironica e garbata di "don" Vito con la pubblicazione dei Poemetti municipali, una raccolta di scritti pubblicati durante gli ultimi anni del fascismo, un piccolo gioiello editoriale (arricchito da una preziosa litografia di Nicola Carrino) dovuto alla competenza e all' amorosa cura di Aldo Perrone e del "Gruppo Taranto".
      Il timido e solitario Forleo, borgesiana figura di erudito bibliotecario della "Acclavio" e punto di riferimento per la cultura tarantina durante tutta la prima metà del secolo, torna in punta di piedi a raccontare le sue "storie" con il garbo e la tenerezza del grande dotto foderato da artista. Lui, che distillava parsimoniosamente la sua scrittura, con pause addirittura ventennali, incurante dei frenetici ritmi produttivi della grafomania locale e del maniacale culto del rumore e del chiacchiericcio, tipici della retorica basso provinciale.
      Questi Poemetti mostrano che Forleo è riuscito a non farsi catturare anche negli anni più duri, quando Taranto "autentica città fascista" era e si sentiva una perla del regime, e l'intellettuale di prestigio (a parte il sottobosco dei plaudenti per vocazione) era sottoposto a mil1e pressioni purché tirasse fuori qualche ditirambo in onore del Fascio. E Forleo niente. Schivo e sorridente, concluse il suo lungo viaggio attraverso il fascismo, dribblando tutti i ricatti e tutte le lusinghe, senza partorire neanche il più piccolo degli inni al duce, combattendo la sua personale "resistenza" trincerato in quella Biblioteca che era la sua roccaforte, inattaccabile da gerarchi e gerarchetti.
      E mentre il piccone fascista si abbatteva con becera prepotenza su Taranto vecchia, mentre le trombe annunciavano i destini imperiali di una Taranto "più bella che pria", Forleo scriveva di quando "per i dedalei quartieri, avevo perduto ore e ore a festeggiare un terrazzino, a ritrovare un arco, a incantarmi di un cortile, quando m'ero fatto una tragedia a temere che il piccone frettoloso non avesse dato tempo all'ultimo rudere del muro civico di morire con l'onore di una fotografia". E' questa la sua testimonianza, la passione per il tempo, l'amore per una terra della quale si conoscono tutti i profumi e tutte le rughe, un sentimento cantato con voce lieve, una voce che continua però a farsi ascoltare anche quando dal campo di battaglia sono scomparsi cavalieri e re, gerarchi e trombettieri del duce.
      Con mano felice Aldo Perrone ha ricostruito un itinerario culturale e ha fornito una proposta di lettura seria e provocatoria, che potrebbe sollecitare un dibattito non da poco sulla cultura meridionale.
Proprio per questo dichiariamo le nostre perplessità su quelle che ci sembrano alcune forzature esegetiche, certo dovute ad eccesso d'amore. Per quanto si rivolti un pezzo come Nobiltà nell'urna, non ci sembra di scorgere nessuna nostalgia per la democrazia, una democrazia che Vito Forleo non amò particolarmente (come certamente non amò il fascismo), né agli inizi del secolo, quando Diogene Saturnino ridicolizzava un apprendistato elettorale fatto di "lazzi, bestemmie, fumo di pipe, rutti di vino acido, pugni levati", né negli anni del post-fascismo, quando la sola idea di un mini impegno politico lo faceva ritrarre inorridito. Forleo volle essere una "anima bella",  un dandy, un flaneur le cui tentazioni superomistiche si scioglievano in una pigrizia tutta jonica (senza troppo contorno ideologico). Uno spirito aristocratico, nel senso migliore del termine.
      Siamo ormai in grado di apprezzare una scrittura, senza una aprioristica etichettatura di destra o di sinistra. Rinviando ad altra sede la discussione sulla sterilità politica del "grande intellettuale" meridionale, ricordiamo ancora Vito Forleo per quello che è stato: un uomo integerrimo che, dopo 50 anni di attività al servizio della cultura, è stato liquidato dal Comune senza un rigo di ringraziamento, ricompensato solo con i funerali a spese pubbliche (perché altrimenti non si sapeva chi li avrebbe pagati), un posto nella colombaia del cimitero e dieci amici sì e no a rendere l'estremo saluto.

E continuiamo ad ascoltare la sua voce, in quell'angolino della ringhiera dove "don" Vito continua ancora ad amoreggiare con la sua città, rinnovando il miracolo di far entrare il mare, anzi i due mari, nel piccolo bicchiere della poesia.

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