sabato 26 luglio 2014

Biblioteca tarantina: Narciso Bino



Biblioteca tarantina


Schede a cura di Roberto Nistri



NARCISO BINO, Lire funeste, a cura del Cspcr-Crsec , Taranto 1987.
(L'altra Taranto, in "Quotidiano",  27 gennaio 1988)

      Niente vale quanto un lottatore che rinuncia e niente è comparabile alla grandezza della capitolazione, scrive il filosofo rumeno Cioran. Ne deve essere convinto anche Narciso Bino che, per scrivere alcune bellissime pagine sulla Taranto ottocentesca, ha stabilito un autentico rapporto d'amore, se non di possessione, con l'inquietante figura di Domenico Sebastio, barone di Santa Croce, il bancarottiere suicida nel 1882 dopo il tracollo della Cassa Tarantina di Industria e Commercio, un emblematico personaggio che Bino ci presenta come "un perdente, un demone, un eroe negativo".    Stiamo parlando di Lirefuneste, una preziosa ricerca sulla storia dell'economia e del credito in Terra ionica, un volume fuori commercio magistralmente illustrato da Andrea Indellicati, a cura del Cspcr-Crsec di via Lisippo, diretto ad Giuseppe Orlando.
      Pur spaziando dalla storia della comunità ebraica all'impresa dei garibaldini, il fulcro della ricerca si raccoglie in un momento ben preciso: gli anni che precedettero il decollo de Il' Arsenale Militare, quando il Borgo era ancora giovane, quando tutti i giochi erano possibili e il futuro di Taranto non era ancora il suo destino. Prima che la città si definisse come piazzaforte militare, rompendo con il suo hinterland e con ogni autonoma progettualità, prima che la rivoluzione industriale imponesse al territorio un logica strategica ed eterodiretta, prima che il credito venisse stretto in una morsa fra la Banca di Sconto e Pegni (all' ombra del potere massonico) e la Banca di Credito Agricolo e Commerciale (all'ombra della struttura clericale), in questa fase decisiva l'iniziativa di Santa Croce ci viene presentata da Bino come una possibile alternativa per una borghesia che volesse essere autonoma nella sua progettualità e imprenditorialità.
      Domenico Sebastio, corretto operatore economico in un mondo profondamente inquinato dall'usura, cattolico che non si lasciava prevaricare dall’ arroganza arcivescovile, proponeva un linea di sviluppo passante per la difesa e la valorizzazione del Mar Piccolo, favorendo nel concreto quei pilastri dell'economia tradizionale che erano l'ostricoltura, la mitilicoltura, la piscicoltura. II porto mercantile si poteva sviluppare solo in alternativa alla monocoltura navalmilitare, di fronte alla quale il Barone era il solo fiero oppositore. Nel mentre Domenico Sebastio sanciva tragicamente la propria sconfitta con un colpo di pistola nella stazione di Napoli, il fato si era compiuto: tre giorni prima era stata istituita la legge per]' avvio dei lavori per il Regio Arsenale, iniziava l'inarrestabile esodo dalla Città Vecchia alla Città Nuova, un fiume di soldi pioveva sulle teste degli imprenditori filomarittimisti, i "signori del piccone" promuovevano una speculazione edilizia che doveva comportare sul lungo periodo un vero e proprio genocidio culturale.
      Bisogna subito dire che, malgrado la sua ritrosìa, Bino rivela il talento dello storico di razza. Non è lo storico che ama confrontarsi con la totalità, con i lunghi periodi e i grandi numeri, addivenendo a sintesi complessive attraverso lo studio sincronico e diacronico delle strutture. E' lo storico cacciatore che insegue la preda spiando orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco, ciuffi di peli, odori stagnanti. È lo storico investigatore che cerca il colpevole seguendo gli indizi, annusando un profumo, raccogliendo un' impronta digitale: ciò che gli sta particolarmente a cuore è l'individuum, non la globalità, gli interessa più cogliere l'albero che non la foresta.
      Rimane il problema del rapportare l'albero con la foresta. E se la ricerca di Bino incrementa notevolmente la nostra conoscenza sul periodo, non ci sembra che quella del Sebastio possa essere considerata una reale alternativa: e non per lo stantio argomento che chi perde ha sempre torto, ma perché non è possibile individuare attorno al Barone un blocco di forze, magari minoritario, ma dotato di una visibile consistenza. La stessa vicenda del fallimento (malgrado la tesi della congiura che viene adombrata, ci convince  che il buon Sebastio sia stato purtroppo un operatore abbastanza pasticcione e velleitario) e il rapido e completo oblio della sua figura, attestano l'isolamento della sua "via tarantina allo sviluppo" in una città bramosa di industrial-militarizzazione.
       Ringraziamo Narciso Bino per averci presentato in Lirefuneste questo Barone di Santacroce così smargiasso, così utopista e così perdente: lo riconosciamo come uno dei nostri, cioè quei pochi che si ostinano a sognare un'altra Taranto, che sarebbe stata più bella se il "mar picciolo" non fosse stato mutato "in militar cantiere".

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