Biblioteca tarantina
Schede a cura di Roberto Nistri
NARCISO BINO, Lire
funeste, a cura del Cspcr-Crsec , Taranto 1987.
(L'altra Taranto,
in "Quotidiano", 27 gennaio
1988)
Niente vale
quanto un lottatore che rinuncia e niente è comparabile alla grandezza della
capitolazione, scrive il filosofo rumeno Cioran. Ne deve essere convinto anche
Narciso Bino che, per scrivere alcune bellissime pagine sulla Taranto
ottocentesca, ha stabilito un autentico rapporto d'amore, se non di
possessione, con l'inquietante figura di Domenico Sebastio, barone di Santa Croce,
il bancarottiere suicida nel 1882 dopo il tracollo della Cassa Tarantina di
Industria e Commercio, un emblematico personaggio che Bino ci presenta come
"un perdente, un demone, un eroe negativo". Stiamo parlando di Lirefuneste, una preziosa ricerca sulla storia dell'economia e del
credito in Terra ionica, un volume fuori commercio magistralmente illustrato da
Andrea Indellicati, a cura del Cspcr-Crsec di via Lisippo, diretto ad Giuseppe
Orlando.
Pur spaziando
dalla storia della comunità ebraica all'impresa dei garibaldini, il fulcro
della ricerca si raccoglie in un momento ben preciso: gli anni che precedettero
il decollo de Il' Arsenale Militare, quando il Borgo era ancora giovane, quando
tutti i giochi erano possibili e il futuro di Taranto non era ancora il suo
destino. Prima che la città si definisse come piazzaforte militare, rompendo
con il suo hinterland e con ogni
autonoma progettualità, prima che la rivoluzione industriale imponesse al
territorio un logica strategica ed eterodiretta, prima che il credito venisse
stretto in una morsa fra la Banca di Sconto e Pegni (all' ombra del potere
massonico) e la Banca di Credito Agricolo e Commerciale (all'ombra della
struttura clericale), in questa fase decisiva l'iniziativa di Santa Croce ci viene
presentata da Bino come una possibile alternativa per una borghesia che volesse
essere autonoma nella sua progettualità e imprenditorialità.
Domenico
Sebastio, corretto operatore economico in un mondo profondamente inquinato
dall'usura, cattolico che non si lasciava prevaricare dall’ arroganza
arcivescovile, proponeva un linea di sviluppo passante per la difesa e la
valorizzazione del Mar Piccolo, favorendo nel concreto quei pilastri
dell'economia tradizionale che erano l'ostricoltura, la mitilicoltura, la
piscicoltura. II porto mercantile si poteva sviluppare solo in alternativa alla
monocoltura navalmilitare, di fronte alla quale il Barone era il solo fiero
oppositore. Nel mentre Domenico Sebastio sanciva tragicamente la propria
sconfitta con un colpo di pistola nella stazione di Napoli, il fato si era
compiuto: tre giorni prima era stata istituita la legge per]' avvio dei lavori
per il Regio Arsenale, iniziava l'inarrestabile esodo dalla Città Vecchia alla
Città Nuova, un fiume di soldi pioveva sulle teste degli imprenditori
filomarittimisti, i "signori del piccone" promuovevano una
speculazione edilizia che doveva comportare sul lungo periodo un vero e proprio
genocidio culturale.
Bisogna subito
dire che, malgrado la sua ritrosìa, Bino rivela il talento dello storico di
razza. Non è lo storico che ama confrontarsi con la totalità, con i lunghi
periodi e i grandi numeri, addivenendo a sintesi complessive attraverso lo
studio sincronico e diacronico delle strutture. E' lo storico cacciatore che
insegue la preda spiando orme nel fango, rami spezzati, pallottole di sterco,
ciuffi di peli, odori stagnanti. È lo storico investigatore che cerca il
colpevole seguendo gli indizi, annusando un profumo, raccogliendo un' impronta
digitale: ciò che gli sta particolarmente a cuore è l'individuum, non la globalità, gli interessa più cogliere l'albero
che non la foresta.
Rimane il
problema del rapportare l'albero con la foresta. E se la ricerca di Bino
incrementa notevolmente la nostra conoscenza sul periodo, non ci sembra che
quella del Sebastio possa essere considerata una reale alternativa: e non per
lo stantio argomento che chi perde ha sempre torto, ma perché non è possibile
individuare attorno al Barone un blocco di forze, magari minoritario, ma dotato
di una visibile consistenza. La stessa vicenda del fallimento (malgrado la tesi
della congiura che viene adombrata, ci convince
che il buon Sebastio sia stato purtroppo un operatore abbastanza
pasticcione e velleitario) e il rapido e completo oblio della sua figura,
attestano l'isolamento della sua "via tarantina allo sviluppo" in una
città bramosa di industrial-militarizzazione.
Ringraziamo
Narciso Bino per averci presentato in Lirefuneste
questo Barone di Santacroce così smargiasso, così utopista e così perdente: lo
riconosciamo come uno dei nostri, cioè quei pochi che si ostinano a sognare
un'altra Taranto, che sarebbe stata più bella se il "mar picciolo"
non fosse stato mutato "in militar cantiere".
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